Gazebo del Pd affollati. Per favore, non ditelo a D’Alema

         Sono passato verso le 15 accanto al gazebo del Pd di Vigna Stelluti, a Roma. Ho visto una bella fila, a quell’ora poi, sotto un sole da estate, ma soprattutto ho visto e sentito una giovane che telefonava non so a chi per avvertire che stavano finendo le schede delle primarie per scegliere fra i tre candidati alla segreteria: nell’ordine, da sinistra a destra, Andrea Orlando, Michele Emiliano e Matteo Renzi. E ho sentito un signore che, in fila, avvertiva il vicino che gli risultavano andate alle urne poco dopo mezzogiorno, in tutta Italia, già ottocentomila persone.

         Qualcuno lo avrà detto a quell’ora a Massimo D’Alema, dovunque si trovasse, rovinandogli la digestione?

Troppe le zucche contro Zuccaro

Non so se e quanti voti in più potrebbe procurare oggi nelle primarie del Pd per l’elezione del segretario al ministro della Giustizia Andrea Orlando, surclassato da Matteo Renzi nei circoli, la polemica a freddo che ha voluto fare, fuori dal partito, ma sempre in campagna congressuale, col collega di governo Angelino Alfano. Al quale ha dato del distratto, ma un po’ anche dello smemorato, per avere difeso “al cento per cento” -ha puntualizzato il ministro degli Esteri- il capo della Procura di Catania Carmelo Zuccaro. Che sta rischiando il posto per avere segnalato i rapporti non proprio chiari, se non addirittura collaborativi, fra la terraferma africana e alcune delle organizzazioni non governative che raccolgono con le loro navi i migranti e gli sciagurati che in Libia li derubano e li seviziano prima di imbarcarli a forza su pescherecci e gommoni fatiscenti, a volte persino sprovvisti di motore. E ciò contando appunto da parte dei trafficanti, sul soccorso dei volontari che si spingono sino alle vicinanze con le coste della Libia per raccogliere i malandati e portarli nei porti italiani.

I contatti telefonici tra i trafficanti di carne umana e i soccorritori, prevalentemente non italiani, risultano da intercettazioni di servizi segreti stranieri e nazionali note al capo della Procura di Catania, ma forse anche di altre località dove vengono sbarcati i migranti, e tuttavia inutilizzabili per l’apertura e la conduzione di indagini perché non disposte ne’ gestite dalla competente autorità giudiziaria italiana. Sarebbero sei, delle circa venti organizzazioni volontarie operanti nel Mediterraneo, quelle sospettate di traffico nel traffico dei profughi.

È a dir poco curioso che un procuratore della Repubblica espostosi nella denuncia di una simile situazione, che potrebbe tradursi in una versione marittima della speculazione economica che è stata

 

scoperta sulla terraferma italiana nella gestione dell’immigrazione, capace -ha detto Salvatore Buzzi, imputato di Mafia Capitale– di far guadagnare più della droga, venga soccorso nelle polemiche non dal ministro della Giustizia ma da quello degli Esteri.

Ancora più curioso è che il ministro della Giustizia non solo eviti di soccorrere il procuratore ma contesti il soccorso del collega di governo. E lo accusi, essendo stato fino a quattro mesi fa ministro dell’Interno, di non essersi accorto di nulla. O di essersene accorto e di avere rimosso tutto dalla testa. E comunque di non essersi adoperato per porvi rimedio.

Eppure il procuratore di Catania prima di parlarne in pubblico, con interviste e incontri con più giornalisti insieme, si presume che ne avesse parlato nel suo ambiente di lavoro, che è lo stesso del guardasigilli. Di sicuro, comunque, ne aveva parlato ad una commissione parlamentare, con tanto di resoconti accessibili a tutti ma sfuggiti evidentemente all’attenzione pur dovuta del Ministero guidato da Orlando. Che pertanto dovrebbe quanto meno per questo evitare battute ironiche come quelle sfuggitegli davanti alle telecamere che lo hanno ripreso nel suo giro elettorale alla vigilia delle primarie.

 

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Non migliore della prova del ministro della Giustizia è quella che ha dato il presidente del Senato, ed ex magistrato, Pietro Grasso. Che si è messo a dare in pubblico, col solito sorriso, lezioni di deontologia e di codice di procedura penale a Zuccaro scordandosi di presiedere un’assemblea che, a conti fatti sommariamente, è per quasi la metà convinta, fra grillini, forzisti, centristi e destra, che il procuratore di Catania non sia un mitomane o uno sprovveduto.

 

 

Non parlo, o riparlo, del Consiglio Superiore della Magistratura, che continua a dare o a lasciarsi attribuire segnali di diffidenza, se non di ostilità, verso un procuratore capo non dico fresco, ma quasi, di nomina. Nel cosiddetto palazzo dei marescialli, non dei caporali, si parla della possibilità di predisporre una pratica non a difesa del procuratore di Catania, attaccato da varie parti per il fango che avrebbe sparso sui soccorsi dei volontari ai migranti, ma contro di lui per presunta incompatibilità ambientale. Ma incompatibilità con chi? Con quale ambiente? Quello forse che, all’ombra del dovere dell’accoglienza e di tante altre buone cose, non ha interesse, diciamo così, ad approfondire il problema sollevato dal procuratore per andare sino in fondo, senza riguardi per nessuno, in Italia e fuori.

La stampa, infine, non è da meno. È bastato, per esempio, che anche il ministro Alfano ne prendesse le difese perché il Fatto Quotidiano con la penna o la tastiera del direttore in persona si dimenticasse del sostegno a Zuccaro ben argomentato il giorno prima, sino a farmelo quasi invidiare, pur di tornare ad attaccare e deridere il ministro. Che non gli deve essere simpatico nè come esponente del governo, nè come esponente politico, nè -temo- come persona, per cui qualsiasi cosa pensi o dica ha torto, anche quando ripete l’ora esatta appresa componendo l’apposito numero telefonico o sbirciando la videata del computer. Potenza della passione politica e umana, alla rovescia naturalmente.

Più che il Falso Quotidiano, come di recente gli è capitato di dire imitando Travaglio nell’abitudine di storpiare i nomi di persone e cose non gradite, Matteo Renzi avrebbe potuto dire il Pregiudizio Quotidiano, senza esporsi all’accusa dell'”insulto” guadagnatosi dal direttore. Il pregiudizio può essere talmente radicato in una persona a prescindere a volte dalla malizia, o dal dolo. Si può finire per avere un pregiudizio persino a propria insaputa.

