I misteri -si fa per dire- del sequestro di Ciro Cirillo, morto a 96 anni

Morto a 96 anni di età, Ciro Cirillo ha involontariamente riproposto ai giornali che hanno avuto la voglia di ricordarla la vicenda del suo sequestro, il 27 aprile del 1981, ad opera delle brigate rosse di Giovanni Senzani.

Il sequestro dell’allora assessore regionale della Democrazia Cristiana ai lavori pubblici, già presidente della provincia di Napoli e della stessa Regione, amico personale e politico del potente Antonio Gava, durò la bellezza di 89 giorni: ben più dei 55 del sequestro del presidente della Dc Aldo Moro, avvenuto tre anni prima a Roma e conclusosi purtroppo con l’assassinio dell’ostaggio. Cirillo invece, rapito nel garage della sua abitazione a Torre del Greco, venne liberato all’alba del 24 luglio dopo il pagamento di quasi un miliardo e mezzo di lire. Ma soprattutto dopo una trattativa gestita dalla camorra di Raffaele Cutolo e dai servizi segreti con le inevitabili coperture politiche. Che furono quelle della Dc, dove Antonio Gava era decisivo per la sopravvivenza di qualsiasi segretario in carica.    Fu naturalmente scandalo, non chiarito del tutto, quanto alle responsabilità, nelle indagini e nei processi. In verità, il capo dell’operazione terroristica, Giovanni Senzani, rimediò uno dei suoi ergastoli, tutti però conclusi -curiosamente- con la scarcerazione in vita, nonostante lui non si sia mai pentito dei suoi delitti e non abbia mai collaborato con la giustizia.

La vicenda Cirillo fu scandalosa sotto due punti di vista: l’una peggiore dell’altra. Innanzitutto, naturalmente, per la diversità di trattamento riservato dalle istituzioni per Moro, sacrificato sull’altare della cosiddetta linea della fermezza imposta dal Pci, subìta dalla Dc e inutilmente contestata all’interno dell’allora maggioranza di solidarietà nazionale dal partito socialista di Bettino Craxi. Cambiata la maggioranza, e tornato il Pci all’opposizione, cambiò anche la linea nella lotta al terrorismo, che tuttavia -bisogna ammettere anche questo- si concluse ugualmente con la sconfitta delle brigate rosse.

Il secondo aspetto, non so se più scandaloso o inquietante, del sequestro Cirillo fu la comprovata debolezza dello Stato in parti importanti del territorio nazionale.

Le brigate rosse, che si erano tenute lontane non a caso dalla Sicilia, dove il territorio era controllato dalla mafia, cui non sarebbero sfuggite le iniziative dei terroristi, si affacciarono invece imprudentemente in Campania, sottovalutando la presenza e la forza della camorra. Che, scoperto probabilmente il luogo di detenzione del sequestrato, assunse di fatto la gestione del sequestro e obbligò le brigate rosse e lo Stato, rispettivamente, a trattare e a pagare, ricavando vantaggi anche per se nella spartizione degli appalti nel settore dei lavori pubblici, di competenza proprio di Cirillo sino al sequestro.

 

Scalfari spinge Renzi a Palazzo Chigi

Eugenio Scalfari ci ha appena spiegato sulla sua Repubblica che quello del giovane Macron, il presidente francese che si sta divertendo a schiaffeggiare l’Italia, non è gollismo, ma qualcosa di più antico e solido: roba di mezzo millennio di storia d’oltralpe. E si è chiesto, un po’ angosciato, come Macron potrà essere fronteggiato da Renzi quando il segretario del Pd tornerà, dopo le elezioni, a Palazzo Chigi.

         Con questo il fondatore di Repubblica ha evidentemente rinunciato del tutto, come del resto si era capito già da qualche sua omelia laica, alla tentazione coltivata per un po’ di consigliare al capo del Pd di accontentarsi della sua carica di partito, mandando o lasciando altri alla guida del governo.

         D’altronde, nella storia della Repubblica, quella vera, voluta dagli elettori col referendum del 1946, il cumulo delle cariche di segretario del maggiore partito e di presidente del Consiglio non ha mai portato fortuna a chi lo ha praticato: prima Amintore Fanfani e poi Ciriaco De Mita.

         Scalfari ha tuttavia posto a Renzi una specie di condizione, sotto forma di consiglio, per ritentare l’avventura: che si rassegni a farsi affiancare da almeno tre personalità che potrebbero dargli una mano: Romano Prodi, che -guarda caso- ha contemporaneamente scritto rammaricandosi che l’Italia sia ormai scambiata per la Croce Rossa Internazionale, Enrico Letta e Walter Veltroni.

         Dopo tutto quello che anche di recente si sono detti a distanza Enrico Letta e Matteo Renzi, a suon di “disgusto” e simili facezie, è francamente difficile pensare che Scalfari possa essere accontentato. Così come mi sembra difficile che Prodi ritrovi la tenda smontata qualche settimana fa dalle vicinanze del Pd e dimenticata -sembra- sul treno che ha preso per andare a montarla in qualche altro posto. Veltroni, già autorottamatosi come deputato per non dare a Renzi la soddisfazione di farlo da segretario del partito, potrebbe essere forse l’unico ad avere qualche possibilità di accontentare Scalfari.

         Il buon Walter ha appena dimostrato di avere problemi solo con i cani, essendone stato morso durante una festa della defunta Unità. E di Renzi, per quante se ne siano dette e scritte dai suoi avversari, nessuno è ancora arrivato a dargli del cane.

