Messaggio di Casaleggio dagli Usa: Di Maio è saldo al suo posto…

             Beh, questa volta sarà difficile ai vertici grillini, più o meno “elevati” che siano, per stare a una definizione dello stesso Beppe Grillo, il fondatore, animatore, rigeneratore e quant’altro, allontanare quanto meno il sospetto di una gestione, diciamo così, anomala di un movimento come quello delle 5 stelle. Attorno al quale ruotano, per la forza parlamentare conquistata nelle elezioni politiche dell’anno scorso, gli equilibri politici del Paese, come una volta accadeva per la Democrazia Cristiana. Alla cui “centralità”, come la definì nel 1972 l’allora segretario Arnaldo Forlani, esso è sorprendentemente subentrato conservandola anche a conclusione della crisi agostana di governo, una volta sconfitta la linea delle elezioni anticipate sostenuta inizialmente sia dalla Lega di Matteo Salvini, con i cespugli ormai di quello che ancora si chiama centrodestra, sia dal Pd di Nicola Zingaretti. Che poi, come Paolo sulla via di Damasco, avrebbe avuto la conversione.

             Ormai di casa, diciamo così, al Corriere della Sera, che ha ospitato di recente un suo articolo, Davide Corriere.jpgCasaleggio vi si è lasciato intervistare telefonicamente dagli Stati Uniti. Dove ha un po’ dato il cambio, diciamo così,  all’amico ministro degli Esteri e capo ancòra del movimento griillino Luigi Di Maio, che ne è appena partito per tornare alla Farnesina e lì incontrare ministri e sottosegretari pentastellati, giusto per dispiacere al presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che dopo un incontro analogo aveva raccomandato con pubbliche dichiarazioni di non fare uso, o di farne uno parco, delle sedi istituzionali, dove le riunioni di partito, di corrente e quant’altro stonano un po’.

              Casaleggio si trova negli Stati Uniti per partecipare, fra l’altro, ad un “evento” organizzato dal governo italiano nella sede delle Nazioni Unite dal titolo tutto inglese di “Digital Citizenship: Crucial Steps Towards Universal and Sustaineble Society”. Egli vi partecipa -ha precisato- “a sue spese” e come presidente dell’”Associazione Rousseau”, sulla cui piattaforma digitale si svolgono per il movimento grillino quelle che per gli altri partiti sono le riunioni delle direzioni, dei comitati centrali o simili, i congressi e quant’altro.

              Ad un certo punto, com’era naturale che avvenisse, messa da parte la qualità di “professionista e rappresentante della società civile” più generalmemte rivendicata da Casaleggio,Casaleggio 1 .jpg l’intervistatore lo ha interrogato sulle vicende interne al movimento. Dove le tensioni certamente non mancano, dopo il repentino cambio di alleati al governo, come anche i problemi di Di Maio. Che è ormai talmente Casaleggio 2 .jpgpreoccupato, sorpreso, scandalizzato e quant’altro da quello che ha appena definito “il mercato delle vacche” parlando dei grillini passati o tentati di passare ad altri partiti, da avere posto sul tappeto del dibattito politico, e dei rapporti con i suoi nuovi alleati, il cosiddetto vincolo di mandato dei parlamentari: l’opposto di quanto oggi stabilisca la Costituzione e sia in un uso nella quasi totalità dei Paesi democratici. Multe ed espulsioni dalla Camera di appartenenza, o qualcosa del genere: questo dovrebbe essere il destino dei dissidenti dalle decisioni di turno dei vertici del partito nelle cui liste sono stati eletti. 

            Casaleggio non ha avuto un attimo o una parola di esitazione. Senza timore di allungare un’ombra, almeno, di sospetto sul rischio che qualcuno possa dubitare dell’esito scontato dei referendum digitali in arrivo per risolvere le controversie nel movimento, egli ha praticamente detto che Di Maio è e rimarrà saldamente al suo posto di capo, affiancato presto da “un team del futuro”. Così il presidente dell’”Associazione Rousseau” ha voluto definire il collegio dei 12 esponenti che dovrebbe consentire al ministro degli Esteri di aggiungere l’aggettivo “collegiale” alla sua gestione. Dodici, come si sa, erano anche gli apostoli di Gesù, compreso Giuda naturalmente.

            Tutto è ormai scritto e scontato nell’organizzazione del movimento-partito di maggioranza relativa attorno al quale ruota la democrazia italiana. Rispetto alle elezioni e votazioni tradizionali, le consultazioni digitali hanno questo di buono: limitano le sorprese al minimo, o al massimo, come preferite.  

 

 

 

 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Se 345 seggi parlamentari in meno servono a risparmiare lo 0,007% della spesa pubblica

Non potete immaginare il fastidio politico, culturale e persino fisico che mi procurano quei 500 milioni di euro, cioè mezzo miliardo di euro, di presunti risparmi in un quinquennio, pari a cento milioni l’anno, che i grillini sventolano come una bandiera ogni volta che parlano davanti a telecamere e microfoni della “storica” riduzione del numero dei parlamentari, di cui stanno per ottenere l’approvazione definitiva alla Camera.  E ciò “alla faccia di Matteo Salvini”, ha detto qualche giorno fa a New York il ministro degli Esteri e capo, ancòra, del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio.