 

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Inconsapevole, sia pure a fin di bene, cioè per ingenuità, deve essere stata anche la difesa pregiudiziale di tutte le organizzazioni di volontariato operanti nel Mediterraneo che ha fatto nello studio televisivo di Lilli Gruber, a la 7, il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, che ha voluto dare così il suo contributo alla campagna contro Zuccaro.

Forse il buon Tarquinio ha pensato di riconquistare in questo modo anche la fiducia di monsignore Nunzio Galantino e, più in generale, della Conferenza Episcopale Italiana, recentemente compromessa per essersi riconosciuto nei “tre quarti” delle posizioni dell’amico Beppe Grillo. Ma nella Chiesa, dopo una posizione iniziale tutta favorevole alle organizzazioni del volontariato presenti sin nelle acque libiche, è sopraggiunta una più cauta riflessione sfuggita forse allo sfortunato direttore di Avvenire. Che potrebbe pertanto rischiare un’altra tirata d’orecchie da parte di Galantino.

 

 

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Salviamo il soldato Zuccaro, trattato peggio di uno scafista

Dio mio, che cosa mi è successo? Ho bevuto troppo vino? No, sono quasi astemio. Mi sono drogato? No. In vita mia, vi giuro, non ho mai provato neppure uno spinello, che pure vedo evocare nei ricordi di tanti amici che ne parlano come di un’esperienza quasi obbligata, perché era di moda ai tempi della loro giovinezza. Ho preso qualche botta in testa? Non ancora, anche se ogni tanto temo che qualcuno me la dia, specie quando mi capita di discutere con qualche grillino nella ostinata speranza di riuscire a farlo ragionare, lasciando le stelle al loro posto e rimanendo con i piedi sulla terra.

Eppure, è proprio con i grillini, o con alcuni di essi, e persino con quel malato di congiuntivite di nome Luigi e di cognome Di Maio che mi sono trovato d’accordo nelle ultime 48 ore, da quando è esploso il caso di Carmelo Zuccaro. Che è il procuratore capo di Catania, al quale sembrano ormai mancare solo le manette e l’espulsione dalla magistratura per avere sospettato che non sia solo generosità tutto quello che luccica sulle acque del Mediterraneo nelle operazioni di soccorso ai migranti messi in mare, spesso a forza, da odiosi trafficanti di carne umana.

Il rifiuto di scambiare Zuccaro per un pazzo, per un irresponsabile, per un mitomane, per un magistrato che non parla per atti ma con la voce, peraltro come se fosse l’unico in Italia a non parlare solo per atti, specie in considerazione di quello che -come vi dirò più avanti- è appena avvenuto nella solita Palermo alla presenza silenziosa dell’altrettanto solito magistrato regolarmente in servizio attivo, mi ha fatto improvvisamente trovare dall’altra parte del bancone frequentato da una vita professionale. Da garantista come credo di essere sempre stato, anche quando si rischiavano denunce di collusione e favoreggiamento di criminali più o meno “incalliti” come i compianti Bettino Craxi, Severino Citaristi, Gabriele Cagliari, Sergio Moroni, Renato Altissimo e Giulio Andreotti, per non parlare dei sopravvissuti Arnaldo Forlani, Paolo Cirino Pomicino, Ottaviano Del Turco, Rino Formica ed altri ancora, mi sono improvvisamente ritrovato in compagnia di giustizialisti a prova di bronzo. Giustizialisti che si vantano di esserlo, lo gridano nei titoli dei loro libri, tutti regolarmente recensiti e messi in bella mostra per facilitarne la vendita. Giustizialisti che considerano i garantisti alla stregua di delinquenti che l’hanno fatta franca, per ripetere parole e immagini di un noto magistrato che solo a vederlo e a sentirlo parlare mi fa una paura da morire.

 

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A Zuccaro si contesta, fra l’altro, di avere buttato fango su tutte le ong, chiamiamole pure associazioni private di volontariato, che soccorrono i migranti sin dalle acque libiche, ma il magistrato ha parlato del rischio che solo alcune di esse possano avere non soccorso ma contribuito a trafficare col fenomeno dell’immigrazione clandestina.

Al procuratore di Catania si contesta inoltre di avere lanciato l’allarme disponendo solo di intercettazioni o altre prove non utilizzabili in un processo perché raccolte da servizi segreti stranieri, ma anche italiani, senza la necessaria copertura o richiesta dell’autorità giudiziaria. Beh, allora si faccia come ha chiesto Di Maio: si cambi la legge e si consenta, con tutte le garanzie del caso, l’uso anche di questi strumenti, che in ogni caso sono stati adoperati da organismi statali e non criminali.

Il magistrato siciliano ha in fondo lanciato solo un allarme, ha chiesto maggiore attenzione, trovando ascolto persino nella Chiesa misericordiosa di Papa Francesco, almeno nelle ultime 24 ore. Non ha aperto alcuna inchiesta formale né chiesto e ottenuto l’arresto di qualcuno. Di che cosa stiamo parlando? Di che cosa parlano anche al Consiglio Superiore della Magistratura, dove si mobilitano, o quasi, contro il procuratore di Catania e mostrano di prendere ancora per buona la rappresentazione di due Procure della Repubblica, quelle di Napoli e di Roma, per nulla scontratesi, o scontratesi a loro insaputa, nella gestione della polizia giudiziaria a supporto delle indagini sugli appalti della concessionaria degli acquisti della pubblica amministrazione: la famosa Consip.

Improvvisamente si è diventati rigorosissimi nella valutazione delle prove o degli indizi usabili non in un processo ma in un dibattito pubblico, qual è quello che Zuccaro ha aperto assumendosene la responsabilità, dopo che in questo paese, e nei suoi tribunali, se ne sono viste di tutti i colori quanto a raccolta di prove. Si è arrivati persino alla manipolazione di intercettazioni regolarmente disposte dall’autorità giudiziaria -ne vogliamo riparlare?- o alla intercettazione di un capo dello Stato. Che ha dovuto ricorrere davanti alla Corte Costituzionale per vedersi riconoscere il diritto alla riservatezza nelle conversazioni telefoniche ricevute non da un indagato qualsiasi, ma da uno che era stato, fra l’altro, presidente del Senato e per un po’ anche il suo vice presidente al Consiglio Superiore della Magistratura. Ma di che cosa stiamo parlando, per favore? Di quale nefandezza deve rispondere Zuccaro? Al quale offro sin d’ora ospitalità e aiuto, se dovesse perdere il posto.