Forse è Trump il modello grillino in Campidoglio

         La chiave dell’ultimo capitolo, per ora, del giallo capitolino che si trascina ormai da più di un anno -da quando cioè si insediò la sindaca grillina Virginia Raggi con l’aiuto elettorale della destra e della sinistra che preferirono lei a Roberto Giachetti, il candidato renziano del Pd- si trova in una frase dell’ormai ex direttore generale dell’Atac. Che è letteralmente scappato via, dimettendosi e poi sfogandosi con qualche intervista, dopo avere misurato il dissesto finanziario e operativo dell’azienda romana dei trasporti e verificato le resistenze della sindaca alla sua terapia d’urto, consistente nel ricorso alle procedure fallimentari: le uniche forse in grado di fare ritrovare un po’ di senno ai sindacati e agli altri responsabili del dissesto dei trasporti nella Capitale.

         Beppe Grillo e Davide Casaleggio ? “Mai visti e sentiti. Non li conosco”, ha risposto Bruno Rota. Che si era evidentemente illuso dovesse bastare e avanzare avere conosciuto la Raggi assumendo l’incarico e proponendosi -beato lui- di ripetere a Roma il miracolo compiuto a Milano, dove era riuscito a risanarne l’azienda dei trasporti urbani.

         Ecco, il primo limite dell’amministrazione capitolina a 5 stelle è la confusione estrema all’interno del movimento grillino. Che si ripercuote in Campidoglio con l’impossibilità di capire dove finisca la inadeguatezza della sindaca e cominci quella dei suoi capi o referenti politici, i quali l’hanno commissariata dal primo momento, con tanto di titoli sui giornali, senza che nessuna autorità preposta al controllo delle amministrazioni locali abbia mai ritenuto né opportuno né necessario un intervento chiarificatore.

         Deputati, o portavoce, del movimento grillino salgono e scendono dal Campidoglio nella totale indifferenza, in particolare, della Prefettura. Dove evidentemente si ritiene ininfluente che un sindaco finisca sotto sorveglianza diversa da quella dell’organo locale del governo.

         L’unica cosa che si sia avvertita chiaramente della gestione grillina del Campidoglio è il gran numero di dimissioni, licenziamenti e quant’altro di assessori, dirigenti, assistenti, capi e vice capi di Gabinetto, Dipartimento e quant’altro. E questo senza parlare, per scrupolo garantista, delle vicende giudiziarie che hanno preceduto o accompagnato o seguito i vari e convulsi avvicendamenti.

         I sei licenziamenti appena rimproverati dalla stampa mondiale al presidente americano Donald Trump nei primi otto mesi della sua permanenza alla Casa Bianca è cosetta davanti all’andirivieni nel Campidoglio italiano. Che questa curiosa gara con Trump sia avvenuta e si svolga tuttora a Roma per mano della Raggi o di Grillo, o di Casaleggio, o dei portavoce che gli ultimi due spediscono e l’altra accoglie, ha poca importanza a questo punto.

         Di certo è che la confusione sotto il cielo di Roma è grande, ma la situazione non è per niente eccellente, come diceva invece Mao nella sua Cina.

Se neppure la morte disarma il malanimo………

  Se la prima pagina è, come dovrebbe essere, la faccia di un giornale, ve ne sono alcuni che l’hanno davvero persa di fronte alla notizia della morte di un giornalista e di uno scrittore, per non parlare del politico, come Enzo Bettiza. Che se n’è andato mercoledì scorso in punta di piedi, a 90 anni da poco compiuti, disponendo che la sua morte fosse annunciata solo dopo la sepoltura: un ordine che la sua Laura Laurenzi e i figli hanno rispettato, anche a costo di procurare un grande dolore a tanti amici che avrebbero voluto partecipare anche fisicamente al commiato, e non solo scrivendone, com’è accaduto a me. Che di Enzo rimpiangerò tutto: la sua stima, l’affetto fraterno, la condivisione di tanti passaggi professionali, belli o deludenti che fossero, come l’uscita dal Giornale, nel 1983, c’egli aveva aiutato nove anni prima Indro Montanelli a fondare con una storica scissione dal Corriere della Sera, passato dalla direzione liberale di Giovanni Spadolini a quella di Piero Ottone: un liberale pure lui, in verità, ma disposto a scommettere su quella che il suo predecessore chiamava “Repubblica conciliare” e poi divenne “compromesso storico” fra la Dc e il Pci.

         Proprio il Giornale, passato a Silvio Berlusconi già prima del 1983, ha dedicato alla memoria del suo co-fondatore un articolo agrodolce, diciamo così, di Livio Caputo. Che, pur riconoscendo all’amico Enzo il merito non solo di avere contribuito alla fondazione del quotidiano ma anche di averlo “aperto al mondo”, è tornato a rappresentare la falsa immagine di un condirettore sostanzialmente assente, preso dai suoi impegni esterni, a cominciare da quelli politici di senatore prima e di eurodeputato poi. Enzo invece c’era, eccome, dice ancora oggi con rabbia la sua fedele segretaria Rosanna Colombo. C’era sempre nei momenti cruciali, come quando Montanelli fu gambizzato dalle brigate rosse e toccò a lui prendere le redini del Giornale. C’era anche in quei giorni del 1983, tenuto all’oscuro dell’incidente che poi sarebbe sfociato nella nostra uscita: la mancata pubblicazione di un mio editoriale considerato troppo craxiano.

