Se la mafia si è spinta solo sino ad Ostia

         Fra le numerose reazioni alla sentenza di primo grado su quella che la Procura della Repubblica di Roma scambiò per “Mafia Capitale”, ma che come “semplice” associazione a delinquere si è guadagnata comunque una condanna di 41 imputati a complessivi 250 anni di carcere, quella più patetica è stata dell’ex sindaco Ignazio Marino. Che ha voluto cogliere anche questa occasione per tornare a fare la vittima e ad accusare il suo ex partito, e più in particolare il segretario Matteo Renzi, di avere cavalcato l’assai presunta Mafia Capitale per allontanarlo dal Campidoglio. E consegnarlo poi -avrebbe potuto aggiungere, dal suo punto di vista- ai grillini. Dei quali invece Marino non parla male perché anche loro, come lui, parlano male di Renzi. Al quale infine il fortunatamente ex sindaco ha rimproverato di avergli impedito di fare pulizia nella Capitale prima imponendogli, attraverso gli organismi di partito, nomine sbagliate e poi mandando dal notaio i consiglieri comunali del Pd per farlo praticamente destituire con lo scioglimento dell’assemblea capitolina.

         Non una parola Marino ha potuto naturalmente spendere per spiegare come mai anche lui avesse accettato finanziamenti alla sua campagna elettorale dalle cooperative usate per i loro affari dagli associati a delinquere scambiati per mafiosi dagli inquirenti.

         I mafiosi, sempre secondo i risultati delle indagini giudiziarie, viste sentenze già emesse contro altri imputati, per non parlare delle motivazioni adottate per lo scioglimento del relativo Municipio, si sarebbero spinti sino ad Ostia, dove evidentemente la buona sorte della Capitale li avrebbe fermati su quella che la buonanima di Mussolini chiamava “bagnasciuga”, sperando di inchiodarvi le truppe americane già sbarcate in Sicilia.

         Ora gli sbarchi sono altri. Sono quelli, in Sicilia e nei porti di altre regioni meridionali dell’Italia, degli immigrati raccolti nelle acque del Mediterraneo, o addirittura sulle stesse coste libiche di partenza, accorrendovi su richiesta dei trafficanti , come è accaduto a certi navi del volontariato internazionale. Immigrati che purtroppo passano dai mercanti di colore a quelli nostrani, che con le loro cooperative di accoglienza e assistenza riescono a ricavare più utili che dal mercato della droga. Lo hanno raccontato e spiegato ben bene gli imputati non mafiosi nelle intercettazioni che li hanno portati alla sbarra.

         Di fronte a simili oscenità, trovo persino stucchevoli le polemiche e le distinzioni tra mafia e non mafia. E’ come accapigliarsi sugli indumenti, metaforici o reali, che indossano i delinquenti.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Tulle sciocchezze sentite su Mafia Capitale che non era mafia

        

        

Il silenzio assordante dei giornali sull’affondo di Gabrielli a De Gennaro

Di certi silenzi si dice paradossalmente che siano assordanti per l’imbarazzo, la paura, l’omertà, la vigliaccheria e quant’altro riescono a sottindere. E’ il caso. mediatico e politico, del silenzio seguito alla clamorosa intervista a Repubblica del capo della Polizia Franco Gabrielli: una di quelle interviste di solito impossibili senza il consenso preventivo del ministro dell’Interno, che nel nostro caso è Marco Minniti. La cui popolarità e aria di efficienza stanno forse impensierendo troppe presunte volpi.

“Al posto suo mi sarei dimesso” per evitare che il Paese si spaccasse “nei due partiti a favore e contro la Polizia”, ha detto Gabrielli del suo noto e ancora potente predecessore Gianni De Gennaro commentando a sedici anni di distanza dai fatti la “catastrofica gestione dell’ordine pubblico” a Genova durante il G8, quando un giovane perse la vita per strada e altri furono percossi e persino torturati, anche secondo la giustizia europea, tra la scuola Diaz e la caserma di Bolzaneto.

