L’amaro risveglio dei tifosi del governo giallorosso partorito dalla crisi agostana

            Per alcuni laudatori del governo Conte 2, assopitisi fra le promesse di una “nuova stagione” formulate dal presidente del Consiglio, i messaggi scritti e vocali di compiacimento da oltre Oceano e le foto del tuttora presidente del Pd Paolo Gentiloni accolto festosamente a Bruxelles dalla nuova presidente della Commissione Europea, che martedì gli assegnerà gradi e funzioni, deve essere stato amaro spulciando i giornali. Sul più diffuso dei quali, il Corriere della Sera, sonoCorriere.jpg indicate col titolo di testa nella sanità e nei cantieri “le prime spine” dell’esecutivoRepubblica.jpg che deve peraltro ancora ottenere la fiducia delle Camere, soprattutto del Senato. Dove i numeri sono stretti e ballerini quasi come quelli del governo precedente gialloverde, e di altri ancora che proprio a Palazzo Madama sono caduti, come il secondo ed ultimo governo di Romano Prodi nel 2008. Difficoltà vengono indicate anche  sulla prima pagina di Repubblica.

            Lo stesso Conte viene rappresentato diviso sul Corriere della Sera fra il disappunto procuratogli dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio – che come capo della delegazione pentastellata ha riunito alla Farnesina i colleghi di partito e di governo preparando la complessa partita delle nomine dei sottosegretari, ma soprattutto esortandoli a far capire ai colleghi del Pd che si tolgano dalla testa di comportarsi come i leghisti che li hanno precedutie l’incognita costituita per lui da Matteo Renzi. Sul quale  debbono essergli giunte notizie, voci e quant’altro che non lo hanno per niente tranquillizzato, per cui il presidente del Consiglio “ha deciso di cercarlo” direttamente, ha riferito sempre sul Corriere Francesco Verderami. E Corriere 2 .jpgsperiamo per lui, cioè per lo stesso Conte, che dall’ex segretario del Pd, ex presidente del Consiglio e ora “semplice” ma sempre temuto e imprevedibile “senatore di Scandicci” non gli arrivi la ormai famosa e poco incoraggiante esortazione a “stare sereno”. Essa costò notoriamente Palazzo Chigi all’amico di partito Enrico Letta, facendogli passare poi anche la voglia di restare a Montecitorio come deputato.

            Sulla Stampa il già guardasigilli e ora vice segretario del Pd Andrea Orlando, rimasto volontariamente La Stampa.jpgfuori dal governo forse per non contendere a Dario Franceschini il ruolo di capo della delegazione, cui l’ex ministro avrebbe avuto diritto per i gradi che ha nel partito, ha voluto far sentire alta e forte la sua voce avvertendo che la riforma della Giustizia predisposta dal ministro grillino Alfonso Bonafede “non va”. Ma, in verità, non andava neppure ai leghisti, anche se probabilmente per motivi diversi. In ogni caso, è un’altra spina, per dirla con il Corriere, per niente risolta o chiarita evidentemente nel programma di governo concordato nei giorni scorsi.

            Il quadro non migliora se lo si contempla sfogliando un giornale come il Fatto Quotidiano, dichiaratamente impegnatosi durante la crisi a sostenere, con titoli, commenti, consigli e quant’altro, l’accordo di governo fra grillini e Pd scritto “nel destino”, da quando Beppe Grillo in persona tentò di iscriversi alla sezione piddina di Arzachena,  il Comune sardo della Costa Smeralda nel cui territorio il comico genovese possiede una casa sfortunatamente finita in queste ore sulle prime pagine dei giornali per un’inchiesta giudiziaria sul figlio e alcuni amici alle prese a luglio con una modella.

