Se neppure la morte disarma il malanimo………

  Se la prima pagina è, come dovrebbe essere, la faccia di un giornale, ve ne sono alcuni che l’hanno davvero persa di fronte alla notizia della morte di un giornalista e di uno scrittore, per non parlare del politico, come Enzo Bettiza. Che se n’è andato mercoledì scorso in punta di piedi, a 90 anni da poco compiuti, disponendo che la sua morte fosse annunciata solo dopo la sepoltura: un ordine che la sua Laura Laurenzi e i figli hanno rispettato, anche a costo di procurare un grande dolore a tanti amici che avrebbero voluto partecipare anche fisicamente al commiato, e non solo scrivendone, com’è accaduto a me. Che di Enzo rimpiangerò tutto: la sua stima, l’affetto fraterno, la condivisione di tanti passaggi professionali, belli o deludenti che fossero, come l’uscita dal Giornale, nel 1983, c’egli aveva aiutato nove anni prima Indro Montanelli a fondare con una storica scissione dal Corriere della Sera, passato dalla direzione liberale di Giovanni Spadolini a quella di Piero Ottone: un liberale pure lui, in verità, ma disposto a scommettere su quella che il suo predecessore chiamava “Repubblica conciliare” e poi divenne “compromesso storico” fra la Dc e il Pci.

         Proprio il Giornale, passato a Silvio Berlusconi già prima del 1983, ha dedicato alla memoria del suo co-fondatore un articolo agrodolce, diciamo così, di Livio Caputo. Che, pur riconoscendo all’amico Enzo il merito non solo di avere contribuito alla fondazione del quotidiano ma anche di averlo “aperto al mondo”, è tornato a rappresentare la falsa immagine di un condirettore sostanzialmente assente, preso dai suoi impegni esterni, a cominciare da quelli politici di senatore prima e di eurodeputato poi. Enzo invece c’era, eccome, dice ancora oggi con rabbia la sua fedele segretaria Rosanna Colombo. C’era sempre nei momenti cruciali, come quando Montanelli fu gambizzato dalle brigate rosse e toccò a lui prendere le redini del Giornale. C’era anche in quei giorni del 1983, tenuto all’oscuro dell’incidente che poi sarebbe sfociato nella nostra uscita: la mancata pubblicazione di un mio editoriale considerato troppo craxiano.

         Trovammo rifugio, dopo quella rottura, nel gruppo Monti degli allora Resto del Carlino e Nazione, di cui Enzo divenne direttore editoriale per espressa volontà del vecchio editore che si ostinava a chiamarlo “Bezzita”: giornali ai quali poi si sarebbe aggiunto Il Giorno. Ebbene, sulla prima pagina del Quotidiano Nazionale, che ora raggruppa le tre testate, non hanno trovato un rigo -dico uno- da scrivere su Bettiza. Al quale evidentemente il nipote di Monti, Andrea Riffeser, non perdona ancora la rottura consumatasi con lui dopo pochi anni, quando fu nominato alla direzione della Nazione un direttore appesantito, diciamo così, dall’appartenenza alla P2 di Licio Gelli. Seguirono le dimissioni di Enzo per protesta.

         Non ho trovato un rigo su Bettiza neppure sulle prime pagine di Avvenire e del Manifesto. Sotto un titolo elogiativo del Tempo ho invece letto una curiosa rappresentazione di Enzo firmata da Marcello Veneziani, che gli ha rimproverato “la recita del ruolo di antipatico”, di cui francamente non mi sono mai accorto in ben 43 anni di amicizia e colleganza.

         Sul Fatto, bontà loro, hanno avuto il buon gusto di non tornare alla favola divulgata da Marco Travaglio di Bettiza e me “licenziati” da Montanelli, anziché dimissionari, e gli hanno riconosciuto di “aver capito tutto dell’Urss (ma invano)”. In verità, Enzo aveva capito tutto anche della sinistra italiana e della sua lunga abitudine di liquidare l’anticomunismo come fascismo.

         Leale è stato invece il ricordo di Enzo sul Foglio a firma di Giuliano Ferrara, che aveva per Bettiza una simpatia ricambiata, pur al netto di quegli eccessi dell’elefantino che Enzo affettuosamente attribuiva a fattori “ormonali”. Egli avrebbe riso della licenza che Giuliano ha voluto permettersi dando a Enzo del “maestro coraggioso” ma anche del “giornalista per caso”. Ma un caso felicissimo.

In memoria del grande Enzo Bettiza, e dei torti subiti……..