         Trovammo rifugio, dopo quella rottura, nel gruppo Monti degli allora Resto del Carlino e Nazione, di cui Enzo divenne direttore editoriale per espressa volontà del vecchio editore che si ostinava a chiamarlo “Bezzita”: giornali ai quali poi si sarebbe aggiunto Il Giorno. Ebbene, sulla prima pagina del Quotidiano Nazionale, che ora raggruppa le tre testate, non hanno trovato un rigo -dico uno- da scrivere su Bettiza. Al quale evidentemente il nipote di Monti, Andrea Riffeser, non perdona ancora la rottura consumatasi con lui dopo pochi anni, quando fu nominato alla direzione della Nazione un direttore appesantito, diciamo così, dall’appartenenza alla P2 di Licio Gelli. Seguirono le dimissioni di Enzo per protesta.

         Non ho trovato un rigo su Bettiza neppure sulle prime pagine di Avvenire e del Manifesto. Sotto un titolo elogiativo del Tempo ho invece letto una curiosa rappresentazione di Enzo firmata da Marcello Veneziani, che gli ha rimproverato “la recita del ruolo di antipatico”, di cui francamente non mi sono mai accorto in ben 43 anni di amicizia e colleganza.

         Sul Fatto, bontà loro, hanno avuto il buon gusto di non tornare alla favola divulgata da Marco Travaglio di Bettiza e me “licenziati” da Montanelli, anziché dimissionari, e gli hanno riconosciuto di “aver capito tutto dell’Urss (ma invano)”. In verità, Enzo aveva capito tutto anche della sinistra italiana e della sua lunga abitudine di liquidare l’anticomunismo come fascismo.

         Leale è stato invece il ricordo di Enzo sul Foglio a firma di Giuliano Ferrara, che aveva per Bettiza una simpatia ricambiata, pur al netto di quegli eccessi dell’elefantino che Enzo affettuosamente attribuiva a fattori “ormonali”. Egli avrebbe riso della licenza che Giuliano ha voluto permettersi dando a Enzo del “maestro coraggioso” ma anche del “giornalista per caso”. Ma un caso felicissimo.

In memoria del grande Enzo Bettiza, e dei torti subiti……..

Quando, ieri mattina, la mia carissima amica Laura Laurenzi, la mamma degli ultimi due dei suoi figli, mi ha telefonato per avvertirmi di avere appena sepolto Enzo Bettiza, morto mercoledì scorso a 90 anni compiuti il 7 giugno, ho sentito dentro di me, dalla testa al cuore, un vuoto assoluto. E poi ho pianto come un bambino. Ho perduto quello che ho sempre considerato, da quando lo conobbi, 43 anni fa nella casa milanese di Guido Piovene, il mio fratello maggiore.

Fu per noi simpatia all’istante. Che lui soleva attribuire alla stessa aria che avevamo respirato sulle sponde opposte dell’Adriatico, all’ombra -diceva- degli stessi ulivi. Enzo era nato a Spalato, da dove si trasferì esule in Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale, sbarcando sulle spiagge della mia terra pugliese. Poi si trasferì a Roma, dove frequentò l’Istituto delle Belle Arti con la coetanea Gina Lollobrigida. Se ne vantava ogni tanto rammaricandosi di non essere riuscito a conquistarla.

Da Roma andò poi al nord, attratto dal giornalismo, che allora aveva come sua capitale Milano. Ma prima di approdare in una redazione, privo dei mezzi che la facoltosa famiglia aveva perduto del tutto nella sua Dalmazia, Enzo fece o tentò i mestieri più diversi. Arrivò a vendere sigarette sui treni, fino a quando un amico gli rimediò uno strano posto per un liberale come lui, peraltro fuggito dal comunismo approdato nella sua terra d’origine: funzionario del Pci guidato da Palmiro Togliatti. A fargli gli esami d’assunzione fu Giancarlo Pajetta, che lo prese subito in simpatia, pur avendo capito all’istante di avere a che fare con un comunista alquanto atipico. Evidentemente il deputato del Pci coltivò la speranza di farne un comunista davvero, usando con lui un supplemento di pazienza, o una pazienza inusuale per quello storico ribelle che era Pajetta, per nulla sorpreso alla fine della irriducibilità liberale del giovanotto. Di cui sarebbe poi rimasto ammiratore come giornalista, scrittore e infine anche politico, essendo Enzo destinato a diventare senatore per la cosiddetta alleanza laica, fra repubblicani, liberali e socialdemocratici, ed eurodeputato per tre legislature.

Conobbi Enzo, come dicevo, nell’abitazione milanese di Guido Piovene in una festicciola improvvisata per l’imminente uscita del Giornale nuovo fondato da Indro Montanelli: con quel nuovo affiancato alla testata come una bandierina, in carattere piccolissimo, perché doveva servire solo a distinguerlo dal nome di un quotidiano analogo già registrato in qualche tribunale.

Uscito dal Corriere della Sera diretto da Piero Ottone, troppo di sinistra per i suoi gusti, ma soprattutto colpevole di essere subentrato all’amicissimo Giovanni Spadolini, Montanelli aveva affidato proprio a Bettiza la selezione e l’arruolamento delle migliori firme della più importante e diffusa testata del giornalismo italiano.

In quel nostro primo incontro a casa di Piovene raccolsi da Enzo il rammarico per l’uscita “tardiva” del Giornale, pronto già da un mese ad uscire nelle edicole solo se Montanelli lo avesse voluto o permesso, come preferite. Ma ciò avrebbe comportato l’esordio durante la campagna referendaria contro la legge sul divorzio: una campagna guidata dall’allora segretario della Dc Amintore Fanfani. Al quale Montanelli non aveva voluto dare il dispiacere di schierarsi con il no, cioè per la conferma del divorzio, essendo grato al leader democristiano del finanziamento decisivo -quello di Eugenio Cefis- procuratogli per l’avventura della scissione del Corriere.