            Ebbene, il giornale diretto da Marco Travaglio ha scoperto e denunciato sulla prima pagina, con tanto di fotomontaggio Il Fatto.jpge titolo da scatola di tonno, che i ministri del Pd all’Economia e ai Beni culturali, Roberto Gualtieri e il già citato Dario Franceschini, stanno riesumando nei loro dicasteri e dintorni “dinosauri”, di cui uno allontanato personalmente da Conte durante il suo primo governo. Non ne faccio i nomi perché non voglio neppure involontariamente prestarmi alla caccia alle streghe, per la quale non sono francamente, e per fortuna, attrezzato.

            Se sono rose fioriranno, dice un vecchio adagio popolare. Per ora si vedono e si sentono “le prime spine”:  parole- ripeto- del Corriere della Sera.

Il vecchio e il nuovo del governo Conte 2 in convivenza problematica

Dieci ministri ai grillini e dieci ai loro nuovi alleati, dei quali nove al Pd e uno agli scissionisti di Leu, in un rapporto paritario che riporta al passato, quando al posto dei grillini erano i democristiani, nella parte più avanzata della loro collaborazione con socialisti e laici, a detenere la maggioranza relativa dei voti e dei seggi parlamentari. E si consideravano  perciò l’ago della bilancia, come Luigi Di Maio dice del suo movimento per questa e persino per le “prossime legislature”, con un ottimismo della volontà, sospirerebbe la buonanima di Antonio Gramsci, ben superiore al pesssimismo della ragione.

Persino Massimiliano Cencelli, l’autore dello storico manuale col quale i democristiani dei tempi d’oro distribuivano il potere all’interno del loro partito e all’esterno, ha detto che il governo Conte 2 -per carità, non chiamatelo Conte bis perché, una volta tanto, ha  ragione Marco Travaglio a protestare sul Fatto Quotidiano, trattandosi di tutt’altra maggioranza- ha rispettato proporzioni, rapporti di forza e quant’altro come si faceva una volta, quando la Repubblica era di edizione unica e originale. E si era affacciata solo alle finestre dei solitari e diversi Mario Segni e Marco Pannella la “seconda Repubblica” del sistema elettorale misto: per i due terzi maggioritario e per il rimanente terzo ancora proporzionale, quale scaturì poi dal referendum del 1993.

Appartiene al passato che curiosamente torna, almeno nelle apparenze, anche la disarticolazione, diciamo così, dei partiti della maggioranza, divisi in correnti, anime, aree, tendenze, spiriti e via discorrendo. Ne sa qualcosa il povero Nicola Zingaretti. Che, costretto dalle circostanze e dai tempi forse sbagliati della crisi scelti da Matteo Salvini, ha dovuto inseguire e persino scavalcare l’altro  imprevedibile Matteo, Renzi, sulla strada dell’intesa a sorpresa con i grillini, rimangiarsi i propositi elettorali che lo accomunavano ai leghisti e infine portare al governo tutte le componenti del suo partito, perché nessuno poi gli potesse contestare parzialità, o nella speranza che nessuno prima o poi gliele contesti ugualmente. Ed è stato persino naturale che la deroga alla cosiddetta discontinuità, o rinnovamento, sia stata riservata nel Pd al ritorno al Ministero dei Beni Culturali e del Turismo dell’ormai veterano, pur se giovanile, Dario Franceschini. Che all’interno del suo partito, forse non tanto per la forza dei numeri quanto per l’agilità con la quale sa muoversi, come si diceva una volta  nella Dc di Enzo Scotti, chiamato Tarzan dal compianto Carlo Donat-Cattin, è un po’ l’ago della bilancia che Di Maio si considera, o considera il suo  movimento,  per l’intero sistema politico.

Di Maio però ha adesso un problema, tanto grande e temuto dalle sue parti che anche  un uomo dall’apparente sistema nervoso di ferro come viene da qualche tempo considerato Giuseppe Conte ha dovuto in qualche modo cautelarsi strizzandogli l’occhio nella cerimonia di giuramento del nuovo governo al Quirinale. E sovrapponendo la mano all’altra del neo-ministro degli Esteri già stretta tempestivamente, con un calore unico fra tutti gli attori della cerimonia.

