Prima dei soldi Bruno Contrada ha deciso di chiedere la restituzione della divisa della Polizia sottrattagli dalla condanna, tutta ingiustamente scontata, a 10 anni di carcere per il fantomatico reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Che peraltro è costata la condanna a molti altri imputati più o meno eccellenti, oggi in grado di sperare ancora di più di ottenere giustizia anche loro grazie alle stesse procedure internazionali, più in particolare europee, seguite da Contrada.
Una divisa, in realtà, per chi ritiene orgogliosamente di avere servito lo Stato, e non di averlo tradito, secondo accuse e sentenze che lo hanno tormentato per 25 anni, cioè 15 in più di quelli trascorsi in detenzione carceraria o domiciliare, vale molto più di un indennizzo economico, per quanto alto potesse risultare.
Non si può pertanto non condividere la decisione annunciata dall’ex condannato: ex sia per avere scontato per intera –ripeto- la pena comminatagli sia perché la stessa Corte di Cassazione, che lo volle condannato prima annullando una sentenza di assoluzione e poi confermandone una di senso opposto, è stata praticamente costretta a contraddirsi dal contesto una volta tanto fortunatamente europeo in cui l’Italia opera.
C’è tuttavia qualcosa che nel comportamento finale della Corte di Cassazione non ha funzionato e non funziona. E’ il giro di parole cui è ricorsa per non chiamare le cose col loro nome. Il concetto di assoluzione è stato nascosto dietro la cortina fumogena di una sentenza di condanna definita “ineseguibile e improduttiva di ogni effetto”. Ineseguibile dopo essere stata eseguita. E improduttiva di ogni effetto dopo tutti i guai materiali e morali subiti da un uomo per il quale nessuno, peraltro, a nome dello Stato si è sentito sinora in obbligo di chiedere scusa, preferendo girare la testa dall’altra parte, sopraffatto dalla paura probabilmente di essere linciato dal giustizialismo militante, giudiziario e mediatico.