Eppure Renzi, se volesse, potrebbe emulare persino Moro…

Nella ricerca ormai ossessiva delle discendenze o analogie politiche si è cercato di scavare nel passato anche a proposito della scissione del Pd consumata questa volta da Matteo Renzi, come due anni e mezzo fa dai suoi nemici ormai per la pelle Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni.  Che avevano brindato alla sua sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale, dopo averla apertamente osteggiata.

Ho sentito da qualche parte evocare persino il povero Aldo Moro, già scomodato durante la crisi d’agosto come anticipatore di Giuseppe Conte, per usarne il ricordo stavolta contro Renzi. Che si sarebbe comportato con la stessa irrazionalità e assurdità di un Moro che nel 1976, dopo avere spinto la Dc verso l’intesa di carattere eccezionale col Pci di Enrico Berlinguer, nonostante la contrapposizione elettorale, se ne fosse andato dal suo partito.

Il paragone, sia pure rovesciato -ripeto- in negativo, fatto per deplorare e non per giustificare l’iniziativa di Renzi, è di una evidente esagerazione per l’abisso, più che per la differenza, fra i due personaggi, anche se l’ex segretario del Pd e fondatore di “Italia Vera” è in qualche modo riconducibile alla storia della Dc: più a quella però del suo corregionale Amintore Fanfani che a quella di Moro, l’altro “cavallo di razza” dello scudo crociato.

Eppure, scavandoci sotto o riflettendoci sopra, il riferimento a Moro potrebbe diventare meno stravagante e assurdo di quanto non abbia pensato chi vi ha fatto ricorso in funzione antirenziana. E spero che quanto sto per scrivere, ove mai letto dall’interessato, non lo imbaldanzisca troppo facendolo molto, troppo paradossalmente sentire un nuovo Moro. Cui Renzi potrebbe paragonarsi davvero se solo volesse esprimere pubblicamente eventuali riserve sulla natura strutturale, persino a livello locale, che la dirigenza del Pd vorrebbe dare all’accordo con i grillini da lui proposto, a sorpresa, in via del tutto eccezionale, e con una prospettiva non di legislatura.

Moro fu certamente l’artefice dell’intesa del 1976 con Berlinguer, al quale però fece ingoiare persino un governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti: uno degli esponenti della Dc fra i più lontani, obiettivamente, dal Pci. E che proprio per questo costituiva un elemento di riequilibrio e di garanzia oltre Tevere e Oceano Atlantico. Il guaio fu, per l’allora presidete della Dc, che ad un certo punto la gestione di quell’intesa da parte di Andreotti a Palazzo Chigi e del suo amico ed estimatore Benigno Zaccagnini a Piazza del Gesù, come segretario del partito, andò ben oltre i suoi progetti o intenzioni. Se ne accorse, poveretto, un anno e mezzo dopo, verso la fine del 1977, quando Berlinguer non ce la fece più a trattenere i mal di pancia nel Pci e provocò la crisi reclamando un passo avanti sulla strada di nuovi equilibri politici.

Il leader comunista chiese ad Andreotti e a Zaccagnini per via riservata, ma non tanto da sfuggire alle orecchie e all’intuito di Moro, di fare entrare nel governo almeno due indipendenti di sinistra eletti nelle liste del Pci.

Quando Moro se ne accorse non si lasciò certo tentare -figuriamoci, col suo carattere- di minacciare e tanto meno di preparare e realizzare un’uscita dalla Dc, come ha appena fatto Renzi col Pd. Egli lavorò con pazienza e ostinazione per impedire che la richiesta di Berlinguer fosse accettata da Andreotti e da Zaccagnini, che ne erano molto tentati pur di non chiudere anzitempo la stagione politica della cosiddetta “solidarietà nazionale” e trattare un nuovo centrosinistra col Psi passato nel frattempo dalla guida di Francesco De Martino a quella di Bettino Craxi. Che era disponibile a riprendere la collaborazione con lo scudo crociato, e ricacciare il Pci all’opposizione, ma non a buon mercato, diciamo così.

Moro afferrò nelle sue mani le trattative, dietro e davanti alle quinte, e convinse Berlinguer della impraticabilitàMoro e Berlinguer.jpg politica della sua richiesta, sul piano interno per i rischi  di rottura dell’unità democristiana e sul piano internazionale per i rapporti con gli Stati Uniti. Dove già avevano storto il muso per la mezza partecipazione del Pci alla maggioranza, astenendosi nelle votazioni di fiducia al governo Andreotti, e avrebbero storto qualcosa di più e di diverso in caso di nomina a ministri di eletti nelle liste comuniste.

Berlinguer si acquietò ripiegando su un programma di governo da concordare più dettagliatamente e incisivamente di quanto non fosse stato fatto nel 1976. E ciò per consentire al Pci di passare dall’astensione al voto di fiducia vero e proprio, dalla mezza maggioranza alla maggioranza intera, dall’anticamera alla camera della spartizione del potere e sottopotere, perché esistevano già allora enti pubblici, consigli d’amministrazione, cariche di alta burocrazia e quant’altro da assegnare con criteri politici.

A trattativa conclusa, tuttavia, Berlinguer tentò, con un altro approccio diretto ad Andreotti e a Zaccagnini, di ottenere qualcosa in più da spendere sul terreno della propaganda: la testa di qualche ministro uscente. Furono individuate, in particolare, quelle di Antonio Bisaglia e di Carlo Donat-Cattin, distintisi nella Dc durante la crisi per le resistenze opposte ad una maggiore apertura al Pci. Ma quando Moro se ne accorse, leggendo la lista dei ministri portata di sera da Andreotti a un vertice democristiano alla Camilluccia, prima di salire al Quirinale per sottoporla alla firma del capo dello Stato, il presidente del partito disse no. E impose la conferma di entrambi i democristiani dicendo che la Dc sarebbe finita se avesse accettato di farsi selezionare la classe dirigente dagli altri.