Eppure Di Maio, una volta messo in pista Conte per la conferma e fattolo politicamente ingoiare a Zingaretti, è stato quello che più ha creato poi  difficoltà al presidente del Consiglio incaricato,, e forse è destinato a crearne anche adesso che è pienamente in carica ed entrambi hanno giurato nelle mani del capo dello Stato. L’ultimo ostacolo prima della chiusura formale della crisi, ritardata di quasi mezza giornata tra l’impazienza del presidente della Repubblica riferita dai giornali senza alcuna smentita o precisazione, Di Maio lo ha procurato a Conte, secondo le cronache neppure esse smentite, imponendogli la nomina di Riccardo Faccaro a sottosegretario alla Presidenza e segretario del Consiglio dei Ministri. Che è una postazione più importante dei Ministeri che pure si considerano di prima fascia, come quelli dell’Economia, dell’Interno, degli Esteri, della Difesa: tanto importante che Conte nel precedente governo dovette assegnarla all’uomo -Giancarlo Giorgetti- almeno allora di maggiore fiducia dell’alleato Matteo Salvini.

Per le mani, le orecchie, gli occhi e quant’altro del primo sottosegretario di Palazzo Chigi passano le pratiche, e relative decisioni, in entrata e in uscita dalla scrivania del presidente del Consiglio. Che proprio per questo, ritenendo di poter essere considerato, sia pure in modo “improprio”, come gli  è capitato di dire, una persona del movimento delle 5 stelle, non a caso “elevato” dallo stesso Grillo nei giorni scorsi a un gradino sotto di lui, a sua volta sotto Dio direttamente, aveva pensato di poter nominare al posto di Fraccaro  il segretario generale uscente di Palazzo Chigi, Roberto Chieppa.

Se proprio insiste e ci tiene, il presidente del Consiglio potrà nominare Chieppa sottosegretario lo stesso, imbottirlo di deleghe anche a scapito di Fraccaro già insediato, come è stato anticipato dai giornali mentre scrivo, ma la figura preminente accanto al capo del governo  è e rimarrà lo stesso Fraccaro, generalmente catalogato, a torto o a ragione, come un uomo di raccordo vitale fra Di Maio e Davide Casaleggio. E’ come se Silvio Berlusconi nei suoi governi di centrodestra avesse dovuto rinunciare al suo fidato Gianni Letta, o ridimensionarne ruolo e deleghe.

Al di là dei nomi e delle persone, questa vicenda che ha accompagnato le ultimissime battute della crisi è indicativa dei problemi, chiamiamoli così, esistenti all’interno del movimento grillino, ben più complessi e meno trasparenti di quella certificazione notarile che ha assegnato nel referendum digitale della “piattaforma Rousseau” di Casaleggio sull’alleanza col Pd, dopo quella con la Lega, un  80 per cento  “plebiscitario” ai sì, come ha detto Di Maio, e un  20 per cento ai no.

Di quell’80 per cento dei sì del virtuale congresso grillino svoltosi in poche ore è insondabile anche per il più accurato e imparziale osservatore, bisogna riconoscerlo, quanta parte sia riferibile a Di Maio e alla sua leadership, salvata con un altro referendum digitale dopo la scoppola delle elezioni europee del 26 maggio scorso, e quanta alle altre “anime” o sensibilità del movimento pentastellato, amch’esse tutte presenti adesso nel governo Conte 2. La indeterminatezza di questi equilibri, inevitabile nel tipo di organizzazione, o non organizzazione, che si è voluto dare il quasi partito che Di Maio ritiene di rappresentare, oltre che di comandare, è un oggettivo, innegabile ostacolo alla trasparenza che pure lo stesso Di Maio vanta pubblicamente e chiede perentoriamente alle altre formazioni politiche, negando di fatto la rappresentatività dei loro organi direttivi.

Anche questa è un’incognita con la quale dovrà fare i conti il nuovo governo, nato tra aperture e sollievi internazionali ma costretto a districarsi fra i problemi esterni e quelli interni ai partiti che lo compongono. E che non possono riposare con i coltelli sotto il cuscino.

 

 

 

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