Renzi fra le “perplessità” di Conte e gli insulti di Grillo e dintorni

             Con la sua uscita dal Pd per mettersi in proprio nella maggioranza giallorossa da lui stesso promossa, e in qualche modo imposta al riluttante Nicola Zingaretti, arrivato alla crisi cavalcando pure lui le elezioni anticipate reclamate dalla Lega, Matteo Renzi ha fatto il previsto pieno delle paure e degli insulti. Ma è proprio quello che forse cercava, sempre spavaldo nelle sue sfide e mai completamente piegato dalle sue sconfitte.

            La reazione più acuminata e indicativa delle preoccupazioni provocate dall’annuncio dell’arrivo sul mercato politico del partito renziano chiamato “Italia viva” è stata quella del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che, per nulla tranquillizzato -mi pare- da una telefonata del suo predecessore a Palazzo Chigi, sia pure non diretto, ha tenuto a far conoscere le sue “perplessità” con un argomento per niente banale, come potrebbe essere indotto a ritenere chi si sofferma solo al problemi dei “tempi” sollevato dal capo del governo. Che ha invece lamentato, proprio aggrappandosi alla questione dei tempi, di non avere potuto valutare per bene la situazione e le forze in campo quando ha deciso, una volta subìta la crisi per iniziativa di Matteo Salvini, di lasciarsi ricandidare con forza dai grillini per un repentino cambio di maggioranza. Su cui, presentando il nuovo governo alle Camere, egli ha onestamente ammesso di avere avuto esitazioni e dubbi.

            La reazione di Conte è un po’ quella di uno che forse si sarebbe tirato indietro se avesse saputo di dover trattare con Renzi non attraverso il segretario dell’allora suo partito, Zingaretti, ma murale.jpgdirettamente, come capo di un partito autonomo che ha l’azione d’oro della maggioranza almeno al Senato. Dove lo stesso Renzi e i parlamentari che hanno già deciso di seguirlo, trasferendosi nel gruppo misto per mere ragioni di regolamento, non per insufficienza numerica, potrebbero fargli mancare la fiducia in qualsiasi momento, a meno di soccorsi berlusconiani sotto banco, con sapienti assenze all’occorrenza.

            Gli insulti rovesciatisi su Renzi sono naturalmente quelli dei grillini, e dintorni. Beppe Grillo in persona si è esibito sul suo blog irridendo a quello che ai tempi d’oro già chiamava “l’ebetino” con un fotomontaggio che lo ritrae desolatamente solo in una sala cinematografica con due contenitori pieni di pop-corn acquistati l’anno scorso, quando si propose di farne un’indigestione godendosi lo spettacolo della maggioranza gialloverde, e impedendo che sul palco del governo sotto le cinque stelle saltasse già allora il Pd.

            In una lettera ai parlamentari di Renzi il comico genovese ha liquidato l’avventura del nuovo Schermata 2019-09-17 alle 22.41.20.jpgpartito come “una minchiata”. Ne ha sviluppato il concetto Marco Travaglio scrivendo sul Fatto Quotidiano dell’irriducibile, incontenibile abitudine di Renzi di essere insieme “furbo e fesso”. Travaglio.jpgEppure sulla stessa prima pagina del suo giornale Travaglio, in un titolo sotto la testata, ha attribuito agli obiettivi di Renzi quello non proprio secondario e “fesso” di contrastare la corsa dei suoi ormai ex compagni di partito verso la trasposizione della maggiorana giallorossa a livello locale, facendone un’operazione strutturale e strategica da straordinaria e provvisoria, in funzione antisalviniana, come lui invece l’aveva concepita rinunciando ai già ricordati pop-corn.

            In sintonia così frequente con Travaglio da non poter essere ormai più considerata casuale, si è ritrovato La Verità.jpgda destra Maurizio Belpietro con la sua Verità prendendosela col “contaballe” Renzi e con gli “allocchi” che gli andrebbero dietro, ancor più se il manifesto.jpgdovessero decidere di votarlo alla prima occasione possibile. Più sobrio, in fondo, è stato il manifesto rovesciando sarcasticamente in “senza di te” il veccio hastag “senza di me” di Renzi e amici quando di grillini non volevano sentir parlare. E Luigi Di Maio neppure parola di Di Maio.jpgsognava di poter dire un giorno a Renzi dall’interno del governo ciò che gli ha fatto dire Repubblica: “Non tollero nuove tensioni. Lo ha già fatto qualcun altro e ci è bastato”. L’altro è naturalmente Salvini, Matteo anche lui.

           Questa storia dei Mattei sembra una maledizione, come la serenità raccomandata da Renzi all’interlocutore di turno: da Enrico Letta a Giuseppe Conte. Col quale tuttavia, stando sempre a Repubblica, Renzi parola di Renzi.jpgsarebbe ricorso ad un’altra formula, esortandolo a “non avere ansie”.  Che invece il presidente del Consiglio ha avvertito e avverte, al centro, e di spalle, in quel murale che lo ritrae tempestivamente sotto il tiro del nuovo Cupido mentre parla allegramente con Zingaretti e Di Maio.  Sarà almeno la fortuna dei vignettisti e simili.