 

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A proposito delle intercettazioni al Quirinale, mi riferivo naturalmente a quelle in cui incorse l’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, e gestite dalla Procura di Palermo, in particolare dall’allora procuratore aggiunto Antonio Ingroia. Che ora non è più magistrato, ma è tornato a parlarne in un incontro con la stampa alla presenza, secondo alcune cronache, del suo ex collega Nino Di Matteo. Vi avevo genericamente accennato prima. Ora entro nel merito.

Ingroia è tornato imperterrito ad accusare Napolitano di avere cercato di ostacolare dalla sua posizione di presidente della Repubblica il processo, ancora in corso a Palermo, sulle presunte trattative di 25 anni fra lo Stato e la mafia delle stragi. E, visto che si trovava, per non farsi mancare niente, il conferenziere gli ha anche dato la colpa del proprio insuccesso politico nelle elezioni del 2013, alle quali l’allora magistrato in aspettativa partecipò candidandosi alla guida del governo con un movimento chiamato “Rivoluzione civile”, prima di diventare più semplicemente “Azione civile”, una volta mancata appunto la rivoluzione con un risultato da prefisso telefonico, come si dice comunemente quando esso è assai modesto.

Ebbene, secondo Ingroia ben altro sarebbe stato l’esito della sua campagna elettorale solo se il Pd guidato da Pier Luigi Bersani avesse accettato l’apparentamento con le liste ingroiane. Non è minimamente saltata nella testa dell’ex magistrato l’idea che il Pd apparentandosi con lui avrebbe potuto prendere ancora meno voti. Ma la cosa per Ingroia più rilevante sarebbe il veto posto da Napolitano al Pd per quell’operazione, in odio evidentemente a lui, che aveva osato sfidarlo da magistrato.

Anche per Napolitano e familiari, naturalmente, male che vada, c’è un posto a tavola a casa mia.

 

 

 

 

 

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Auguri all’Unità che sciopera

         A guastare la festa della prevista, direi scontata vittoria di Matteo Renzi nelle primarie di domani, 30 aprile, che gli restituiranno la segreteria del Pd, sarà l’assenza dalle edicole, proprio quel giorno, de l’Unità. Che è il quotidiano storico della sinistra italiana, fondato nel 1924 da Antonio Gramsci, di cui è stato celebrato giovedì scorso l’ottantesimo anniversario della morte, avvenuta in una clinica romana dopo una lunga detenzione sospesa per disposizione personale di Mussolini solo quando l’interessato stava ormai spegnendosi. Tutto di quella detenzione fu atroce e vergognoso, a cominciare dall’arresto, eseguito quando Gramsci era deputato.

         Non foss’altro per queste circostanze evocative, e non solo per la coincidenza con le primarie congressuali di un partito che ne è ancora il punto di riferimento politico, gli amministratori dell’Unità avrebbero potuto, anzi dovuto scegliere un altro momento per l’ennesimo scontro con la redazione obbligandola allo sciopero. Che è stato proclamato appena dopo che era stato deposto il nuovo direttore, Bucciantini, succeduto al dimissionario Sergio Staino. Una rimozione motivata dal dissenso da un piano di ristrutturazione e insieme di rilancio, o tentativo di rilancio, che il nuovo direttore si accingeva ad esporre ad una redazione sotto minaccia di licenziamento quasi collettivo, essendo in pericolo 20 dei 28 redattori.

         I fatti parlano da soli. Ogni commento a questo punto è davvero superfluo. Tanti auguri all’Unità. La cui testata avrebbe potuto e dovuto essere o diventare -ma è augurabile che riesca ancora a diventare- l’unico posto o momento di ritrovo di una sinistra ancora una volta troppo divisa.

Lunga vita e protezione al procuratore Zuccaro

         E va bene. Prima o dopo poteva o doveva capitare di condividere qualcosa dei “portavoce” pentastellati, pur al netto dei loro toni esagitati e dei loro errori di geografia, di grammatica e di sintassi. Con la faccenda del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, e della sua denuncia del rischio concreto che ci siano organizzazioni non governative che lucrano sul traffico degli immigrati, facendo da sponda con le loro navi agli squali travestiti da uomini che in Libia mettono su gommoni fatiscenti centinaia e centinaia di disperati, derubati di tutto e mandati verso i soccorsi di volontari più o meno presunti in grado di portarli nei porti italiani, sono d’accordo con Luigi Di Maio e gli altri grillini. Che sono desiderosi di saperne di più e di aiutare in tutti i modi il magistrato coraggiosamente espostosi ai dubbi e al sarcasmo dei soliti buonisti. Ai quali basta una sigla ong per togliersi il cappello e fare i salamelecchi. Dimentichi, costoro, delle intercettazioni delle indagini sulla cosiddetta Mafia Capitale in cui si parlava di guadagni con gli immigrati uguali, se non superiori a quelli con la droga.

         Lunga vita quindi a Carmelo Zuccaro. A tutela del quale doveva essere lo stesso comitato di presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura a disporre l’apertura di una “pratica”, non lasciandola chiedere soltanto al solito consigliere laico forzista già trattato con insofferenza per avere chiesto un’indagine sulle Procure di Napoli e di Roma in conflitto a loro insaputa -pensate un pò- nella gestione della polizia giudiziaria e, più in generale, nelle indagini sugli appalti miliardari, in euro, della Consip. Che è la centrale degli acquisti della pubblica amministrazione.

         Lunga vita non solo a Carmelo Zuccaro, ma anche ai responsabili dei servizi segreti stranieri, ma si spera anche italiani, che gli hanno fornito gli elementi per lanciare l’allarme sulle speculazioni di cui sono capaci dei lupi travestiti da agnelli. E ciò a dimostrazione dell’aforisma, attribuito a torto o a ragione a Karl Marx, delle buone intenzioni di cui sono lastricate le vie verso l’inferno: non quello dantesco, ma quello vero.

         Intanto non sarebbe male assicurare una scorta di protezione al procuratore di Catania, o rafforzare quella di cui dovesse già disporre.

Improbabile il ritorno di Renzi a Palazzo Chigi

Peccato che Matteo Renzi, pur sicuro ormai di vincere le primarie di domenica prossima e di tornare quindi ad essere a tutti gli effetti il segretario del Pd, continui a porre ogni tanto il problema quanto meno prematuro di un suo ritorno anche a Palazzo Chigi. E vi pasticci pure un bel po’, fornendo argomenti davvero gratuiti ai tanti nemici che ha fuori ma anche dentro il suo partito, pur dopo la scissione consumatasi a sinistra.