         Montanelli non se la sentì di sostenere i sì all’abrogazione della legge sul divorzio neppure turandosi il naso, come poi avrebbe esortato i lettori a fare con la Dc per evitare che subisse il sorpasso del Pci berlingueriano in forte ascesa proprio dopo la sconfitta referendaria di Fanfani.

Montanelli era uno strano anticonformista, come invece molti lettori forse lo consideravano leggendo i suoi storici corsivi “Controcorrente” in prima pagina, alla cui confezione egli dedicava gran parte del suo tempo, sempre alla ricerca della battuta più sorprendente, anche a costo di compromettere qualche buona amicizia. Come gli capitò con l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini per avere praticamente scritto che Alliende, in Cile, se l’era cercata, la morte, sfidando troppo i generali.

Subito prima o subito dopo l’uscita del Giornale, per mettersi in regola col sentimento comune di lettori ultramoderati e in gran parte tendenzialmente democristiani, nonostante la laicità ostentata del suo fondatore, Montanelli regolarizzò con nozze civili a Cortina d’Ampezzo la sua lunga convivenza con Colette, a patto però che lei regnasse nella casa di Roma e gli lasciasse qualche licenza a Milano.

Il rapporto tra Montanelli e Bettiza, fortissimo nella preparazione del Giornale, divenne via via più difficile per via del successo che entrambi avevano con i lettori. Si sentivano spesso più concorrenti che solidali. Ho sempre avuto il sospetto che Montanelli avesse autorizzato Enzo a candidarsi al Senato nel 1976, insieme con Cesare Zappulli, più per tenerlo lontano dal Giornale che per altro. Ma Enzo, diversamente dalle apparenze, non era tipo da farsi emarginare, specie quando si convinceva, come si convinse, che ci fosse qualcuno professionalmente interessato a tenerlo distante. Così gli apparve, in particolare, Gianni Galeazzo Biazzi Vergani, ch’egli stesso aveva consigliato a Montanelli come uomo di macchina, instancabile nella postazione originariamente pensata per lui di caporedattore. E che invece finì per diventare di condirettore. Di quel nome “troppo lungo” Enzo si è lamentato anche nella sua ultima intervista, volutamente di commiato, rilasciata qualche mese fa ad Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera.

Alla fine il conflitto esplose con una miscela fatta di politica e di temperamento. Si consumò, in particolare, purtroppo attorno ad un mio editoriale che Montanelli non si sentì di pubblicare, una vera e propria rottura sui rapporti e sulla linea da tenere nei riguardi di Bettino Craxi. Di cui Montanelli diffidava, pur apprezzandone l’anticomunismo, e Bettiza invece si fidava, tanto da averne accettato la proposta di essere confermato europarlamentare nelle liste del Psi per l’azione culturale, oltre che politica, esercitata sul fronte del cosiddetto lib-lab. Che significava poi liberalsocialismo.

Eravamo entrambi preparati ormai alla rottura, sospettati a vista di essere degli infiltrati di Craxi nel Giornale, dove peraltro il segretario socialista orgogliosamente si rifiutava di andare a rendere omaggio al direttore, come facevano invece altri politici per guadagnarsene la benevolenza.

Ciò che non avevamo messo nel conto, e ci addolorò, fu il maldestro tentativo di Montanelli -debbo dirlo con tutta onestà, pur rimanendogli grato per altri aspetti della nostra collaborazione- di liquidare l’onesto e trasparente dissidio politico esploso fra di noi come una questione esclusivamente temperamentale. In particolare, Bettiza si procurò la fama immeritata di sfaticato: immeritata, vista anche la sua foltissima e fortunatissima produzione letteraria, con quei due premi Campiello meritati dal suo Esilio e dai Fantasmi di Mosca, per non parlare della sua intensa attività giornalistica. Di me invece fu opposta -bontà sua- alle capacità professionali il solito cattivo carattere. Che -una volta giunta la voce persino al Quirinale- mi procurò una lettera di solidarietà di Sandro Pertini, che notoriamente si vantava di avere un caratteraccio per il solo fatto di averne uno, diversamente da chi non ne aveva alcuno e riusciva perciò a riuscire simpatico a tutti.

A Enzo invece capitò l’umiliazione immeritata dopo parecchi anni -pensate- di sentirsi offrire da Berlusconi la direzione del Giornale, purché affiancato da un direttore “operativo”: offerta giustamente rifiutata. Non faccio nomi per carità umana e professionale.

Ah, Enzo carissimo. Che dolore mi hai dato non solo morendo prima di me, e incaricando Laura di informarmene a sepoltura avvenuta, ma privandomi anche del piacevole, piacevolissimo incubo -scusate l’ossimoro- che avevo di scrivere temendo di deluderti. Chissà, forse ti avrei deluso con ciò che sto finendo di scrivere di te e su di te con gli occhi umidi di lacrime. E col rimpianto di averti avuto purtroppo per poco tempo -nonostante i 43 anni trascorsi da quella festicciola del Giornale a casa di Piovene- come amico, come fratello maggiore e come Maestro, con la maiuscola.

Un abbraccio forte, Enzo, e un grazie grande com’è stata la nostra amicizia.

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

 

 

 

 

 

 

 

            

Renzi si prepara a scrivere un altro libro: Indietro

         Cronache purtroppo non smentite hanno riferito di entusiastici commenti di Matteo Renzi al successo conseguito alla Camera da un altro Matteo, l’amico e compagno di partito Richetti, nell’offensiva contro i circa 2600 ex parlamentari che percepiscono vitalizi destinati, se la legge andrà in porto anche al Senato, ad essere tagliati di circa il 40 per cento, forse anche di più.