Alcune decine di migliaia di copie del giornale ufficiale del Pci già stampate con la lista dei ministri promessa a Berlinguer dal presidente del Consiglio furono ritirate dalla spedizione e macerate. Nei gruppi parlamentari comunisti il malumore crebbe sino alla minaccia di non votare più la fiducia al governo che stava per presentarsi alle Camere. Lo stesso Zaccagnini nella Dc voleva dimettersi da segretario. Tutto rientrò solo perché la mattina del 9 marzo 1978, andando proprio alla presentazione del governo a Montecitorio, Moro fu sequestrato dai brigatisti rossi fra il sangue della sua scorta, decimata. Dopo 55 giorni di drammatica prigionia, e di convulsa gestione governativa e partitica della cosiddetta linea della fermezza imposta dal Pci ad una Dc a dir poco sconvolta dagli eventi, sarebbe stato ucciso pure Moro. Meno di un anno dopo sarebbe finita anche la maggioranza di “solidarietà nazionale”, o di “compromesso storico”, come preferiscono chiamarla persone di cattiva memoria o storici improvvisati. Il compromesso storico proposto da Berlinguer era tutt’altra cosa dall’operazione concepita e gestita da Moro.

 

 

 

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I molti affanni della famiglia tutta politica di Silvio Berlusconi

             Matteo Renzi non sarà suo “figlio politico”, come ha precisato Silvio Berlusconi in un’intervista al Corriere della Sera mentre Marco Travaglio ancora rimproverava al senatore di Scandicci di essere andato a riverirlo ad Arcore, quando era sindaco di Firenze e l’altro presidente del Consiglio, baciandogli mani e pantofole pur ricavarne benefici a Palazzo Vecchio, dove il giovanotto regnava da sindaco..

            Renzi, sempre lui, sarà pure un “uomo di sinistra”, sempre secondo Berlusconi, per quanto ad essa inviso per avere seguito a Palazzo Chigi una politica “di destra” facendo entrare al Nazareno, dove disponeva dell’ufficio di segretario del Pd, “la mucca” evocata in televisione da Pier Luigi Bersani, decisosi alla fine ad uscirne perché quell’animale vi si era troppo insediato.        Ancòra, l’ormai ex piddino Renzi     avrà pure permesso, con le sue improvvise aperture ai grillini, la formazione del governo “più di sinistra” nella storia del Paese, sempre secondo le valutazioni del Cavaliere. Che pure sino a qualche settimana fa collocava i pentastellati a destra, pericolosi quasi quanto i nazisti ai loro tempi in Germania.

             Renzi, infine, potrà pure scordarsi di poter pescare voti in quel che resta del bacino elettorale “moderato” di Forza Italia, sempre secondo Berlusconi, nonostante le voci che corrono sui parlamentari forzisti attratti dall’”Italia Vera”, messa sul mercato politico dall’ex segretario del Pd. Ma due cose sono certe, anzi certissime.

            La prima certezza è quella visita fatta da Berlusconi in persona a Renzi al Nazareno, negli ultimi giorni del governo di Enrico Letta, che aveva per un po’ vissuto anche della fiducia dell’allora senatore di Arcore, prima che perdesse il seggio perché condannato in via definitiva per frode fiscale. Fu una visita disinvolta, diciamo così, sia per l’invitante sia per l’invitato, che si accordarono su un percorso addirittura di riforme istituzionali. Poi, d’accordo, non se ne fece più nulla a causa dell’impuntatura di Renzi per mandare al Quirinale Sergio Mattarella, anziché Giuliano Amato, al posto dell’ormai sfinito Giorgio Napolitano, rieletto due anni prima. Ma quell’accordo sulla strada delle riforme era stato raggiunto da entrambi senza alcuna sofferenza, non pensando l’uno che l’altro fosse troppo di sinistra o, viceversa, troppo di destra, come a quei tempi Berlusconi veniva considerato, non avendo ancora provato quelli del Pd il centrodestra a trazione leghista destinato ad uscire dalle urne il 4 marzo dell’anno scorso, con tutto quello che poi ne derivò: un governo gialloverde consentito a Salvini anche da Berlusconi per evitare le elezioni anticipate.

            La seconda certezza è lo stato obiettivamente confusionale in cui si trova il partito di Berlusconi da un bel po’ di tempo, e che è ulteriormente cresciuto proprio con la decisione di Renzi di uscire dal Pd e di mettersi in proprio in uno spazio politico un po’ meno di sinistra, diciamo così, dove invece per comodità il Cavaliere vorrebbe inchiodarlo addebitandogli per intera la responsabilità del governo giallorosso. E ciò senza mai pronunciare una parola di smentita alle ricorrenti notizie su contatti, in entrata e in uscita, del suo fedele ex sottosegretario a Palazzo Chigi col presidente del Consiglio in carica, con l’occhio e le orecchie rivolte ai problemi che l’attuale governo potrebbe incontrare per l’azione dei renziani in Parlamento, soprattutto al Senato. Dove i numeri di qualsiasi maggioranza sono notoriamente ballerini, ragion per cui Renzi aveva previsto nella sua riforma di riservare la fiducia all’esecutivo solo alla Camera.

            “Forza Italia ha sempre votato, con qualsiasi governo, i provvedimenti che riteneva positivi per l’Italia e gli italiani”, si è vantato lo stesso Berlusconi nella sua intervista al Corriere della Sera, anche se ha aggiunto, quasi in un ossimoro politico, che “qualunque forma di sostegno verso questa maggioranza o verso questo esecutivo è e sarà del tutto impossibile”. Questo una volta si chiamava, con la lingua dello stesso Berlusconi, “il teatrino della politica”. Il Cavaliere se n’è forse impratichito troppo nei suoi 25 anni e più ormai di esperienza politica, appunto. E si trova spesso anche lui in mezzo al guado in cui tante volte si è compiaciuto di vedere o di avere messo gli altri.