A proposito di nemici o avversari interni, non parlo tanto di Michele Emiliano, tutto sommato inoffensivo per quel tono sempre sopra le righe che usa, per le troppe capacità che si attribuisce, persino quella di dimezzare, o quasi, il bacino elettorale di Beppe Grillo e insieme di poterselo fare alleato in un governo dopo le elezioni. E infine per quel segno beffardo della sorte che lo ha incidentato durante un ballo dal quale si sarebbe dovuto astenere con quella ingombrante stazza fisica che ha.

Parlo piuttosto dell’altro concorrente di Renzi: il flemmatico, per niente gradasso, ma astuto ministro della Giustizia Andrea Orlando. Che, consapevole di avere ormai perduto, a dispetto del “non si sa mai” di stampo un po’ propagandistico e un po’ scaramantico, ha già sistemato una trappola sul percorso del segretario adombrando o minacciando, come preferite, la proposta di un referendum nel Pd se Renzi dopo le elezioni preferisse come interlocutore di governo Silvio Berlusconi a Giuliano Pisapia, e alla relativa galassia del centrosinistra cosiddetto ampio. Un centrosinistra cioè comprensivo non solo di Pier Luigi Bersani, che forse l’ex presidente del Consiglio accetterebbe pure, facendosi una risata sulle sue crozzate ironiche, ma anche di quel Massimo D’Alema che Renzi non vuole neppure sentir nominare. Lui stesso, d’altronde, evita di farne nome, cognome o soprannome -“Baffino”- quando ne attacca la linea e il vero o presunto livore, preferendo alludervi soltanto. Tanto, l’uditorio renziano capisce a volo e procede ai fischi di ordinanza. Altro che risate.

Ebbene, un referendum interno al Pd, fra gli iscritti, sul rapporto con Berlusconi come alleato di governo, per quanto obbligato nel quadro di un risultato elettorale prevedibilmente sterile per un partito che non disporrà da solo della maggioranza dei seggi parlamentari, potrebbe risultare molto meno facile e scontato di quanto lo stesso Renzi non ritenga dopo una pur così netta vittoria congressuale.

 

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Non è poi detto che, una volta vinto il referendum interno al partito per preferire Berlusconi a Pisapia e compagni per la formazione di una maggioranza parlamentare, magari dopo il giro di prova di un incarico conferito ai grillini da Mattarella se dovessero raccogliere nelle urne più voti degli altri, il capo di Forza Italia accetti che a guidare il nuovo governo sia Renzi. Al quale un monito in questa direzione è stato appena lanciato giustamente in una intervista dal compagno di partito Goffredo Bettini, sostenitore di Orlando nella corsa alla segreteria ma abbastanza esperto di politica per sapere analizzare bene una situazione al di là della propria collocazione nello schieramento di cui fa parte.

I rapporti fra Renzi e Berlusconi, o viceversa, non sono più quelli di reciproca e non nascosta simpatia della fase iniziale del famoso “Patto del Nazareno”: quando l’allora segretario del Pd sdoganò in qualche modo, come partner delle riforme costituzionali, un Berlusconi appena decaduto da senatore per la condanna definitiva per frode fiscale, in applicazione retroattiva della cosiddetta legge Severino. E lo stesso Berlusconi, dal canto suo, pur di tornare così presto sulla scena dei protagonisti, dimenticò o finse di dimenticare il contributo dato dietro le quinte dall’allora sindaco di Firenze alla gestione della sua decadenza dal Senato, cui si giunse addirittura con voto palese nell’aula di Palazzo Madama, e nonostante esponenti qualificati del Pd, fra i quali l’ex presidente della Camera Luciano Violante, avessero sapientemente suggerito di rimettere la controversa legge Severino all’esame della Corte Costituzionale.

Pur trattenuto da ambasciatori un po’ soporifori come Gianni Letta e persino Denis Verdini, al di là delle sue esuberanze verbali e fisiche, Berlusconi fu colto progressivamente da dubbi su Renzi. Che lo costringeva continuamente a concessioni indesiderate o sulla legge elettorale chiamata Italicum o sulla riforma costituzionale. Poi arrivò l’incidente finale e irreparabile della rottura sull’elezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica, scelto personalmente da Renzi dicendo praticamente a Berlusconi: o prendi o lasci.

Che poi Berlusconi abbia scoperto tutte le qualità del nuovo capo dello Stato dimenticando trascorsi alquanto burrascosi, come le dimissioni di Mattarella da ministro, negli anni Novanta, contro la legittimazione delle tre reti televisive dell’allora Fininvest, è un altro discorso. Che appartiene alle opportunità o convenienze politiche.

 

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Ora Berlusconi, peraltro ancora privo della piena agibilità politica, in attesa e nella speranza che la Corte Europea di Strasburgo gli restituisca la candidabilità perduta con la condanna penale e con la decadenza da parlamentare, ha interesse certamente a rientrare comunque in gioco ma anche a proteggersi da una eccessiva esposizione e concorrenza elettorale di Renzi sul versante moderato.

Preferire a Renzi un altro esponente del Pd per la guida del governo, magari confermando a Palazzo Chigi il conte Gentiloni, potrebbe inoltre aiutare Berlusconi a ridurre la portata e gli effetti di una divaricazione nel centrodestra. Dove il segretario della Lega Matteo Salvini tratta Renzi come un nemico, rifiuta rapporti con chi ne ha avuti e ne ha col segretario uscente e rientrante del Pd, tipo Angelino Alfano, e tuttavia rimane per Berlusconi un alleato utile, se non necessario, per continuare a governare regioni importanti come la Lombardia, il Veneto e la Liguria, per non parlare delle città che già leghisti e forzisti amministrano insieme, o di quelle che potrebbero conquistare nelle elezioni comunali dell’11 giugno, ed eventuali ballottaggi dopo due settimane.

Ma anche sul versante di sinistra, se mai il Pd fosse costretto a cercare alleanze di governo in quella direzione dopo le elezioni, con o senza il referendum proposto o minacciato da Orlando, un ritorno di Renzi a Palazzo Chigi potrebbe risultare difficile, o addirittura impossibile. Lo stesso Orlando si è un po’ offerto al posto suo, dicendo, sia pure con troppa enfasi, che “solo” lui potrà unire, al punto in cui sono giunti i contrasti di natura anche personale, le componenti del centrosinistra, con o senza trattino.

E Renzi che farebbe? Condannerebbe il paese all’ingovernabilità pur di impuntarsi sulla propria candidatura ad una carica che peraltro è nella disponibilità, quanto a nomina, solo del presidente della Repubblica? E’ un’altra ragione, questa, per la quale trovo irrazionale, se non anche imprudente, il periodico ritorno di Renzi all’argomento e all’obiettivo di Palazzo Chigi, non accontentandosi della segreteria del partito.