In verità, la Lega di Salvini ha approvato in tutti i precedenti passaggi la riforma costituzionale che riduce di 345 parlamentari le Camere. E l’approverà anche nell’ultimo, già programmato a Montecitorio per il 7 e 8 ottobre, stavolta insieme anche alla sinistra una volta contraria. Non si capisce, quindi, quella espressione polemica di Di Maio, che può rimproverare a Salvini solo un peccato veniale, dopo quelli mortali di tradimento e attentato alla democrazia contestati per la crisi del governo gialloverde provocata in agosto perseguendo le elezioni anticipate. Che possono non piacere, per carità, specie quando si ha paura di perderle, ma non mi sembrano, francamente, assimilabili a un reato.

In Italia abbiamo avuto ben due scioglimenti anticipati delle Camere, nel 1972 e nel 1987, solo per il convergente interesse dei due partiti  allora maggiori e contrapposti -la Dc e il Pci- di rinviare referendum abrogativi di leggi ordinarie ma da entrambi ritenuti troppo scomodi perché “divisivi” dei loro elettorati. Nel 1972 si trattò del referendum sul divorzio, rinviato di ben due anni per effetto delle sopraggiunte elezioni politiche, e nel 1987 dei referendum contro la produzione di energia elettrica e le norme che impedivano ai magistrati di rispondere civilmente dei loro errori. Per questi ultimi referendum Dc e Pci si accontentarono di un rinvio di soli sei mesi perché, in realtà, c’era sotto quelle due prove un’altra ragione ancora più profonda che li univa: la necessità di liquidare il primo governo a conduzione socialista nella storia della Repubblica. Esso era stato realizzato da Bettino Craxi quattro anni prima con un accordo al quale l’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita era stato costretto dall’arretramento elettorale seguito al suo avvento al vertice dello scudo crociato.

Allora era Craxi l’uomo che faceva paura. Ora è Salvini, imprudentemente scivolato -va detto- su quei “pieni poteri” reclamati prendendo forse troppo sole sulle spiagge. E’ lui l’Annibale alle porte ricordato con fine umorismo storico da Marco Follini per spiegare, condividendole solo in parte, e temendo gli abusi cui potrebbero prestarsi, la fretta, la disinvoltura e qualcosa ancor d’altro che hanno avuto grillini e sinistra di allearsi dopo essersene dette e date di tutti i colori, a Roma e in periferia.

A Salvini l’ex collega di governo Di Maio non perdona la perfidia di quell’offerta fatta, a crisi ormai avviata, di approvare la tanto ambita riduzione del numero dei parlamentari rinviandone però l’applicazione di cinque anni, cioè alla legislatura successiva a quella che avrebbe dovuto nascere dalle elezioni anticipate. Adesso invece il Pd, l’Italia Viva di Renzi e i “liberi e uguali” di Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani e compagni consentono ai grillini di portare a casa la riforma per applicarla già la prossima volta. Che però, curiosamente, sarà forse la stessa data alla quale pensava Salvini: il 2023, quando cioè sarà rinnovato l’attuale Parlamento appena scampato allo scioglimento prima della scadenza ordinaria.

Gli accordi di governo del Conte 2 -o Bisconte, come lo chiamano al Foglio– prevedono la riduzione del numero dei parlamentari compensata tuttavia da una riforma della legge elettorale -si vedrà in quale misura proporzionale- e dei regolamenti parlamentari. Ma, a governo insediato e fiduciato dal Parlamento, Di Maio ha chiesto e ottenuto una procedura diversa. Ha chiesto e ottenuto, cioè, di incassare subito l’approvazione definitiva della riduzione del numero dei parlamentari, cui seguirà il resto, se seguirà.

Si sta insomma ripetendo per la composizione delle Camere la vicenda vissuta dai leghisti, nel rapporto con i grillini, dell’abolizione della prescrizione. Che fu introdotta come una supposta nella cosiddetta legge spazzacorrotti a cominciare dall’anno prossimo, con l’intesa solo verbale di farla precedere in tempo dalla riforma del processo penale, per dargli termini e modalità tali da evitare che un imputato possa rimanere tale a vita. Siamo ormai a tre mesi dal nuovo anno e di questa riforma non si ha certezza. La fine del conteggio della prescrizione  con la sentenza di primo grado rimane invece scritta nel codice.

Dicevo, all’inizio, del fastidio politico, culturale e persino fisico procuratomi dal risparmio proclamato dai grillini per vantarsi del taglio di 345 fra deputati e senatori.  Dovrebbero essere ben altre, e più nobili, a cominciare da una maggiore funzionalità delle assemblee legislative, le finalità di una riforma del genere, che finisce così sommersa  da una demagogia persino sfrontata se paragoniamo i cento milioni di euro l’anno di presunto risparmio agli 850 miliardi di spesa pubblica e facciamo i conti. Via, il Parlamento avrebbe meritato e meriterebbe più rispetto, specie se si considera che un economista non certo fra i minori come Carlo Cottarelli ha calcolato i risparmi in soli 57 milioni di euro l’anno, pari allo 0,007 per cento della spesa pubblica.

I grillini non se ne rendono forse conto, presi come sono dai loro tormenti, a dir poco, interni non abbastanza frenati dalla pratica digitale della democrazia. Ma è come se avessero giustificato nelle scorse settimane il loro no alle elezioni anticipate con la necessità di risparmiare i 400 milioni di euro che sarebbero costate alle casse dello Stato, ripartiti fra i bilanci dei Ministeri dell’Interno, della Giustizia e degli Esteri.

 

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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