 

 

 

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Clamorosa gaffe di Conte alla festa del partito di D’Alema sui rapporti con l’Europa

              Pur graziato generosamente dai giornali col silenzio o la distrazione, Giuseppe Conte ha compiuto una clamorosa gaffe nell’intervista concessa ad Enrico Mentana sul palco della festa di “Articolo uno”, o dei “liberi e uguali” appena entrati nel suo secondo governo col ministro della Sanità Edoardo Speranza.

            Accolto personalmente da Massimo D’Alema e sommerso dalle simpatie del pubblico ripresosi dalla Conte alla festa Leu.jpgdelusione procurata dal segretario del Pd Nicola Zingaretti, sottrattosi all’ultimo momento ad un analogo appuntamento per non dipingersi troppo di rosso dopo la rottura consumatasi con Matteo Renzi, il presidente del Consiglio ha svelato una poco consolante abitudine praticata nei quattordici mesi di alleanza e collaborazione con i leghisti di Matteo Salvini. Cui egli non ha perdonato il tentativo di investire in elezioni anticipate il raddoppio di voti conseguito il 26 maggio nel rinnovo del Parlamento Europeo, e il dimezzamento di quelli dei grillini. E neppure, o soprattutto, la oggettivamente imprudente richiesta di “pieni poteri” avanzata agli elettori da una delle spiagge frequentate a ridosso della crisi di governo.

            In particolare, il presidente del Consiglio ha raccontato al pubblico di D’Alema e compagni di avere dovuto trascorrere da giugno dell’anno Conte.jpgscorso ad agosto di quest’anno i suoi week end al telefono con Bruxelles, Parigi, Berlino, Madrid, Lisbona, Malta e chissà quante altre capitali europee per chiedere “la cortesia personale” di accollarsi una parte dei migranti via via bloccati sulle navi dal suo ministro dell’Interno -Salvini, appunto- con la pratica dei porti chiusi, sino a quando non se ne fosse ripartito il carico di turno fra i paesi dell’Unione.

            Quelle parole di Conte –“cortesia personale”- costituiscono una gaffe non tanto nei riguardi dell’allora suo ministro dell’Interno, che pertanto può ben dire oggi di non essere stato mai spalleggiato davvero dal presidente del Consiglio nella gestione del traffico dei migranti, quanto nei riguardi del Paese e del governo in carica. Che evidentemente non erano considerati dal presidente del Consiglio abbastanza autorevoli e solidi perché lui potesse reclamare atti giusti, non “cortesie personali”. Non si erano francamente mai viste e sentite cose del genere nella storia dei tanti governi succedutisi nell’Italia monarchica e poi repubblicana.

            Si può anche capire, per carità, il sollievo procurato a Conte dall’idea di non avere più un alleato e un ministro dell’Interno così debordante, a dir poco, come il leader leghista, che al Viminale gli faceva concorrenza anche ricevendo i sindacati per la preparazione del bilancio dello Stato e poi disertava gli analoghi incontri promossi a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio, ma quella storia delle interlocuzioni personali e di cortesia con gli omologhi europei sullo spinosissimo terreno dell’immigrazione -troppo a lungo e vergognosamente scaricata dall’Unione sulle spiagge, e spalle, dell’Italia solo per la sua posizione geografica- sta francamente molto poco in piedi. E grida un po’ anche vendetta, quanto certi metodi o certe pose dell’ormai ex ministro dell’Interno.

            La partecipazione alla festa dei “liberi e uguali” di D’Alema, Pier Luigi Bersani, Speranza e compagni ha fornito a Conte anche l’occasione per replicare in diretta, diciamo così, all’attacco sferrato dal grillino Alessandro Di Battista al Pd, liquidato come “un partito ipocrita e pericoloso”, con cui tuttavia il Movimento delle 5 Stelle sta trattando anche alleanze o convergenze locali, prima ancora di farsene autorizzare dai militanti col solito referendum digitale. “Me ne fido”, ha detto e replicato invece Conte parlando del partito guidato da Nicola Zingaretti e appena scosso e indebolito dall’uscita di Matteo Renzi. Che disporrà di  un gruppo autonomo anche al Senato, e non solo alla Camera, per un accordo preso col partito socialista  di Riccardo Nencini, del cui nome elettorale –“Insieme”- già speso nelle urne dell’anno scorso Renzi potrà avvalersi per accompagnarlo alla sua “Italia Viva”.

            Va detto, a proposito di Renzi e della sua nuova creatura politica, che con la solita, curiosa coincidenza Il Fatto.jpgai suoi primi vagiti sono seguite le cronache giudiziarie del Fatto Quotidiano e altre testate sulle inchieste e perquisizioni a carico del presidente della fondazione a lungo finanziatrice “Open”, Alberto Bianchi. E ciò per il reato di “traffico di influenze”, come si chiama ora penalmente la vecchia pratica delle raccomandazioni.  

 

 

 

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L’uscita di Renzi blocca a sorpresa il ritorno di D’Alema e compagni nel Pd

             A sorpresa ma non troppo, in questa stagione politica dominata forse più dagli umori che dai progetti, più dai dispetti che dai confronti, più dai capricci che dai sentimenti, l’uscita di Matteo Renzi dal Pd per mettersi in proprio con la sua “Italia vera” ha bloccato il rientro di Massimo D’Alema nel partito da cui era uscito più di due anni fa con Pier Luigi Bersani, Pietro Grasso, Edoardo Speranza, ora ministro della Sanità nel governo giallorosso di Giuseppe Conte, e altri.

            L’annuncio lo ha dato lo stesso D’Alema parlando a Milano, giusto per il gusto -penserà qualcuno- di smentire Renzi, che nel salotto televisivo di Bruno Vespa aveva dato per sicuro, appunto, il ritorno a casa dell’uomo da lui “rottamato” nel Pd appena divenutone Reni e D'Alema ridenti.jpgsegretario. Ma non è un problema solo personale dei due ex amici, dei quali rimane negli album qualche fotografia di incontri Renzi e D'Alema in cagnesco.jpgcordiali e scambi di regali. No, Renzi con la sua scissione ha creato questioni serie di schieramento e persino d’identità nel Pd di Nicola Zingaretti. Che non a caso ha disertato all’ultimo momento la partecipazione ad una festa di partito in cui doveva confrontarsi col ministro Speranza. Il quale, a sua volta, ha smentito pure lui, come D’Alema, sia pure in modo meno accidioso, il ritorno nel Pd  -almeno per ora- degli scissionisti del 2017.