 

 

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Mattarella ha fretta ma i presidenti delle Camere no

Altro che un altolà, l’ennesimo, alle elezioni anticipate, come i contrari a questa prospettiva hanno voluto interpretare con disarmante ingenuità, o eccessiva e disdicevole malizia, il pranzo improvvisato al Quirinale dal capo dello Stato con i presidenti delle Camere, Pietro Grasso e Laura Boldrini. Cui Sergio Mattarella ha deciso di sollecitare a quattr’occhi, senza perdere tempo con un messaggio al Parlamento, che tuttavia non è da escludere, l’approvazione della riforma o riformina elettorale da lui giustamente ritenuta indispensabile dopo i tagli apportati dalla Corte Costituzionale alle leggi che disciplinano il rinnovo del Senato e della Camera. Leggi che, pur essendo immediatamente applicabili, secondo una specie di certificazione rilasciata dalla stessa Corte decidendone le amputazioni, produrrebbero risultati elettorali da far mettere le mani nei capelli, almeno a chi li ha. E Mattarella ne ha.

Già questo la dice lunga sui criteri ben poco logici con i quali si è presa l’abitudine di lavorare nel Palazzo della Consulta, peraltro dirimpettaio del Quirinale. Ma questo è un altro discorso, peraltro inutile perché per porvi rimedio bisognerebbe rimettere mano alla Costituzione e disciplinare diversamente competenze e funzionamento della Corte. Figuratevi se è immaginabile qualcosa del genere dopo la miseranda fine riservata a stragrande maggioranza dagli elettori, nel referendum del 4 dicembre, scorso alla riforma targata Renzi, peraltro dopo la bocciatura di un’altra riforma costituzionale: quella del 2005 varata dalla maggioranza di centrodestra guidata da Silvio Berlusconi.

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Se Mattarella ha sentito il bisogno e l’urgenza di convocare i presidenti delle Camere per sollecitare un intervento legislativo sulle regole elettorali, pur scadendo tra febbraio e marzo dell’anno prossimo la legislatura cominciata nel 2013, vuol dire ch’egli sente dalla postazione del Quirinale puzza di bruciato. Egli avverte cioè il rischio, di fronte ai tanti problemi che si accavallano e alle tensioni politiche che aumentano, di trovarsi ben prima della scadenza ordinaria della legislatura alle prese con una crisi governativa di tale gravità da non lasciargli altra via d’uscita che le elezioni anticipate, appunto. Con la conseguente certezza di trovarsi dopo il voto in una situazione ancora peggiore, determinata dall’impossibilità di conciliare la maggioranza di una Camera con quella dell’altra. Sarebbe un manicomio, cui tornando ancora a votare ne seguirebbe un altro. E via di seguito sino al fallimento della democrazia, cui sopravviverebbero, ma neppure a lungo, solo i giudici costituzionali. Che scadrebbero pure loro, uno dopo l’altro, al compimento del nono anno del proprio mandato.

Il guaio del povero Mattarella, a meno che a tempo debito non si spazientisca a tal punto da autorizzare il governo del conte Gentiloni a intervenire clamorosamente sulla materia elettorale con un decreto legge, immediatamente applicabie, è che i presidenti delle Camere da lui invitati a pranzo non sono gli interlocutori ideali per la fretta che egli ha di rimediare ai pasticci combinati dalla Corte nella illusione che vi potesse provvedere un Parlamento solerte e, direi, assennato.

Gli interlocutori di Mattarella in un processo normale sarebbero giudici ricusabili perché sul problema delle elezioni anticipate si sono entrambi già pronunciati, e nello stesso modo. Spalleggiati anche dal presidente emerito della Repubblica e senatore a vita Giorgio Napolitano, tanto Grasso quanto la Boldrini si sono dichiarati non contrari ma contrarissimi allo scioglimento anticipato delle Camere, ritenendo che esse abbiano ancora tante cose da fare che sarebbe una specie di delitto interromperne la durata, neppure se scoppiasse una crisi di governo e non si riuscisse a formarne un altro. O per formarlo occorresse tanto di quel tempo da esaurire solo per questo la parte residua della legislatura, e ad attività parlamentare naturalmente bloccata, e ricorso obbligatorio al cosiddetto esercizio provvisorio del bilancio. Siamo ad un altro pasticcio, politico e istituzionale, non meno anacronistico di quello prodotto dagli illustrissimi giudici del Palazzo della Consulta.

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Una ulteriore prova del fatto che gli interlocutori pur naturali di Mattarella sul tema quanto meno dei tempi della riforma o riformina elettorale siano i meno indicati o adatti all’urgenza responsabilmente avvertita dal capo dello Stato è arrivata con l’annuncio, successivo al pranzo svoltosi al Quirinale, della data scelta per portare in aula, alla Camera, l’argomento. Cioè, la discussione della proposta di legge con la quale cercare almeno di “armonizzare”, come dice lo stesso Mattarella, le regole per il rinnovo dei due rami del Parlamento.

Se ne parlerà non domani, né dopodomani, né martedì prossimo, essendo lunedì la festa del lavoro, ma lunedì 29 maggio. Quindi, con calma. Con molta, anzi moltissima calma. Destinata ad aumentare perché nel mese di giugno i parlamentari reclameranno prevedibilmente le solite pause per partecipare nei loro collegi alle elezioni amministrative dell’11 giugno e ai ballottaggi di due settimane dopo. Si tratta di un test elettorale tanto diffuso, da nord a sud, da essere avvertito da tutti i partiti come una scadenza politicamente decisiva.

Se fossi stato nei panni del presidente della Repubblica, all’annuncio della data del 29 maggio avrei sbattuto il telefono in faccia al pur autorevole interlocutore, o interlocutrice. E avrei dato in escandescenze in tutto il palazzo del Quirinale, annessi e connessi, compreso il terrazzo che si affaccia sulla piazza omonima. Ma per fortuna Mattarella ha un sistema nervoso che mi sembra solidissimo. E io, modestamente, non sono nessuno. E magari rischio, per ciò che ho osato scrivere, una considerazione peggiore di quella che mi sono permesso di esprimere, o far capire, nei riguardi dei giudici costituzionali.

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Travaglio mena Renzi per accoppiarlo a Grillo

Se non ci fosse, il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio bisognerebbe inventarselo sia per la sua indubbia versatilità sia per le sorprese che è capace di riservare a chi lo segue abitualmente, un po’ per diletto e un po’ per mestiere.