         Così quel “mascalzone” di Massimo D’Alema, appunto ex parlamentare, sarà rottamato, al netto dei guadagni come produttore di vino, anche come pensionato perdendo circa 2000 dei suoi 5.223 euro mensili di vitalizio, al netto delle tasse.

         Quell’altro “mascalzone” di Ciriaco De Mita, che alla sua età -poi- osò sfidare Renzi in televisione sulla riforma costituzioale, poi bocciata nel referendum, al netto della pensione che penso abbia maturato anche come dipendente dell’Eni, rimetterà più di 2000 dei 5.862 euro del suo vitalizio, sempre netti.

         Ai pensionati comuni, circa venti milioni, resta solo la paura di subire analoghi tagli se la legge contro i vitalizi disonorevoli ne produrrà un’altra analoga per tutti gli altri, come ha promesso nell’aula di Montecitorio il vice presidente grillino Luigi Di Maio invitandoli a rassegnarsi sin d’ora perché anche i loro sono “privilegi”. In particolare, privilegi rispetto ai sussidi come reddito di cittadinanza che il movimento grillino ha promesso a tutti i cittadini di una Repubblica destinata ad una decrescita…..felice.

         Gli unici che forse riusciranno a salvare le loro pensioni, con apposita legge firmata personalmente da Grillo su delega del capo dello Stato di turno, saranno i magistrati per i meriti guadagnatisi nello smantellamento della Repubblica parlamentare voluta dai costituenti per fare posto alla Repubblica giudiziaria infelicemente in corso.

         Renzi continui pure a festeggiare il grande successo descrittogli dall’amico Matteo, come lui, peraltro capo della Comunicazione del Pd. Su questa strada i venti milioni e rotti di pensionati comuni gli daranno una bastonata elettorale così forte che il prossimo anno, dopo che si saranno rinnovate le Camere, egli potrà firmare un altro bel contratto con la Feltrinelli per scrivere il seguito del suo libro Avanti in vendita in tutta Italia. Il prossimo libro si chiamerà probabilmente Indietro.

 

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net il 29 luglio 2017 col titolo: Perché il caso vitalizi sarà un boomerang per Matteo Renzi

Solo il cappio è mancato a Montecitorio contro gli ex parlamentari

E’ mancato solo il cappio sventolato il 16 marzo 1993 dal leghista Luca Leoni Orsenigo allo spettacolo offerto dai grillini nell’aula di Montecitorio, in particolare col discorso del vice presidente della Camera Luigi Di Maio sulla legge contro i vitalizi. Che tende, fra l’altro, a tagliare quelli degli ex parlamentari ricalcolandone l’importo col sistema contributivo, essendo stati fissati a suo tempo col sistema retributivo. Ci sarà da perdere circa il 40 per cento dell’importo.

Quel cappio, con cui il partito allora guidato da Umberto Bossi reclamava l’impiccagione dei parlamentari già raggiunti da avvisi di garanzia e quant’altro per le indagini chiamate “Mani pulite” sul finanziamento illegale della politica e sulla corruzione che inevitabilmente, secondo i magistrati di Milano e dintorni, lo precedeva o seguiva, è conservato gelosamente in una stanza di Montecitorio dall’allora commesso che lo prelevò dalle mani di Orsenigo su ordine del presidente della Camera Giorgio Napolitano.

Il commesso, Marco Ferretti, nel frattempo salito di carriera sino al massimo della scala, me lo ha mostrato qualche mese fa con un misto di orgoglio e di tristezza. Orgoglio per la sua carriera, ormai compiuta, e tristezza per ciò che quel passaggio dei lavori parlamentari segnò nella storia del Paese. E che certamente non gli sfuggì.

Si vissero allora giorni terribili, in cui le istanze sacrosante per la moralizzazione della vita pubblica si mescolarono, sino ad esserne sopraffatte, a sentimenti di opportunismo politico e di vendetta da voltastomaco. Già c’era stato il suicidio di un deputato, il socialista Sergio Moroni, fucilatosi nella cantina di casa, a Brescia, dopo avere scritto al presidente dell’assemblea una drammatica lettera di commiato e di denuncia del clima di caccia al ladro che riteneva ingiusta. Il finanziamento irregolare della politica era diventata negli anni passati una pratica generalizzata, anche se molti ceravano in quei giorni di girare la testa dall’altra parte.

Al suicidio di Moroni ne seguirono altri in carcere e nei dintorni, diciamo così, a cominciare da quello clamoroso dell’ormai ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, che nel cesso della cella si allacciò al capo un sacchetto di plastica per rimanerne soffocato. Raul Gardini, dal canto suo, preferì uccidersi piuttosto che finire in galera come Cagliari, appunto, col quale aveva trattato l’affare Enimont, diventato nella immaginazione collettiva la madre di tutte le tangenti.

Sei mesi dopo il cappio sventolato da Orsenigo fra le proteste di Napolitano, il Parlamento si sarebbe mutilato da solo approvando a tamburo battente una modifica dell’articolo 68 della Costituzione: quello sulle immunità parlamentari. L’”autorizzazione a procedere” contro deputati e senatori rimase solo per l’arresto, la perquisizione personale o domiciliare e le intercettazioni. Alle quali tuttavia i parlamentari si sarebbero ugualmente trovati spesso sottoposti con le più diverse modalità, se non pretesti.