            Il partito di Zingaretti insomma, con la comprensione dei suoi compagni separati, non vuole tingersi di rosso più di quanto non sia avvenuto  durante la crisi d’agosto, quando il segretario prima ha aperto improvvisamente ai grillini e poi è speso dietro le quinte per fare entrare nel governo e nella maggioranza anche i “liberi e uguali”, appunto, di Bersani, D’Alema, Grasso e Speranza. Che peraltro si erano già affacciati nelle liste del Pd nelle elezioni europee del 26 maggio scorso.

            Anche ai compagni separati, d’altronde, dev’essere alla fine apparso più vantaggioso rimanere “distinti e distanti”, come diceva di altri ai suoi tempi Francesco Cossiga, dal partito di Zingaretti perché consapevoli che in una maggioranza a quattro – Grillini, Pd, Leu e Italia viva-  Renzi avrebbe Renzi.jpgmeno peso e forse anche spazio di manovra che in una maggioranza a tre, pur disponendo al Senato dei voti necessari per affondare il governo. Ciò,  naturalmente, a meno di soccorsi sotto traccia che potrebbero provenire a questo punto solo da Forza Italia. Dove le cronache attingono voci e quant’altro, senza uno straccio di smentita,  di affannosi contatti fra Conte in persona e la Corte, diciamo così, al maiuscolo, di Arcore divisa fra la paura di un centrodestra a forte trazione leghista e di un ricorso anticipato alle urne che, specie dopo la scissione di Renzi, metterebbe ancora più a rischio la sopravvivenza di Forza Italia.  

            L’estate è ormai alle ultime battute. Ma l’autunno politico si prospetta non meno caldo, come una volta accadeva solo in campo sindacale.

 

 

 

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Renzi fra le “perplessità” di Conte e gli insulti di Grillo e dintorni

             Con la sua uscita dal Pd per mettersi in proprio nella maggioranza giallorossa da lui stesso promossa, e in qualche modo imposta al riluttante Nicola Zingaretti, arrivato alla crisi cavalcando pure lui le elezioni anticipate reclamate dalla Lega, Matteo Renzi ha fatto il previsto pieno delle paure e degli insulti. Ma è proprio quello che forse cercava, sempre spavaldo nelle sue sfide e mai completamente piegato dalle sue sconfitte.

            La reazione più acuminata e indicativa delle preoccupazioni provocate dall’annuncio dell’arrivo sul mercato politico del partito renziano chiamato “Italia viva” è stata quella del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che, per nulla tranquillizzato -mi pare- da una telefonata del suo predecessore a Palazzo Chigi, sia pure non diretto, ha tenuto a far conoscere le sue “perplessità” con un argomento per niente banale, come potrebbe essere indotto a ritenere chi si sofferma solo al problemi dei “tempi” sollevato dal capo del governo. Che ha invece lamentato, proprio aggrappandosi alla questione dei tempi, di non avere potuto valutare per bene la situazione e le forze in campo quando ha deciso, una volta subìta la crisi per iniziativa di Matteo Salvini, di lasciarsi ricandidare con forza dai grillini per un repentino cambio di maggioranza. Su cui, presentando il nuovo governo alle Camere, egli ha onestamente ammesso di avere avuto esitazioni e dubbi.

            La reazione di Conte è un po’ quella di uno che forse si sarebbe tirato indietro se avesse saputo di dover trattare con Renzi non attraverso il segretario dell’allora suo partito, Zingaretti, ma murale.jpgdirettamente, come capo di un partito autonomo che ha l’azione d’oro della maggioranza almeno al Senato. Dove lo stesso Renzi e i parlamentari che hanno già deciso di seguirlo, trasferendosi nel gruppo misto per mere ragioni di regolamento, non per insufficienza numerica, potrebbero fargli mancare la fiducia in qualsiasi momento, a meno di soccorsi berlusconiani sotto banco, con sapienti assenze all’occorrenza.

            Gli insulti rovesciatisi su Renzi sono naturalmente quelli dei grillini, e dintorni. Beppe Grillo in persona si è esibito sul suo blog irridendo a quello che ai tempi d’oro già chiamava “l’ebetino” con un fotomontaggio che lo ritrae desolatamente solo in una sala cinematografica con due contenitori pieni di pop-corn acquistati l’anno scorso, quando si propose di farne un’indigestione godendosi lo spettacolo della maggioranza gialloverde, e impedendo che sul palco del governo sotto le cinque stelle saltasse già allora il Pd.

            In una lettera ai parlamentari di Renzi il comico genovese ha liquidato l’avventura del nuovo Schermata 2019-09-17 alle 22.41.20.jpgpartito come “una minchiata”. Ne ha sviluppato il concetto Marco Travaglio scrivendo sul Fatto Quotidiano dell’irriducibile, incontenibile abitudine di Renzi di essere insieme “furbo e fesso”. Travaglio.jpgEppure sulla stessa prima pagina del suo giornale Travaglio, in un titolo sotto la testata, ha attribuito agli obiettivi di Renzi quello non proprio secondario e “fesso” di contrastare la corsa dei suoi ormai ex compagni di partito verso la trasposizione della maggiorana giallorossa a livello locale, facendone un’operazione strutturale e strategica da straordinaria e provvisoria, in funzione antisalviniana, come lui invece l’aveva concepita rinunciando ai già ricordati pop-corn.