Lo avevo lasciato poche sere fa, collegato con Lilli Gruber a la 7, ma in una circostanza diversa da quella su carceri e dintorni commentata da Piero Sansonetti, su un piano di disponibilità insolita verso il Pd che sta tornando sotto la guida di Matteo Renzi. Se davvero ne è mai uscito con le dimissioni presentate dal segretario per anticipare almeno il congresso, visto che non gli era riuscito di avviare il ricorso alle elezioni anticipate dopo la “strasconfitta” – parola sua- nel referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale.

Incoraggiato anche da un ragionamento appena sviluppato dal presidente assai emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky proprio sul Fatto Quotidiano, Travaglio aveva esortato a non escludere la possibilità di qualche convergenza post-elettorale fra gli apparentemente incompatibili Grillo e Renzi. Che insieme, d’altronde, pur dicendosene e dandosele di tutti i colori e di santa ragione, qualcosa l’hanno già fatta in questa accidentatissima legislatura: per esempio, sbloccando la paralisi del Parlamento, pur non essendone partecipi ne’ l’uno né l’altro, quando si sono dovuti coprire i vuoti creatisi nel Consiglio Superiore della Magistratura e nella Corte Costituzionale. Dove proprio per effetto di quella paralisi non siede adesso un candidato del Pd che aveva francamente tutti i requisiti per accedervi: l’ex presidente della Camera e docente universitario, oltre che magistrato in pensione, Luciano Violante.

Il buon Travaglio quella sera si era spinto anche a spiegare come e perché una convergenza di Grillo con Renzi fosse più possibile, o meno difficile, di una con Matteo Salvini, per quanto grillini e leghisti abbiano spesso approcci simili, per esempio, sul terreno scivoloso dell’immigrazione continua, e derivati.

Figuratevi -aveva detto Travaglio con l’aria di conoscere bene cose e persone- se gli elettori 5 stelle, più numerosi al sud che al nord, potranno mai tollerare un accordo con Salvini, visto tutto quello che gli capita ogni volta che si affaccia da quelle parti.

Grande pertanto è stata la mia sorpresa ieri mattina, quando ho visto sferrare sulla prima pagina del Fatto Quotidiano un colpo durissimo contro Renzi su un terreno politico e istituzionale delicato come quello dei rapporti con la magistratura e col ministro della Giustizia, nonché suo concorrente alla segreteria del Pd, Andrea Orlando. Un colpo, poi, inferto con l’aiuto gridato dello stesso Orlando in un titolone così: “Intervista del Fatto a Orlando: “Contro i pm Renzi si scelga un altro ministro”. A pagina 6 replica del titolo e del concetto, cioè di un Renzi sconsideratamente espostosi a reclamare contro i magistrati che hanno accusato il padre di traffico d’influenze illecite, peraltro dopo un’intercettazione manipolata, una tempestiva ispezione ministeriale. Che può pure passare se auspicata da un giornale, non certo dal Fatto in questo caso, o da un amico o sostenitore di Renzi, ma diventa uno strafalcione politico e istituzionale in bocca allo stesso ex presidente del Consiglio di Orlando, che è rimasto guardasigilli anche nel governo di Paolo Gentiloni.

Si dà però il caso che il virgolettato dei titoli è risultato quanto meno posticcio rispetto al testo dell’intervista diligentemente raccolta da Fabrizio D’Esposito. Al quale Orlando ha detto che Renzi non gli ha chiesto nulla. E l’intervistatore, dal canto suo, ha scritto della posizione assunta da “qualcuno dei renziani”. “L’ultimo – ha scrupolosamente notato l’intervistatore- è Franco Vazio, vice presidente della Commissione Giustizia della Camera”, responsabile di avere detto, testualmente, che “Orlando non ha saputo fermare gli attacchi dei magistrati contro Renzi”. “Sono parole che mi addolorano e mi feriscono profondamente”, ha commentato giustamente il guardasigilli riferendosi però a Vazio, appunto, o a “qualche renziano”, ha poi “precisato”, non a Renzi. Nei riguardi del quale al ministro basta e avanza essere concorrente alla segreteria del partito, senza bisogno di attribuirgli anche un’indebita interferenza o pretesa come quella che il direttore del Fatto ha voluto o ha consentito al titolista di attribuire a Renzi in persona.

L’episodio, o l’infortunio, non è la fine del mondo, per carità. Ne accadono di simili nei giornali, magari per la fretta o solo per rendere più appetibile un titolo o un richiamo, ma nei giornali comuni, non in un quotidiano in qualche modo di scuola come si considera quello del buon Travaglio, sempre pronto a dare i voti agli altri, e a coglierli in fallo di omissione o di malizia, specie quando a farne le spese possono essere magistrati e grillini, o viceversa.

Diciamo così per scherzare, o per sfotterci professionalmente a vicenda, che Travaglio è stato un po’ tradito dalla voglia di partecipare alle primarie del Pd senza scomodarsi sino al gazebo di turno, domenica prossima. E con quel titolo ha voluto mettere a modo suo, e gratuitamente, senza l’obolo dei due euro, una scheda contro Renzi.

Tutto questo, giusto per cercare di ridurre la vittoria del segretario rientrante del Pd, e con la vittoria anche le pretese di Renzi nelle trattative post-elettorali con Grillo, se davvero vi si dovesse arrivare. Come Travaglio, sempre lui, prudentemente non esclude dopo averne ragionato col già ricordato presidente assai emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky.

 

 

          Pubblicato su Il Dubbio

Beppe Grillo beato fra tonache e toghe

Un po’ distratti anche dal ponte festivo della Liberazione -l’unico tipo di ponte esente in Italia dal rischio di crolli- non ci siamo accorti della crescente corte del mondo giudiziario a Beppe Grillo e al suo movimento. Altro che, in senso inverso, la corte che Grillo ha tentato di fare alla Chiesa tramite il direttore di Avvenire ottenendo l’effetto contrario grazie -una volta tanto- all’altolà di monsignore Nunzio Galantino, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiano. Che ha avuto il buon senso -una volta tanto, ripeto- e la tempestività di contestare non solo o non tanto lo spazio messo a disposizione di Grillo dal giornale, sino a prova contraria, dei vescovi italiani con una lunga intervista, quanto il commento fattone su un altro quotidianoil Corriere della Sera-dal direttore dello stesso Avvenire, Marco Tarquinio. Il quale si era spinto, benedett’uomo, in uno slancio di vocazione missionaria, a riconoscersi nei tre quarti, addirittura, delle posizioni grilline sulle più importanti questioni italiane, e forse anche mondiali.