Quando, ieri mattina, la mia carissima amica Laura Laurenzi, la mamma degli ultimi due dei suoi figli, mi ha telefonato per avvertirmi di avere appena sepolto Enzo Bettiza, morto mercoledì scorso a 90 anni compiuti il 7 giugno, ho sentito dentro di me, dalla testa al cuore, un vuoto assoluto. E poi ho pianto come un bambino. Ho perduto quello che ho sempre considerato, da quando lo conobbi, 43 anni fa nella casa milanese di Guido Piovene, il mio fratello maggiore.

Fu per noi simpatia all’istante. Che lui soleva attribuire alla stessa aria che avevamo respirato sulle sponde opposte dell’Adriatico, all’ombra -diceva- degli stessi ulivi. Enzo era nato a Spalato, da dove si trasferì esule in Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale, sbarcando sulle spiagge della mia terra pugliese. Poi si trasferì a Roma, dove frequentò l’Istituto delle Belle Arti con la coetanea Gina Lollobrigida. Se ne vantava ogni tanto rammaricandosi di non essere riuscito a conquistarla.

Da Roma andò poi al nord, attratto dal giornalismo, che allora aveva come sua capitale Milano. Ma prima di approdare in una redazione, privo dei mezzi che la facoltosa famiglia aveva perduto del tutto nella sua Dalmazia, Enzo fece o tentò i mestieri più diversi. Arrivò a vendere sigarette sui treni, fino a quando un amico gli rimediò uno strano posto per un liberale come lui, peraltro fuggito dal comunismo approdato nella sua terra d’origine: funzionario del Pci guidato da Palmiro Togliatti. A fargli gli esami d’assunzione fu Giancarlo Pajetta, che lo prese subito in simpatia, pur avendo capito all’istante di avere a che fare con un comunista alquanto atipico. Evidentemente il deputato del Pci coltivò la speranza di farne un comunista davvero, usando con lui un supplemento di pazienza, o una pazienza inusuale per quello storico ribelle che era Pajetta, per nulla sorpreso alla fine della irriducibilità liberale del giovanotto. Di cui sarebbe poi rimasto ammiratore come giornalista, scrittore e infine anche politico, essendo Enzo destinato a diventare senatore per la cosiddetta alleanza laica, fra repubblicani, liberali e socialdemocratici, ed eurodeputato per tre legislature.

Conobbi Enzo, come dicevo, nell’abitazione milanese di Guido Piovene in una festicciola improvvisata per l’imminente uscita del Giornale nuovo fondato da Indro Montanelli: con quel nuovo affiancato alla testata come una bandierina, in carattere piccolissimo, perché doveva servire solo a distinguerlo dal nome di un quotidiano analogo già registrato in qualche tribunale.

Uscito dal Corriere della Sera diretto da Piero Ottone, troppo di sinistra per i suoi gusti, ma soprattutto colpevole di essere subentrato all’amicissimo Giovanni Spadolini, Montanelli aveva affidato proprio a Bettiza la selezione e l’arruolamento delle migliori firme della più importante e diffusa testata del giornalismo italiano.

In quel nostro primo incontro a casa di Piovene raccolsi da Enzo il rammarico per l’uscita “tardiva” del Giornale, pronto già da un mese ad uscire nelle edicole solo se Montanelli lo avesse voluto o permesso, come preferite. Ma ciò avrebbe comportato l’esordio durante la campagna referendaria contro la legge sul divorzio: una campagna guidata dall’allora segretario della Dc Amintore Fanfani. Al quale Montanelli non aveva voluto dare il dispiacere di schierarsi con il no, cioè per la conferma del divorzio, essendo grato al leader democristiano del finanziamento decisivo -quello di Eugenio Cefis- procuratogli per l’avventura della scissione del Corriere.

         Montanelli non se la sentì di sostenere i sì all’abrogazione della legge sul divorzio neppure turandosi il naso, come poi avrebbe esortato i lettori a fare con la Dc per evitare che subisse il sorpasso del Pci berlingueriano in forte ascesa proprio dopo la sconfitta referendaria di Fanfani.

Montanelli era uno strano anticonformista, come invece molti lettori forse lo consideravano leggendo i suoi storici corsivi “Controcorrente” in prima pagina, alla cui confezione egli dedicava gran parte del suo tempo, sempre alla ricerca della battuta più sorprendente, anche a costo di compromettere qualche buona amicizia. Come gli capitò con l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini per avere praticamente scritto che Alliende, in Cile, se l’era cercata, la morte, sfidando troppo i generali.