            In sintonia così frequente con Travaglio da non poter essere ormai più considerata casuale, si è ritrovato La Verità.jpgda destra Maurizio Belpietro con la sua Verità prendendosela col “contaballe” Renzi e con gli “allocchi” che gli andrebbero dietro, ancor più se il manifesto.jpgdovessero decidere di votarlo alla prima occasione possibile. Più sobrio, in fondo, è stato il manifesto rovesciando sarcasticamente in “senza di te” il veccio hastag “senza di me” di Renzi e amici quando di grillini non volevano sentir parlare. E Luigi Di Maio neppure parola di Di Maio.jpgsognava di poter dire un giorno a Renzi dall’interno del governo ciò che gli ha fatto dire Repubblica: “Non tollero nuove tensioni. Lo ha già fatto qualcun altro e ci è bastato”. L’altro è naturalmente Salvini, Matteo anche lui.

           Questa storia dei Mattei sembra una maledizione, come la serenità raccomandata da Renzi all’interlocutore di turno: da Enrico Letta a Giuseppe Conte. Col quale tuttavia, stando sempre a Repubblica, Renzi parola di Renzi.jpgsarebbe ricorso ad un’altra formula, esortandolo a “non avere ansie”.  Che invece il presidente del Consiglio ha avvertito e avverte, al centro, e di spalle, in quel murale che lo ritrae tempestivamente sotto il tiro del nuovo Cupido mentre parla allegramente con Zingaretti e Di Maio.  Sarà almeno la fortuna dei vignettisti e simili.

 

 

 

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Ricordando Massimo Bordin e la sua vittoria postuma nella guerra di Radio Radicale

Fra qualche giorno, il 19 settembre, saranno trascorsi già quattro mesi dalla morte di Massimo Bordin. Del quale mi manca ancor più di quando smise di condurla, piegato dalla malattia che l’aveva aggredito, quella personalissima, inconfondibile rassegna stampa mattutina su Radio Radicale, di cui era stato a lungo anche direttore riuscendo peraltro a polemizzare con Marco Pannella senza mai rompere davvero: cosa che da sola ne aveva fatto un mito, a cominciare dagli occhi, dalla mente e dal cuore dello stesso Pannella.

L’ultima battaglia condotta da Massimo fu per il salvataggio di Radio Radicale, che sembrava condannata da una curiosa guerra dichiarata dai grillini e condotta dall’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio con la delega dell’editoria: il già capogruppo del Movimento delle 5 Stelle al Senato Vito Crimi. Si voleva la fine dell’emittente in nome della lotta agli sperperi e alle sovvenzioni pubbliche ad una informazione incapace di vivere dei propri mezzi.

Eppure Radio Radicale non era e non è un’emittente qualsiasi. Era ed è particolarissima nel suo genere, forte di una convenzione approvata dalle maggioranze politiche dei più diversi colori, succedutesi per decenni, per lo svolgimento di un servizio pubblico costituito dalle trasmissioni in diretta e differita dei lavori parlamentari. Ma è stato servizio pubblico, anche se non da convenzione, pure quello reso da Radio Radicale al pubblico italiano trasmettendo congressi di partito, senza discriminazione alcuna, altre loro manifestazioni, convegni di studio e quant’altro. Il suo archivio, fonico e televisivo, può ben essere considerato un patrimonio di interesse e valore inestimabile, come alla fine hanno riconosciuto anche quelli decisi sostanzialmente a farla chiudere.

L’ostinazione dei grillini in questa -ripeto- curiosa offensiva contro Radio Radicale aveva resistito a tutto, anche all’azione di persuasione svolta dietro le quinte dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Mi colpì l’improvvisazione -permettetemi di dirlo- con la quale nella conferenza stampa di fine dell’anno scorso, rispondendo ad una domanda sull’argomento, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte liquidò il problema di Radio Radicale sostenendo che avrebbe potuto provvedere al suo sostentamento, senza la convenzione pubblica, ricorrendo alle tradizionali risorse dell’editoria, a cominciare dalla pubblicità e dalle sponsorizzazioni. Ma la forza distintiva di Radio Radicale era ed è proprio quella di rifuggire dalla pubblicità e mezzi similari. Bastava avere seguito una sola giornata della sua programmazione per capirlo. Forse l’avvocato e professore approdato inusualmente a Palazzo Chigi non aveva mai avuto il tempo o l’occasione di sintonizzarvisi.

Poi Conte -si sa- è cresciuto di suo politicamente, come ha dimostrato riuscendo a succedere a se stesso in una crisi di governo che è stata generalmente definita, e non a torto, come la più pazza del mondo, o quanto meno delle non poche crisi della nostra storia repubblicana. Oso credere, o sperare, che il presidente del Consiglio non si avventurerà più a parlare come allora di Radio Radicale, nel frattempo del resto da lui stesso lasciata in qualche modo sopravvivere con un espediente provvisorio passato in Parlamento, secondo me, anche per la forte emozione provocata dalla morte di Massimo Bordin. A sostituire il quale nella conduzione delle rassegne stampa mattutine di Radio Radicale vi è stata una commovente e solidale gara dei colleghi più qualificati, e delle più diverse testate, anche della nostra nella persona del direttore Carlo Fusi,  sentitisi giustamente in debito con lui.

Pungente, abrasivo, sarcastico come solo lui sapeva essere nei suoi appuntamenti col pubblico, e incredulo di fronte all’ostinazione con la quale Vito Crimi da Palazzo Chigi conduceva la suaCrimi.jpg battaglia contro Radio Radicale con la totale copertura del Ministero dello Sviluppo Economico da cui materialmente dipendeva la sorte della convenzione, guidato d’altronde dal capo in persona del suo Movimento, Luigi Di Maio, il mio amico Massimo coniò per l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio la definizione di “gerarca minore”. Me ne sono ricordato quando ho visto rimuovere Crimi da quell’incarico nel nuovo governo di Conte, sia pure promosso a vice ministro dell’Interno, per essere sostituito da Andrea Martella, del Pd.

Mi sono chiesto come avrebbe reagito alla notizia della nuova destinazione di Crimi nella sua conduzione di “Stampa e regime” Bordin parlandone ai suoi ascoltatori. Forse si sarebbe limitato, per non infierire, a fingere una volta tanto uno di quei suoi colpi di tosse, uno degli attacchi della sua raucedine per tanto, troppo tempo -ahimè- sottovalutati. E che ce l’hanno portato via troppo presto. Ciao, Massimo. Ce l’hai fatta a salvare la tua e nostra Radio Radicale,  anche da lassù.