Già comparso al recente convegno di Ivrea in memoria di Gianroberto Casaleggio, e d’incoraggiamento per le ambizioni del figlio Davide, con un magistrato in servizio fra i relatori, Sebastiano Ardita, e con l’ex magistrato Antonio Di Pietro fra il pubblico, accorso ad annusare l’aria di un movimento che aveva saputo raccogliere più consensi di lui con l’allora sua Italia dei Valori, il mondo giudiziario ha appena annunciato un contributo d’idee e di proposte proprio ai grillini. Che sono stati esplicitamente indicati come possibili suoi interlocutori da Antonio Ingroia, un altro ex magistrato che ha tentato con ancora minore fortuna del suo amico e collega Di Pietro di investire in politica, con la sua fallimentare Azione Civile nelle elezioni del 2013, la notorietà, il successo, il credito e quant’altro guadagnatosi con la toga addosso. Penso, per esempio, a quando il pubblico ministero Ingroia si scontrava addirittura col presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per la gestione delle indagini e dello stesso processo sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia stragista di 25 anni fa. Uno scontro tuttavia finito davanti alla Corte Costituzionale a vantaggio del capo dello Stato, pur fra le critiche e lo stupore dell’illuminatissimo presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky. Che avrebbe forse dato ragione a Ingroia e, più in generale, alla Procura palermitana.

 

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Ingroia, ora felicemente avvocato e meno felicemente amministratore, indagato, di un ente siciliano affidatogli a suo tempo dal governatore Rosario Crocetta, ha elaborato con Nino Di Matteo, succedutogli alla guida dell’accusa nel lunghissimo processone in corso a Palermo sulle già ricordate e presunte trattative fra lo Stato e la mafia, una proposta di legge anticorruzione che il presidente dell’omonima Autorità, Raffaele Cantone, neppure se la sogna. E’ una proposta chiamata “La Torre bis” in onore di Pio La Torre, il dirigente comunista siciliano ucciso dalla mafia nel 1982, che intende applicare agli indagati per corruzione e concussione il sequestro preventivo dei beni già in vigore per gli indagati di mafia, se non riescono a dimostrare -con un’inversione quindi della ricerca delle prove- la liceità dei loro soldi e delle altre loro proprietà.

La proposta è forte, di certo. E Ingroia, che la illustrerà di persona con Di Matteo venerdì a Palermo, e dove sennò?, ha tutte le ragioni, come vedremo, per considerarla fatta su misura per piacere ai grillini e farla portare avanti da loro nelle aule parlamentari, specie se questa legislatura ormai in esaurimento ordinario, per non parlare del logoramento straordinario del clima politico, dovesse prolungarsi ben oltre la scadenza di febbraio o marzo del 2018 grazie ad una guerra dichiarata apposta, e per niente dispendiosa, alla Repubblica di San Marino.

Con questo tipo di proposta di Ingroia, Di Matteo, Grillo e altri volenterosi si potrebbero eseguire sequestri di valore pari a chissà quali e quante leggi finanziarie. Risolveremmo d’incanto il problema del nostro mastodontico debito pubblico e tutte le complicazioni ch’esso ci procura nei rapporti con Bruxelles e Berlino. L’Italia diventerebbe -tenetevi forte- il paese più virtuoso di tutta l’Unione Europea.

Se si facesse il censimento patrimoniale, diretto e indiretto, delle famiglie di tutti i dirigenti pubblici, amministratori di enti, nazionali e locali, e si inondassero le Procure di segnalazioni di corruzione o concussione a loro carico, non basterebbero i forzieri della Banca d’Italia a tenere in custodia soldi e documenti sequestrati in via preventiva. E magari vendibili e spendibili grazie a qualche comma infilato nella prima legge finanziaria di passaggio per fronteggiare le emergenze, salvo rimborsi a babbo morto, con i tempi ordinari dei nostri processi. Un’idea formidabile. Pensate un po’ quanto dovremmo e potremmo essere grati ad Ingroia per la decisione presa a suo tempo di lasciare la magistratura per mettere meglio a frutto la sua sapienza e, soprattutto, fantasia.

 

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Che questa trovata di Ingroia formidabile -ripeto- sia fatta apposta per calzare perfettamente ai piedi, alle mani e alla testa di Grillo lo ha scoperto lo stesso ex magistrato siciliano consultando -credo di aver capito- gli archivi elettronici del movimento delle 5 stelle. Dove egli ha scovato la proposta non so di quale deputato o senatore eletto nelle liste grilline, ma temo poi uscitone per una delle tante e ormai usuali beghe interne al movimento, in cui si propone di applicare già agli indagati per abuso d’ufficio il sequestro preventivo dei beni consentito oggi ai danni dei mafiosi.

Immagino la faccia del povero Pier Luigi Bersani. Che non sa cosa si sia perso all’inizio di questa diciassettesima legislatura inseguendo un aiutino dei grillini per allestire il suo governo “di minoranza e di combattimento”, presentarsi alle Camere e strappare ai parlamentari pentastellati non dico un vero e proprio voto di fiducia, ma almeno l’astensione, anzi l’assenza dall’aula del Senato nel momento di dire sì o no.

Poi, dovendo guadagnarsi l’appoggio dei grillini giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, secondo per secondo, Bersani avrebbe potuto o dovuto ingoiare persino il sequestro preventivo dei beni per gli indagati di abuso d’ufficio. Che è un reato declassato una volta dallo stesso Bersani, in difesa di un sindaco dell’allora sua “ditta”, il Pd, incorso nell’avviso di garanzia della Procura di turno, ad un banale incidente di percorso per un amministratore locale. Un incidente, anzi, che lui paragonò, e forse non a torto, lo riconosco, ad un sovraccarico contestato dalla Polizia Stradale o dai Vigili Urbani all’autista di un camion.

Bei tempi, quelli in cui Bersani riusciva ancora a ragionare così e non prendeva cappello per qualsiasi cosa di storto gli toccasse di vedere o avvertire, sino a cambiare ditta rovesciandone le insegne.

 

 

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Marine Le Pen fa perdere la testa a Matteo Salvini

Scusate se insisto. Consideratemi pure un fissato, ma continuo a invidiare i francesi, reduci dal primo turno delle elezioni presidenziali e incamminati verso il ballottaggio del 7 maggio fra Emmanuel Macron e Marine Le Pen, nell’ordine in cui hanno preso i voti. E che credo sarà anche quello finale, con una distanza maggiore fra i due.