Subito prima o subito dopo l’uscita del Giornale, per mettersi in regola col sentimento comune di lettori ultramoderati e in gran parte tendenzialmente democristiani, nonostante la laicità ostentata del suo fondatore, Montanelli regolarizzò con nozze civili a Cortina d’Ampezzo la sua lunga convivenza con Colette, a patto però che lei regnasse nella casa di Roma e gli lasciasse qualche licenza a Milano.

Il rapporto tra Montanelli e Bettiza, fortissimo nella preparazione del Giornale, divenne via via più difficile per via del successo che entrambi avevano con i lettori. Si sentivano spesso più concorrenti che solidali. Ho sempre avuto il sospetto che Montanelli avesse autorizzato Enzo a candidarsi al Senato nel 1976, insieme con Cesare Zappulli, più per tenerlo lontano dal Giornale che per altro. Ma Enzo, diversamente dalle apparenze, non era tipo da farsi emarginare, specie quando si convinceva, come si convinse, che ci fosse qualcuno professionalmente interessato a tenerlo distante. Così gli apparve, in particolare, Gianni Galeazzo Biazzi Vergani, ch’egli stesso aveva consigliato a Montanelli come uomo di macchina, instancabile nella postazione originariamente pensata per lui di caporedattore. E che invece finì per diventare di condirettore. Di quel nome “troppo lungo” Enzo si è lamentato anche nella sua ultima intervista, volutamente di commiato, rilasciata qualche mese fa ad Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera.

Alla fine il conflitto esplose con una miscela fatta di politica e di temperamento. Si consumò, in particolare, purtroppo attorno ad un mio editoriale che Montanelli non si sentì di pubblicare, una vera e propria rottura sui rapporti e sulla linea da tenere nei riguardi di Bettino Craxi. Di cui Montanelli diffidava, pur apprezzandone l’anticomunismo, e Bettiza invece si fidava, tanto da averne accettato la proposta di essere confermato europarlamentare nelle liste del Psi per l’azione culturale, oltre che politica, esercitata sul fronte del cosiddetto lib-lab. Che significava poi liberalsocialismo.

Eravamo entrambi preparati ormai alla rottura, sospettati a vista di essere degli infiltrati di Craxi nel Giornale, dove peraltro il segretario socialista orgogliosamente si rifiutava di andare a rendere omaggio al direttore, come facevano invece altri politici per guadagnarsene la benevolenza.

Ciò che non avevamo messo nel conto, e ci addolorò, fu il maldestro tentativo di Montanelli -debbo dirlo con tutta onestà, pur rimanendogli grato per altri aspetti della nostra collaborazione- di liquidare l’onesto e trasparente dissidio politico esploso fra di noi come una questione esclusivamente temperamentale. In particolare, Bettiza si procurò la fama immeritata di sfaticato: immeritata, vista anche la sua foltissima e fortunatissima produzione letteraria, con quei due premi Campiello meritati dal suo Esilio e dai Fantasmi di Mosca, per non parlare della sua intensa attività giornalistica. Di me invece fu opposta -bontà sua- alle capacità professionali il solito cattivo carattere. Che -una volta giunta la voce persino al Quirinale- mi procurò una lettera di solidarietà di Sandro Pertini, che notoriamente si vantava di avere un caratteraccio per il solo fatto di averne uno, diversamente da chi non ne aveva alcuno e riusciva perciò a riuscire simpatico a tutti.

A Enzo invece capitò l’umiliazione immeritata dopo parecchi anni -pensate- di sentirsi offrire da Berlusconi la direzione del Giornale, purché affiancato da un direttore “operativo”: offerta giustamente rifiutata. Non faccio nomi per carità umana e professionale.

Ah, Enzo carissimo. Che dolore mi hai dato non solo morendo prima di me, e incaricando Laura di informarmene a sepoltura avvenuta, ma privandomi anche del piacevole, piacevolissimo incubo -scusate l’ossimoro- che avevo di scrivere temendo di deluderti. Chissà, forse ti avrei deluso con ciò che sto finendo di scrivere di te e su di te con gli occhi umidi di lacrime. E col rimpianto di averti avuto purtroppo per poco tempo -nonostante i 43 anni trascorsi da quella festicciola del Giornale a casa di Piovene- come amico, come fratello maggiore e come Maestro, con la maiuscola.

Un abbraccio forte, Enzo, e un grazie grande com’è stata la nostra amicizia.

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

 

 

 

 

 

 

 

            

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