 

 

 

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Lo scherzo da prete di Renzi a Zingaretti uscendo dal Pd dopo averlo spinto a sinistra

              Matteo Renzi – il “Mezzo toscano”, lo hanno definito al manifesto, con lo stesso soprannome assegnato a suo tempo dai detrattori al democristianissimo Amintore Fanfani dileggiandone la bassa statura fisica, che Renzi però non ha- ha fatto il previsto scherzo da prete al segretario del Pd Nicola Zingaretti. Prima lo ha spinto a sinistra verso l’accordo di governo con i grillini tra il plauso e la partecipazione dei transfughi Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema, Edoardo Speranza, Pietro Grasso e compagni, e ora si sposta a destra, o quanto meno al centro, per poter contestare, quando occorrerà, la gestione dell’intesa.

            L’annuncio del distacco, con la formazione di gruppi parlamentari autonomi, uno alla Camera e mezzo al Senato, dove i suoi potranno confluire solo nel gruppo misto, lo ha dato lo stessoReoubblica.jpg Renzi scegliendo le testate il Giornale.jpgdi Repubblica e del Giornale della famiglia di Silvio Berlusconi, al quale peraltro egli spera di portar via, tra Montecitorio e Palazzo Madama, qualcuno stanco della declinante Forza Italia, già insidiata a destra dalla Lega di Matteo Salvini e dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

            Una pesca anche fuori dal Pd è la sola che potrebbe giustificare la promessa fatta da Renzi in persona a Giuseppe Conte -in una telefonata che però non avrebbe del tutto convinto il presidente del Consiglio, rimasto Il Secolo XIX.jpgugualmente “allibito” secondo il titolo del Secolo XiX- di “allargare la base parlamentare” Il Foglio.jpgdel suo secondo governo. E’ stato insomma un invito dei suoi, diciamo così, a stare sereno, su cui ha scherzato il vignettista del Foglio immaginando però all’altro capo del telefono di Renzi non Conte, ma il segretario del Pd Zingaretti, e alludendo naturalmente all’esperienza amara di Enrico Letta. Che di “serenità” promessagli da Renzi con un messaggio elettronico conobbe nel 2014 solo quella procuratagli con una crisi costatagli la guida del governo.

            La scissione, separazione o come altro si vorrà chiamare quella maturata e ora anche annunciata da Renzi faciliterà il ritorno nel Pd dei Bersani, D’Alema, Speranza, Pietro Grasso ed altri usciti nel 2017 rompemdo proprio con lui che lo guidava, anche dopo avere perduto il referendum sulla sua riforma costituzionale, a dispetto del ritiro dalla politica imprudentemente promesso prima del voto, e usato dai dissidenti proprio per contribuire alla sconfitta, addirittura brindandovi.  Ma va detto che il ritorno al Pd degli scissionisti “liberi e uguali” di due anni e mezzo fa era già nell’aria da tempo con l’avvenuto della segreteria Zingaretti, grazie alla quale essi sono appena entrati nel governo e relativa maggioranza.

            Ciò consente di sospettare che nel distacco di Renzi ci sia anche un comprensibile tasso di vendetta: un piatto che, si sa, viene di solito servito freddo. D’altronde, allo stesso Renzi è stato attribuito, senza smentite, questo sfogo dopo la “derenzizzazione” del Pd praticata da Zingaretti per pagare i debiti della sua elezione: “Non posso più stare con i mei carnefici”.

            Ora non solo Zingaretti ma Conte in persona dovrà trattare con Renzi come una parte Belpietro.jpgautonoma della nuova maggioranza giallorossa creata in funzione antisalviniana. L’uomo siederà al tavolo di questa maggioranza anche “per le nomine” del vasto, anzi vastissimo campo del sottogoverno, come ha perfidamente osservato sulla sua Verità Maurizio Belpietro. Che non gli ha mai perdonato di averci mezzo lo zampino, diciamo così, nella rottura con l’editore Angelucci e la perdita della direzione di Libero durante la campagna referendaria sulla riforma costituzionale.

 

 

 

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Salvini ritrova il suo popolo a Pontida, i grillini e il Pd le loro abitudini

            Pur reduce da una crisi di governo da lui provocata e rivelatasi improvvida per il risultato prodotto, ritrovandosi adesso la Lega all’opposizione in Parlamento, Matteo Salvini ha ritrovato il suo popolo a Pontida. Dove l’affluenza Salvini 3 .jpgal tradizionale raduno settembrino del Carroccio -valutata dagli 80 ai 90 mila partecipanti- ha superato anche quella dei tempi migliori di Umberto Bossi.

            Lo spettacolo successivo al suo comizio, con quella folla in mezzo alla quale l’ex ministro dell’Interno si muoveva raccogliendo strette di mano, incoraggiamenti, rosari, crocifissi e quant’altro, e accarezzando bambini protesi da genitori e nonni, ha indotto Pier Luigi Battista sulla prima Battista sul Corriere.jpgpagina del Corriere della Sera a consigliare prudenza ai protagonisti della nuova maggioranza di governo, impegnati ora a ripetere l’operazione antisalviniana anche a livello locale, a cominciare dall’Umbria, dove si voterà fra poco più di un mese. “Il Pd e i Cinque Stelle -ha scritto l’editorialista del più diffuso giornale italiano- farebbero molto male a non prestare attenzione alla folla in estasi salviniana che ha riempito il tradizionale pratone di Pontida”.

            Anche Federico Geremicca, abituato per storia familiare a conoscere bene il popolo di sinistra, e non solo i dirigenti dei partiti di riferimento, ha Geremicca.jpgavvertito sulla Stampa: “Il punto sarà l’imprevedibile risposta che daranno nelle urne i due elettorati, allenati da anni a suonarsele di santa ragione”. In più, egli ha sottolineato l’aspetto un po’ ipocrita dell’operazione, in cui gli attori della maggioranza giallorossa si camuffano dietro accordi “civici” per fare ciò che non hanno il coraggio di dire con franchezza.