Le ultime autorizzazioni a procedere anche in giudizio, cioè nelle indagini, avevano del resto subìto modifiche di fatto o regolamentari che ne avevano compromesso l’uso. E’ rimasta celebre, sinistramente celebre, quella mano alzata che l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti fu costretto dal clima imperante nei giornali e nelle piazze ad alzare nell’aula del Senato per approvare il processo di mafia cui sarebbe stato sottoposto. E da cui, pur uscito fisicamente indenne, cioè libero, come dall’altro per il delitto, addirittura, del giornalista Mino Pecorelli, il senatore a vita dovette subire sino alla morte l’onta continua dell’accusa. Che con lettere esplicative dell’ormai ex capo della Procura di Palermo, Gian Carlo Caselli, continuò a considerarlo colpevole, per quanto assolto.

La Repubblica parlamentare cui ci avevano abituato i costituenti, e all’ombra della quale l’Italia aveva potuto risorgere dai danni incalcolabili della seconda guerra mondiale e dalla dittatura fascista, subì una torsione incredibile. Da parlamentare essa divenne giudiziaria, per lo strapotere crescente guadagnatosi dalla magistratura o ad essa ceduto da una politica intimidita e rinunciataria. Ora si sono decisi a chiamarla così -Repubblica giudiziaria, o qualcosa di simile- anche molti di quelli che 25 anni fa inorridivano al solo sentirne parlare e ne smentivano l’esistenza. Penso, fra gli altri, all’ex presidente della Camera Luciano Violante, che ha avuto almeno l’onestà e il coraggio di ammettere alla fine una realtà diventata per lui, ex magistrato, particolarmente triste: una onestà e un coraggio che gli sono costati, fra l’altro, il dileggio dei giustizialisti irriducibili, come Marco Travaglio, e l’ostracismo distruttivo, quando il suo partito -il Pd- lo candidò inutilmente a giudice della Corte Costituzionale.

Diversamente dal presidente della Camera Napolitano, che nella stessa giornata del 16 marzo 1993 comminò al leghista Orsenigo sette giorni di sospensione per “l’inammissibile offesa ai principi di civiltà” arrecata con quel cappio, il gesto del deputato del Carroccio piacque ai cultori dei processi mediatici. Non se ne vergognò nessuno nella Lega, e neppure fuori: una Lega, debbo aggiungere, che per quanto passata di mano e di guida, è rimasta la stessa in materia di giustizialismo e di caccia alle streghe: ieri i ladri di tangenti e oggi quelli di pensione, come vengono praticamente bollati i 2600 ex parlamentari che la percepiscono sotto voce di vitalizi e l’hanno legittimamente maturata, sia nella forma sia nella quantità.

Leghisti e fratelli d’Italia della giovane Giorgia Meloni si sono associati allegramente alla schiacciante maggioranza populista e demagogica- diciamo la verità- con la quale la Camera si è espressa su questa materia, scambiando lucciole per lanterne, e tagliando una ben misera parte della spesa pubblica, come sono 76 milioni di euro rispetto agli 830 miliardi e rotti che lo Stato spende ogni anno.

Neppure i forzisti, per quanto il presidente del gruppo Renato Brunetta avesse visto e denunciato il carattere farlocco della legge, che potrebbe fornire domani l’occasione o il pretesto di tagliare anche il trattamento di milioni e milioni di pensionati comuni, hanno potuto o saputo resistere alla spinta grillina. La coordinatrice di Forza Italia in Lombardia, l’ex ministra Mariastella Gelmini, ha votato a favore della legge, insieme con la pitonessa Daniela Santanchè. E chi sennò? Il massimo delle distanze che Berlusconi in persona ha deciso di poter prendere è stato quell’ordine telefonico al gruppo di uscire dall’aula nel momento del voto, come hanno riferito i giornali senza alcuna smentita. Un’uscita che è apparsa a molti, forse non a torto, una fuga. Un’uscita preferita, evidentemente, alla prospettiva di votare no con i “traditori” del partito o partitino dell’odiatissimo Angelino Alfano.

Nell’aggiudicare al proprio partito il merito, che sicuramente ha, dell’intervento contro i vitalizi, e tutto ciò che potrebbe conseguirne se non ci metteranno pezze consistenti il Senato prima e la Corte Costituzionale poi, per quanto intimidita con le polemiche sul presunto conflitto d’interessi dei pensionati “d’oro” in carica alla Consulta, il grillino Luigi Di Maio, una volta tanto senza errori da congiuntivite, ha deriso i piddini di Matteo Renzi. Che hanno voluto imprudentemente intestarsi la vittoria con un altro Matteo, il Richetti responsabile addirittura della comunicazione del Pd e firmatario della proposta di legge approvata a Montecitorio con ben 348 sì, 28 astenuti e solo 7 contrari.

“Sentiamo il vostro affanno – ha detto sarcasticamente il vice presidente della Camera ai piddini- nel rincorrerci su un tema che non appartiene al vostro dna”. Molti infatti sono stati i malumori nel Pd, repressi da un Renzi che non ha voluto risparmiarsi un’altra occasione di gareggiare con i grillini, per quanto reduce da una sconfitta cocente come quella del referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, anch’esso giocato un po’ con argomenti pentastellati.

Ma l’ombra o la puzza del cappio peraltro lercio di 24 anni fa -lercio appunto l’ho visto fra i trofei dell’amico Marco Ferretti- si sono avvertite soprattutto nella chiusura del discorso di Di Maio, quando il vice presidente della Camera ha detto: “Non rimarrà un solo privilegio. Iniziate a prepararvi”.

Per privilegio temo che i grillini intendano qualcosa che superi la loro cultura, non solo politica, o le dimensioni di quel reddito di cittadinanza, come loro chiamano il sussidio che intendono garantire a tutti nella società pauperistica, o della decrescita felice, che sognano.