 

 

 

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Ricordando Massimo Bordin e la sua vittoria postuma nella guerra di Radio Radicale

Fra qualche giorno, il 19 settembre, saranno trascorsi già quattro mesi dalla morte di Massimo Bordin. Del quale mi manca ancor più di quando smise di condurla, piegato dalla malattia che l’aveva aggredito, quella personalissima, inconfondibile rassegna stampa mattutina su Radio Radicale, di cui era stato a lungo anche direttore riuscendo peraltro a polemizzare con Marco Pannella senza mai rompere davvero: cosa che da sola ne aveva fatto un mito, a cominciare dagli occhi, dalla mente e dal cuore dello stesso Pannella.

L’ultima battaglia condotta da Massimo fu per il salvataggio di Radio Radicale, che sembrava condannata da una curiosa guerra dichiarata dai grillini e condotta dall’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio con la delega dell’editoria: il già capogruppo del Movimento delle 5 Stelle al Senato Vito Crimi. Si voleva la fine dell’emittente in nome della lotta agli sperperi e alle sovvenzioni pubbliche ad una informazione incapace di vivere dei propri mezzi.

Eppure Radio Radicale non era e non è un’emittente qualsiasi. Era ed è particolarissima nel suo genere, forte di una convenzione approvata dalle maggioranze politiche dei più diversi colori, succedutesi per decenni, per lo svolgimento di un servizio pubblico costituito dalle trasmissioni in diretta e differita dei lavori parlamentari. Ma è stato servizio pubblico, anche se non da convenzione, pure quello reso da Radio Radicale al pubblico italiano trasmettendo congressi di partito, senza discriminazione alcuna, altre loro manifestazioni, convegni di studio e quant’altro. Il suo archivio, fonico e televisivo, può ben essere considerato un patrimonio di interesse e valore inestimabile, come alla fine hanno riconosciuto anche quelli decisi sostanzialmente a farla chiudere.

L’ostinazione dei grillini in questa -ripeto- curiosa offensiva contro Radio Radicale aveva resistito a tutto, anche all’azione di persuasione svolta dietro le quinte dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Mi colpì l’improvvisazione -permettetemi di dirlo- con la quale nella conferenza stampa di fine dell’anno scorso, rispondendo ad una domanda sull’argomento, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte liquidò il problema di Radio Radicale sostenendo che avrebbe potuto provvedere al suo sostentamento, senza la convenzione pubblica, ricorrendo alle tradizionali risorse dell’editoria, a cominciare dalla pubblicità e dalle sponsorizzazioni. Ma la forza distintiva di Radio Radicale era ed è proprio quella di rifuggire dalla pubblicità e mezzi similari. Bastava avere seguito una sola giornata della sua programmazione per capirlo. Forse l’avvocato e professore approdato inusualmente a Palazzo Chigi non aveva mai avuto il tempo o l’occasione di sintonizzarvisi.

Poi Conte -si sa- è cresciuto di suo politicamente, come ha dimostrato riuscendo a succedere a se stesso in una crisi di governo che è stata generalmente definita, e non a torto, come la più pazza del mondo, o quanto meno delle non poche crisi della nostra storia repubblicana. Oso credere, o sperare, che il presidente del Consiglio non si avventurerà più a parlare come allora di Radio Radicale, nel frattempo del resto da lui stesso lasciata in qualche modo sopravvivere con un espediente provvisorio passato in Parlamento, secondo me, anche per la forte emozione provocata dalla morte di Massimo Bordin. A sostituire il quale nella conduzione delle rassegne stampa mattutine di Radio Radicale vi è stata una commovente e solidale gara dei colleghi più qualificati, e delle più diverse testate, anche della nostra nella persona del direttore Carlo Fusi,  sentitisi giustamente in debito con lui.

Pungente, abrasivo, sarcastico come solo lui sapeva essere nei suoi appuntamenti col pubblico, e incredulo di fronte all’ostinazione con la quale Vito Crimi da Palazzo Chigi conduceva la suaCrimi.jpg battaglia contro Radio Radicale con la totale copertura del Ministero dello Sviluppo Economico da cui materialmente dipendeva la sorte della convenzione, guidato d’altronde dal capo in persona del suo Movimento, Luigi Di Maio, il mio amico Massimo coniò per l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio la definizione di “gerarca minore”. Me ne sono ricordato quando ho visto rimuovere Crimi da quell’incarico nel nuovo governo di Conte, sia pure promosso a vice ministro dell’Interno, per essere sostituito da Andrea Martella, del Pd.

Mi sono chiesto come avrebbe reagito alla notizia della nuova destinazione di Crimi nella sua conduzione di “Stampa e regime” Bordin parlandone ai suoi ascoltatori. Forse si sarebbe limitato, per non infierire, a fingere una volta tanto uno di quei suoi colpi di tosse, uno degli attacchi della sua raucedine per tanto, troppo tempo -ahimè- sottovalutati. E che ce l’hanno portato via troppo presto. Ciao, Massimo. Ce l’hai fatta a salvare la tua e nostra Radio Radicale,  anche da lassù.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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