            La prudenza è stata la matrice, almeno nei titoli, anche di un giornale come Repubblica, spesosi parecchio prima e durante la crisi nella demonizzazione di Salvini, usando e persino abusandoRepubblica.jpg delle occasioni imprudentemente fornite dall’interessato con gesti e parole oltre misura. Il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari si è limitato a Repubblica 2 .jpgriferire su tutta la sua prima pagina “l’urlo di Pontida: torneremo”, resistendo alla tentazione dell’attacco o della derisione della sua inviata -credo- Brunella Giovara. Che nella cronaca ha inchiodato Salvini alle parole di Mussolini durante la sciagurata guerra mondiale condotta con Hitler: “Vincere” e “Vinceremo”. Lo sventurato, come ricorderanno i meno giovani, anche quelli nati dopo la guerra ma che se le rtrovarono per un bel po’ viaggiando per le strade, insozzò di quelle parole con vernice nera  i muri d’Italia.

            Per quanto affetto dalla “solitudine” rimproveratagli sul Messaggero e sugli altri giornali del gruppo Caltagirone da Alessandro Campi, e costretto a cercare con un certo affanno “i vecchi alleati” del centrodestra, a Campi.jpgcominciare naturalmente da Silvio Berlusconi in persona, col quale ha pranzato qualche giorno fa a Milano, Salvini non è francamente sembrato in grandi difficoltà davanti alla sua gente a Pontida. Dove ha sventolato lo strumento pannelliano del referendum contro il tentativo di relegarlo a lungo all’opposizione col ripristino della vecchia legge elettorale proporzionale della cosiddetta prima Repubblica. Ed ha contrapposto -con demagogia, certamente, ma anche con una certa efficacia che essa assume in certi momenti- il “governo del Palazzo”, appena realizzato da Giuseppe Conte cambiando repentinamente maggioranza, al “governo del popolo” da lui evocato durante la crisi chiedendo le elezioni anticipate, dopo avere dimezzato nel voto europeo del 26 maggio i consensi dei grillini e raddoppiato i propri.

            Per quanto salvati con la prosecuzione della legislatura in cui sono ancora, con i numeri parlamentari, la forza di maggioranza relativa, e in ripresa nei sondaggi seguiti alla debacle del 26 maggio, sotto le cinque stelle si vivono giorni di euforia anch’essa relativa. I problemi nel movimento di Grillo sono aumentati, anziché ridursi, non foss’altro per quella conflittualità non troppo sommersa fra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Che alla Farnesina fa spesso ciò che Salvini faceva al Viminale, sia pure senza indossare divise e magliette. Nel Pd è in corso un altro spettacolo già visto: il solito Matteo Renzi contro i soliti altri, compresi i vari D’Alema e Bersani in arrivo, o ritorno.  Se sarà scissione o separazione consensuale, come si dice o si spera da parte renziana, ce lo diranno i fatti delle prossime settimane, se la situazione non precipiterà prima, con quali effetti sul governo in tempi medi o lunghi si vedrà.  

 

 

 

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Eugenio Scalfari cerca un posto e un ruolo per l’amico Mario Draghi

               Comprensibilmente sfinito pure lui, e alla sua venerabile età, dallo spettacolo della politica italiana, ruotante attorno alla figura “centrale” di Luigi Di Maio, che può fare il bello e il cattivo tempo, costruire Scalfari.jpge smontare alleanze, come una volta accadeva a uomini come Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo Moro, Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer o Bettino Craxi, con i loro partiti alle spalle; e forse un po’ deluso anche da Giuseppe Conte, su cui pure aveva tanto scommesso durante la crisi agostana compiacendosi di vederlo all’opera per il suo secondo governo, Eugenio Scalfari si è dedicato ad altro questa domenica sulla sua Repubblica di carta. Egli si è proposto di trovare un ruolo per un amico al quale tiene giustamente molto e vale moltissimo di certo: il presidente uscente della Banca Centrale Europea Mario Draghi, in partenza da Francoforte, dove sarà sostituito dalla francese Christine Lagarde.

            A Scalfari è apparso “piuttosto improbabile” un Draghi che a 72 anni compiuti il 3 settembre scorso, con tutto quello che è stato e ha fatto in Italia e in Europa, servendo e onorando l’una e l’altra, “resti a casa Dracula.jpgpropria e vada a divertirsi al cinema o al teatro”. O porti ai giardinetti i nipoti o pronipoti, se ne ha, contento di non vedersi più rappresentato su qualche giornale tedesco come Dracula alle prese con i risparmiatori virtuosi d’oltr’Alpe per acquistare e salvare i titoli del debito pubblico italiano.

             Draghi avrebbe potuto essere -si è rammaricato l’amico di Repubblica– il nuovo presidente della Commissione Europea se i tempi e i rapporti politici di forza non avessero lavorato contro di lui portando a Bruxelles, naturalmente, la tedesca Ursula von der Leyen. Gli si potrebbe affidare la missione probabilmente impossibile di mediatore o quant’altro nei rapporti fra la Gran Bretagna e l’Europa così imprudentemente abbandonata dagli elettori e dai governanti oltre la Manica. Ma figuratevi se da quelle parti, ormai mature per produrre anche loro un fenomeno alla Grillo, si lasceranno mai tentare dalla proposta di rivolgersi o di farsi curare da uno come Draghi.

            Poiché non c’era tempo per aspettarne la partenza da Francoforte durante la crisi del governo gialloverde e mandarlo a Palazzo Chigi al posto di Conte, Scalfari ha immaginato per Draghi un Ministero importante nel nuovo governo, con “poteri molto elevati per l’Economia”. Ma figuriamoci, con tutto il rispetto che merita il presidente uscente della Banca Europea, se il ministro dell’Economia appena nominato, il piddino Roberto Gualtieri, accetterebbe mai una cosa del genere, per non parlare dei grillini, ossessionati giorno e notte dal calcolo di quanti ministri, vice ministri, sottosegretari e quant’altro dispongano loro e gli alleati.