Invidio i francesi ancora più di ieri per la rapidità con la quale, pur avendo a disposizione due settimane per maturare una scelta, i maggiori esponenti dei partiti battuti al primo turno si sono già pronunciati: tutti praticamente a favore di Macron, eccetto Jean-Luc Mèlenchon, una specie di Fausto Bertinotti d’oltralpe. Che, almeno fino al momento in cui scrivo, non sa che pesci prendere o mangiare, nonostante l’appello fattogli in Italia da Matteo Salvini di preferire Le Pen a Macron. Un appello, condiviso in Francia dal padre di Marine, su cui tornerò più avanti per dirvi tutto il male che ne penso.

Invidio i francesi anche se mi scopro in compagnia di Marco Travaglio, dal quale Dio solo sa quanto di solito dissenta, specie sul tema dei magistrati e dei loro rapporti non solo con la politica ma con tutti i cittadini in genere ai quali capiti la disgrazia di avere a che fare con loro. Ne sapeva qualcosa quel quasi ottantenne appena morto a Roma dopo una caduta in carcere, dove si trovava perché ladro di biciclette. Sì, avete letto bene: ladro di biciclette. Uno che nel dizionario di Travaglio, codice penale alla mano, quindi al riparo da ogni denuncia di familiare o altro, poteva e doveva essere definito “pregiudicato”. Cosa che mi verrebbe voglia di definire, a mia volta, da spregiudicato, ma che mi trattengo dal fare davvero perché, coi tempi che corrono, e coi magistrati che trattano questa materia, potrebbe costare cara a me e all’incolpevole Michele Arnese, direttore di questa testata.

Me ne astengo, preferendo il termine “disinvolto” o “eccentrico”, anche se il dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli in mio possesso, a pagina 1869, dà allo “spregiudicato” un significato per niente offensivo: “che ostenta un’assoluta indipendenza e libertà di modi e di atteggiamenti” o, al massimo, “privo di scrupoli e condizionamenti”. Che pure mi sembrerebbero logici, o umani, per un quasi ottantenne ladro di biciclette, peraltro solo per mania, o malattia, non per vendersele. Sembra che lo abbiano ammesso anche i derubati.

Comunque, per quanto dissenta da lui per queste ed altre questioni, debbo dirvi che non mi sento per niente a disagio a trovarmi d’accordo con Travaglio sul voto e sul dopo-voto francese. Il direttore del Fatto Quotidiano non può avere necessariamente torto, ci mancherebbe.

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E veniamo a Matteo Salvini, come vi dicevo, con la sua reazione al voto francese, cioè con l’auspicio che al ballottaggio del 7 maggio votino per la sua amica e ispiratrice Marine Le Pen il signor Jean-Luc Mélenchon e compagni.

Eppure il segretario della Lega in Italia è di gusti e tendenze assai diverse. Per molto meno di Mèlenchon e compagni i poveri Angelino Alfano, Maurizio Lupi, Pier Ferdinando Casini, Denis Verdini e tanti altri, partecipi in passato del centrodestra guidato da Silvio Berlusconi, sono stati condannati da Salvini all’inferno politico. Essi hanno osato accordarsi negli ultimi anni col Pd di Matteo Renzi. Che non mi sembra francamente una edizione giovanile del pur simpatico Bertinotti. E che non più tardi di due mesi fa è stato malamente abbandonato da Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni non essendo ritenuto abbastanza, anzi per niente di sinistra: una specie di intruso, di cavallo di Troia, oltre che un prepotente, un aspirante dittatore, uno stupratore della democrazia e via fantasticando.

Quella di avere collaborato con Renzi è quindi una colpa imperdonabile agli occhi e alla coscienza di Salvini, Che tuttavia sarebbe disposto a rifare il centrodestra con Berlusconi, che pure è andato per un bel po’ d’accordo col Pd di Renzi, e prima ancora col Pd di Guglielmo Epifani, mettendo propri ministri nel governo di Enrico Letta, cui la Lega si opponeva. A Berlusconi per emendarsi di questa colpa vengono poste da Salvini solo due condizioni: la rinuncia alla pretesa di guidare daccapo una coalizione di centrodestra senza sottoporsi preventivamente al rito delle primarie, che il segretario leghista pensa di poter vincere, e l’impegno a non fare più accordi con Renzi dopo le elezioni. Come invece Berlusconi ragionevolmente sarebbe tentato di fare se il centrodestra non vincesse le elezioni e Renzi gli chiedesse un aiuto per non far fare il governo ai grillini, magari con l’appoggio proprio dei leghisti. Che peraltro hanno già contribuito, insieme con qualche sfumatura bertinottiana, alla Mèlanchon, a far eleggere nella scorsa primavera sindache pentastellate in città come Roma e Torino.

Tutto questo dovrebbe bastarvi ed avanzarvi per farvi un’idea della lega salviniana e dei suoi progetti: anche di quelli riguardanti l’Europa e l’immigrazione, che sono i suoi cavalli di battaglia. Se manca la chiarezza a monte, figuriamoci a valle.

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Naturalmente nell’ottica di Salvini il probabile nuovo presidente della Repubblica francese è un diabolico agente delle centrali finanziarie e dell’Europa dei burocrati che ne dipende.

Più articolato ma ugualmente negativo è il giudizio del direttore del Giornale della famiglia Berlusconi, Alessandro Sallusti, su Macron. Che egli ha difeso dal tentativo di Matteo Renzi di sentirsene emulo, anzi ispiratore, pur non mancando testimonianze autorevoli della grande attenzione riservata da Macron all’allora segretario del Pd e presidente del Consiglio italiano, sino a trarne spunto per lasciare i socialisti francesi e improvvisare un suo movimento chiamato “in marcia”, naturalmente verso il centro. E ciò perché è al centro che si gioca la partita politica in Europa, e non solo in Italia, come ha appena dichiarato proprio Renzi, in una intervista ai giornali del gruppo Monti-Riffeser, compiacendosi del successo di Macron, anzi avendovi scommesso.

Questa storia di Renzi macronizzato o di Macron renzizzato non va proprio giù a Sallusti, convinto che Macron debba piuttosto sentirsi emulo di Silvio Berlusconi. Ma il francese temo, per Berlusconi, che non ci pensi proprio, e non solo perché ad una fidanzata giovanissima ha preferito nella sua vita una moglie che ha più di un terzo della sua età. Del resto, se ci pensasse, e fosse ricambiato, si aggraverebbero per Berlusconi i rapporti con Salvini.

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