“De Gennaro presentò le dimissioni ma io le rifiutai”, ha detto l’allora ministro dell’Interno Carlo Scajola, rimasto al Viminale sino all’infortunio occorsogli parlando del povero giuslavorista Marco Biagi come di un rompiscatole per la paura che aveva di essere ucciso dai terroristi, come poi avvenne purtroppo sotto casa, nella sua Bologna. Forse Scajola non ha capito bene che Gabrielli, pur amico personale di De Gennaro, ha inteso parlare dell’opportunità, se non addirittura della necessità, che quelle dimissioni fossero irrevocabili.

In ogni caso -pur a sedici anni, ripeto, dai fatti, per i quali De Gennaro fu prima condannato e poi assolto dall’accusa di induzione alla falsa testimonianza in processi che hanno segnato la condanna, sempre per falsa testimonanza, del questore dell’epoca a Genova e, per altri reati, di un bel po’ di esponenti della Polizia che stanno ora per riprendere servizio, al termine dell’interdizione dai pubblici uffici- Gabrielli ha voluto o “dovuto chiudere per sempre una stagione simbolicamente identificata in De Gennaro”. Così ha scritto l’intervistatore Carlo Bonini tornando sulle parole del capo della Polizia, e pensando forse anche all’assenso di Menniti, per spiegare la necessità avvertita evidentemente al Viminale di “rimettere al centro del rapporto tra apparati e autorità politica due termini che misurano la qualità della democrazia: responsabilità e trasparenza”. Che debbono essere mancate spesso in passato se Gabrielli ha sentito il bisogno di una svolta.

In altre occasioni ciò avrebbe provocato un’infinita di polemiche, vuoi per accusare vuoi per difendere l’ancora potente De Gennaro, confermato non più tardi di qualche mese fa alla presidenza di Leonardo, come si chiama adesso la vecchia Finmeccanica. Invece, niente. Le prime pagine dei giornali, a parte Repubblica che ha giustamente ritenuto di tornare sull’argomento, hanno fatto una curiosa gara a ignorare l’argomento. Hanno taciuto anche testate, come Il Fatto Quotidiano, che ci hanno abituati a quello che potremmo chiamare lo scandalo continuo, come continua era la lotta a suo tempo dichiarata da un altro giornale, sino al naufragio sul delitto Calabresi.

Eppure l’intervista di Gabrielli non è arrivata soltanto nel momento, avvertito maliziosamente da qualcuno, sia pure a bassa voce, del già ricordato ritorno imminente di qualche funzionario di Polizia in servizio dopo la sospensione rimediata con i processi sui disordini a Genova del 2001. E’ arrivata -forse non a caso- anche in coincidenza col venticinquesimo anniversario della strage mafiosa in cui perse la vita il magistrato Paolo Borsellino, meno di due mesi dopo l’altra strage che aveva eliminato il povero Giovanni Falcone e in qualche modo interferito nelle elezioni parlamentari in corso per la scelta del successore di Francesco Cossiga al Quirinale.

Dei clamorosi infortuni, a dir poco, in cui incorsero gli inquirenti sull’assassinio di Borsellino ha voluto parlare e dolersi il presidente della Repubblica in persona, Sergio Mattarella. E lo ha fatto appena dopo che Fiammetta Borsellino, la figlia minore del magistrato ucciso con la scorta sotto casa della madre, aveva fatto sentire la sua voce contro la Procura “massonica” di Caltanisetta, dove un gruppo di magistrati, non di occasionali visitatori di quegli uffici, aveva dato credito ad un pentito indotto in modo farlocco, anche con la violenza, a depistare le indagini, come avevano inutilmente segnalato fior di magistrati e politici giustamente ricordati su queste colonne ieri da Tiziana Maiolo.

Hanno ragione Gabrielli e Menniti. A dispetto del silenzio, ripeto, assordante che è seguito all’intervista del capo della Polizia, era ora che cambiasse quanto meno l’aria nei rapporti fra lo Stato e i suoi apparati. Ne potrebbero guadagnare tutti, a cominciare dai gestori della malandata amministrazione della giustizia. Che costituisce purtroppo un tema sgradito, assai sgradito, a chi si è ormai abituato, su vari versanti, a cominciare da quello mediatico, a fare politica usando la giustizia, o viceversa.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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