 

 

 

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

 

 

 

 

 

La ciliegina di Berlusconi sulla torta tossica dei vitalizi

         La partita dei tagli ai vitalizi degli ex parlamentari, propedeutici a quelli che potranno essere apportati alle pensioni che percepiscono milioni di italiani comuni, si è chiusa alla Camera ancor peggio di quanto si potesse prevedere il giorno prima del voto.

         Il ruolo di opposizione è stato alla fine svolto dai soli esponenti del bistrattato partitino di Angelino Alfano, in odio al quale probabilmente i deputati del partito di Silvio Berlusconi si sono messi anche loro a inseguire i grillini contraddicendo le ragioni esposte pubblicamente dal capogruppo Renato Brunetta contro il provvedimento da macelleria prima parlamentare e poi sociale.

         Il risultato finale di questa partita forzista -da Forza Italia– nella partita più generale dei vitalizi dei 2600 ex onorevoli è stato a dir poco grottesco. Dopo avere pensato ad un’astensione, pur di distinguersi dagli odiati alfaniani, cioè i “traditori”, di cui si accettano ad Arcore rese e rientri al dettaglio, non all’ingrosso, Silvio Berlusconi in persona ha ordinato per telefono la non partecipazione al voto, cioè la fuga dall’aula, per evitare che il gruppo si spaccasse clamorosamente, essendovi alcune erinni decise a votare a favore della legge. Ma due di esse- la potente, si fa per dire, coordinatrice del partito in Lombardia, Mariastella Gelmini, e la pitonessa Daniela Santanchè -chi se no?- si sono ugualmente intruppate nella maggioranza demogrillina, come avevano già deciso e annunciato a destra anche i leghisti di Matteo Salvini e i fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

         Il guaio politico ormai è fatto. Per quante pecette potrà inventarsi Silvio Berlusconi nella reggia di Arcore, o in qualche succursale, per il passaggio autunnale del provvedimento al Senato, la credibilità di Forza Italia è scesa di parecchio agli occhi dei milioni di pensionati sottoposti da anni al rischio dei tagli teorizzati dal presidente dell’Inps Tito Boeri. Che ne immagina per le pensioni, all’incirca, dai 2000 euro lordi mensili in su, destinate a ridursi dal 30 al 40 per cento nel ricalcolo col sistema contributivo, dal retributivo con cui erano state liquidate a suo tempo. E sarà grossa che cola, coi tempi che corrono, se la violazione dei cosiddetti e sempre meno tollerati diritti acquisiti non porterà pure a reclamare la restituzione degli arretrati.

         Ci sarà solo da sperare a questo punto nella capacità di resistenza della Corte Costituzionale, i cui giudici peraltro sono già da tempo sottoposti a una campagna denigratoria da grillini e associati perché sospettati, con le loro pensioni non certamente modeste, di essere in cosiddetto conflitto d’interessi.

         La debacle di Forza Italia in questa partita sociale può tradursi nel colpo di grazia anche sul destino del tanto declamato centrodestra, che marcia sempre più diviso ma continua ad essere conteggiato chissà perché- nei sondaggi come somma dei partiti che lo dovrebbero comporre, per cui spesso risulta in vantaggio rispetto ad altre forze e/ o potenziali aree. Certo, esistono edizioni locali del centrodestra, di livello anche importante come nelle regioni Lombardia, Veneto e Liguria, ma il livello nazionale è altra cosa.

         Del resto, il primo a non credere più di tanto a una nuova edizione di centrodestra a trazione forzista, come in passato, è lo stesso Berlusconi in versione proporzionalistica, quanto al sistema elettorale: un sistema che gli darebbe la possibilità, dopo le elezioni, di muoversi in totale libertà sullo scacchiere politico.

         L’unico che se la ride, in questo scenario, è Beppe Grillo. Al cui principale portavoce alla Camera, il vice presidente Luigi Di Maio, al netto dei suoi strafalcioni grammaticali, sintattici, nonchè di geografia fisica e politica, era francamente difficile dare torto sentendogli dire sarcasticamente nell’aula di Montecitorio agli avversari e concorrenti: “Avvertiamo il vostro affanno nel rincorrerci su un tema che non appartiene al vostro dna”. E sentendolo anche minacciare: “Non rimarrà un solo privilegio, iniziate a prepararvi”.

         “Privilegio”, per i grillini, è naturalmente tutto ciò che supera il loro livello culturale e il miserevole sussidio sociale che essi sognano per tutti.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Chi ride e chi si defila sui vitalizi dei parlamentari

La curiosa vocazione di Renzi al suicidio politico

         Temo, per Matteo Renzi, che gli costerà assai cara la gara che sta facendo con Beppe Grillo, tramite i rispettivi “portavoce”, a tutti gli effetti, contro i vitalizi che, soppressi almeno nominalmente per il futuro, continuano a prendere 2600 ex parlamentari e non so quanti ex consiglieri regionali. E ciò non per eliminare ma solo per ridurre un presunto spreco, o come diavolo si preferisce chiamarlo, di 215 milioni di euro su circa 830 miliardi di spesa pubblica.

         Al netto dei rischi d’incostituzionalità riconosciuti dagli stessi concorrenti alla presunta –anch’essa- popolarità di un intervento del genere, e persino dei rischi che esso naufraghi già nelle acque limacciose del Senato, magari solo con modifiche che la Camera non farebbe in tempo ad approvare prima della fine ormai vicina della legislatura, rimarrà a carico del segretario del Pd un terribile sospetto non di 2600 ex parlamentari ma di milioni di pensionati comuni, e relativi familiari. E’ la paura ch’egli sia disposto dopo le elezioni, per coerenza politica, a tagliare anche i loro trattamenti. Che, al pari di ciò che si vorrebbe fare appunto con i vitalizi, potrebbero essere ricalcolati retroattivamente col cosiddetto sistema contributivo e subire perdite calcolate dagli esperti fra il 30 e il 40 per cento.