            Dove volete che abbia guardato, a questo punto, Scalfari dal suo studiolo riflettendo su questo Paese “molto turbato economicamente e socialmente”, a dir poco ? Al Quirinale naturalmente. Dove nel 2022, quando scadrà il mandato dell’attuale presidente della Repubblica, per quanto qualcuno ne sogni la rielezione e qualcun altro una successione targata Conte o Prodi, secondo Scalfari il suo amico Draghi “non farebbe rimpiangere la bravura di Mattarella”.

            Vasto programma, avrebbe forse detto la buonanima di Charles De Gaulle allungando lo sguardo su Roma.

 

 

 

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Squadrone di governo al completo, e centrodestra ricomposto a sorpresa

            In una coincidenza di tempi dalla quale si sono curiosamente distratti i giornaloni, nei titoli e spesso persino nelle cronache, il governo giallorosso ha completato la sua struttura -diventando uno squadrone di 65 fra uomini e donne, primo ministro, ministri, vice ministri e sottosegretari- e l’opposizione di Berusconi.jpgcentrodestra si è ricompattata con un incontro chiarificatore, a Milano, fra Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Il quale è uscito dalla villa milanese del Cavaliere, in via Rovani, senza fare dichiarazioni, ripromettendosi di dire quel che ha da dire nel comizio di domani nel raduno tradizionale dei leghisti a Pontida, ma ha lasciato riassumere così l’incontro dall’alleato: “Tutto bene. E’ andato bene. Siamo in  piena sintonia”.

            Poi si è saputo che i due si sono ritrovati d’accordo anche contro il ripristino totale del sistema elettorale proporzionale perseguito almeno da una parte della nuova maggioranza in funzione antisalviniana, per limitarne l’operatività nelle Camere, anche se la Lega dovesse confermarsi nelle elezioni politiche, quando vi si arriverà, nel ruolo di partito di maggioranza relativa conquistato nelle votazioni europee del 26 maggio.

              Convergenti sono stati infine i propositi dei due alleati di centrodestra per una opposizione forte “in Parlamento e fuori”, cioè pure nelle piazze, dalle quali nei giorni scorsi il partito di Berlusconi si era tenuto lontano lasciando che a riempirle -in particolare, quelle davanti a Montecitorio- fossero solo Matteo Salvini, Giorgia Meloni e i loro militanti. Il primo appuntamento in piazza Berlusconi e Salvini se lo sono dato per il 19 ottobre a Roma, per la manifestazione contro il governo già annunciata dalla Lega.

            La ritrovata sintonia di Berlusconi con Salvini, o viceversa, ha spiazzato quanti in Forza Italia, il partito del Cavaliere, si erano spinti ad amplificarne malumori e risentimenti verso il leader leghista attardatosi troppo al governo con i grillini e tentato, sull’onda del successo elettorale di fine maggio, a fare anche “da solo”. Ora la musica tra i forzisti dovrà cambiare, forse svuotando un altro “cambiamento”: quello assegnato addirittura come nome alla sua nuova formazione politica dall’ormai ex forzista Giovanni Toti, “governatore” della Liguria e già consigliere politico di Berlusconi, che lo aveva assunto anche in politica scomodandolo, diciamo così, dalla direzione di uno dei telegiornali della sua Mediaset.

            Questa appena avvenuta in Forza Italia, salvo sorprese successive naturalmente, non è stata e non sarà neppure l’ultima -c’è da scommetterlo- delle svolte repentine di un partito così fortemente personalizzato com’è quello fondato e condotto da Berlusconi. Il quale ora sembra essersi tolto il gusto, ma non solo quello, avendovi anche il suo buon interesse politico, di soccorrere Salvini nella caccia grossa nella quale sono impegnati leader e partiti della nuova maggioranza, in fondo divisi fra di loro, e al loro interno, ma uniti solo contro il leader leghista. Nel quale Berlusconi si sarà in qualche modo riconosciuto anche per la simultanea accensione su di lui dei fari giudiziari, con indagini che spuntano fuori come fiori in primavera sui prati.

            Le tensioni e divisioni che, sotto la scorza antisalviniana, serpeggiano nella maggioranza giallorossa sono ben espresse in un titolo che il Corriere della Sera ha dato con tanto di virgolette a un’intervista Bettini su Renzi.jpga Goffredo Bettini, che nel Pd ha fatto da ostretrico e anche da officiante funerario per più di una leadership. Egli si è occupato pure dell’agitazione crescente dell’ex segretario Matteo Renzi, promotore del nuovo governo con i grillini ma tentato dalla scissione, ora anche a causa dell’esclusione dei toscani dallo squadrone dei sottosegretari e vice ministri. Se n’è occupato non per trattenere Renzi ma per dire che una sua rottura non sarebbe “uno scandalo” se limitato al partito, rimanendo nella maggioranza e nel governo, dove non mancano suoi uomini e donne.

            Due parole, infine, sui vice ministri e sottosegretari  grillini per segnalare l’alto prezzo che il Pd ha dovuto pagare, consentendone la promozione formale a vice ministro dell’Interno, per rimuovere Vito Crimi da sottosegretario a Palazzo Chigi con la importante delega dell’editoria, da lui Massimo Bordin.jpgusata nei mesi scorsi per un’offensiva, sostenuta anche dal presidente del Consiglio Conte, Crimi dormiente.jpgcontro Radio Radicale, procurandosi dallo storico direttore Massimo Bordin, nonché conduttore della famosissima e apprezzata rassegna “Stampa e regime”, la qualifica di “gerarca minore”. Bordin è morto il 19 aprile scorso, in piena campagna grillina contro la sua radio. E Crimi, benché promosso -ripeto- al Viminale, rimane inchiodato mediaticamente, fra l’altro, a quella impietosa foto che lo ritrae assopito, a suo tempo, nel banco di capogruppo al Senato.  

 

 

 

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