         Si tratta, d’altronde, dello stesso piano perseguito da tempo dal presidente dell’Inps Tito Boeri, al quale Renzi da presidente del Consiglio si oppose, temendone proprio gli effetti elettorali, oltre che l’iniquità e i rischi di incostituzionalità per l’attacco ai cosiddetti diritti acquisiti. Evidentemente da semplice segretario, o risegretario, del Pd egli ci ha ripensato ritenendo più pericolosa la concorrenza dei grillini, e quindi inseguendoli.

         In questa gara, si sa, Grillo non rischia nulla, essendo il suo elettorato dichiaratamente non di testa ma di pancia, ma di una pancia piena soprattutto di antiparlamentarismo, che fa scambiare quei 2600 ex fra deputati e senatori, e non so -ripeto- quanti altri ex consiglieri regionali, per parassiti, ladri, carogne e quant’altro. Renzi invece rischia, eccome. Il suo elettorato, specie dopo la scissione subìta dal Pd ad opera della sinistra più arcaica e settaria, arrivata in questi giorni a contestare persino l’abbraccio di Giuliano Pisapia ad Elena Boschi, entrambi ospiti di una festa milanese dell’Unità peraltro scomparsa nel frattempo dalle edicole, non sembra ad occhio e croce confondibile con quello grillino. Lo hanno capito quelli di Forza Italia, che con poche eccezioni, come quella di Mariastella Gelmini,  hanno lasciato soli i leghisti e i fratelli d’Italia, nell’area di quello che era e vorrebbe tornare ad essere il centrodestra, ad accodarsi a Grillo e a Renzi.

         Che cosa pertanto abbia potuto spingere il segretario del Pd sulla strada suicida dell’inseguimento di Grillo non si riesce francamente a capire. Non è evidentemente bastata a Renzi l’esperienza contestatagli non a torto da Giorgio Napolitano di avere perduto il referendum costituzionale del 4 dicembre scorso per avere inseguito anche allora i grillini motivando la riforma con argomenti spesso di sostanziale antiparlamentarismo. Non dimentichiamoci della grancassa per i risparmi che sarebbero derivati dal Senato ridotto a un centinaio fra consiglieri regionali e sindaci senza indennità, ma con rimborsi spese assicurati.

         Sarebbe per Renzi, ma anche per il suo partito, e per il sistema, un secondo tentativo di suicidio, questa volta destinato probabilmente a riuscire.

         A meno che non sia vero il sospetto dei peggiori avversari del segretario del Pd ch’egli in fondo, come lo scorpione che punge la rana e affoga con essa attraversando il fiume, stia godendo all’idea di vedere tagliati i vitalizi, fra gli altri, di due ex deputati non proprio carini con lui come Massimo D’Alema e Ciriaco De Mita.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Tutti gli errori di Renzi nel grillismo antivitalizi dei parlamentari

I conti in tasca a Flavio Cattaneo e Sabrina Ferilli

         Secondo voi dove sta la vera notizia della buonuscita di Flavio Cattaneo dalla Tim-ex Telecom dopo sedici mesi di prestazione come amministratore delegato, sino a quando i soci francesi non ne hanno chiesto e ottenuto la testa? Sta nei 25 milioni di euro, pari a quasi 50 miliardi delle vecchie e indimenticabili lire, decisi dall’apposito comitato dell’azienda su disposizione del Consiglio di Amministrazione? O nei 15 milioni mancanti ai 40 di cui si è scritto per giorni, dopo una prima notizia sui 30 che gli sarebbero spettati? Vai a capire con chi o cosa se la deve prendere un povero disoccupato, magari dopo avere lavorato per l’equivalente di un migliaio di euro mensili e un periodo di tempo dieci volte più lungo di quello trascorso da Cattaneo al vertice di quella che fu la Telecom.

         Ma vai a capire anche con chi o cosa se la deve prendere la bellissima moglie di Cattaneo, l’attrice Sabrina Ferilli, compagna di lungo corso della sinistra militante: un corso interrotto solo l’anno scorso per votare tanto incautamente quanto vittoriosamente, senza paradossi, la candidata grillina al Campidoglio Virginia Raggi. Che forse non l’ha neppure ringraziata.

         La signora Cattaneo avrà magari aiutato il marito a pensare come investire e godersi prima i 30 e poi i 40 milioni di euro sbandierati dai giornali con tanto clamore da metterli in imbarazzo con amici e conoscenti, portati a scambiarli per una coppia esagerata sotto tutti i punti di vista. E si è trovata, la coppia, dalla mattina alla sera a ridimensionare i progetti.

         D’altronde, di quei 25 milioni di euro ora annunciati, praticamente ne rimarrà solo la metà nelle tasche dei coniugi Cattaneo, vista la voracità del fisco italiano. Cui patriotticamente Flavio e Sabrina non risultano avere voluto rinunciare prendendo la cittadinanza di qualche paradiso fiscale, o imitando quei pensionati italiani ai quali il presidente dell’Inps Tito Boeri non perdona di essersi trasferiti in Portogallo o in Bulgaria per avere meno trattenute, o non averne per niente.

 

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Tim, Flavio Cattaneo, Sabrina Ferilli e i 25 milioni di fuoruscita

 

        

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