Enrico Costa si è guadagnato il biglietto per il ritorno a casa di Berlusconi

         Le dimissioni che Enrico Costa ha presentato da ministro degli affari regionali e della famiglia dal governo di Paolo Gentiloni valgono un posto in lista con Forza Italia nelle prossime elezioni politiche. Sono insomma il biglietto per il viaggio di ritorno a casa di Silvio Berlusconi, di cui si dice che non abbia mai perso la fiducia personale, neppure quando partecipò all’avventura di Angelino Alfano e degli altri ministri dell’allora governo di Enrico Letta di provare ad essere “diversamente berlusconiani”, votando contro la decadenza del Cavaliere da senatore ma disubbidendo al suo ordine di passare per protesta all’opposizione. Allora, in verità, Costa non aveva neppure incarichi di governo, per cui la sua scelta valse doppia, tanto da essere poi premiato da Alfano con uno strapuntino ministeriale alla prima occasione utile.

         Enrico Costa, figlio del più celebre Raffaele, liberale, ministro anche lui, distintosi per avere preceduto tanti altri sulla strada della lotta agli sprechi, si è guadagnato i ringraziamenti di Gentiloni non solo e non tanto per il lavoro svolto al governo, ma per averlo tolto dall’imbarazzo. I fuoriusciti dal Pd, ma non ancora dalla maggioranza, avevano già cominciato a rimproverare al presidente del Consiglio di tenersi in casa un esponente passato nei fatti all’opposizione, prima di loro ma da destra. In particolare, Costa aveva minacciato le dimissioni se il governo avesse messo la fiducia al Senato sul cosiddetto “ius soli”, per quanto già votato alla Camera dal partito di Alfano.

         L’ex ministro non si sente tuttavia di destra. Ama sentirsi e definirsi di centro. Ma di centro vero, non di quell’”estremismo di centro” che rimprovera al ministro degli Esteri Angelino Alfano e ad altri che resistono all’idea di un ritorno a casa di Berlusconi. E vi resistono magari solo perché sanno che il presidente di Forza Italia non vuole e non può prenderli tutti.

         Berlusconi è poco accogliente in questi giorni un po’ perché non ha molte candidature da offrire o garantire per il nuovo Parlamento, dopo tutti gli impegni che ha preso, un po’ perché ha promesso a Gentiloni, e a Renzi, di non portargli via tanti uomini da far perdere al governo la maggioranza al Senato, dove i numeri sono molto ballerini. E del Senato, guarda caso, Costa non fa parte essendo un deputato, per cui danni al governo non ne ha potuto apportare.

Attacco del capo della Polizia al potente predecessore De Gennaro

 

Si può ben dire che abbia del clamoroso l’intervista con la quale il capo della Polizia Franco Gabrielli in una intervista rilasciata a Repubblica, non credo all’insaputa del ministro dell’Interno Marco Minniti, ha criticato il più potente dei suoi predecessori: Gianni De Gennaro, confermato nello scorso mese di marzo fra vari borbottii politici, anche nel partito del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, al vertice di Leonardo. Che praticamente è il nuovo nome della Finmeccanica.

         In particolare, Gabrielli ha rimproverato a De Gennaro le mancate dimissioni da capo della Polizia nel 2001, quando fu gestito in modo “catastrofico” l’ordine pubblico a Genova in occasione del G8 ospitato in Italia dal secondo governo di Silvio Berlusconi.

         Nei disordini che accompagnarono quell’evento internazionale un giovane perse la vita e altri successivamente nella scuola Diaz furono sottoposti a violenze sfociate in processi in cui De Gennaro fu prima condannato e poi assolto per induzione a falsa testimonianza. Ma l’assoluzione fu in qualche modo macchiata, diciamo così, dalla condanna del questore di Genova all’epoca dei fatti per falsa testimonianza a favore del capo della Polizia.

         “Al suo posto mi sarei dimesso”, ha detto Gabrielli del suo predecessore, accusato di avere provocato col suo mancato passo indietro la divisione del Paese in due partiti: uno a favore e l’altro contro la Polizia per le violenze compiute a Genova e condannate anche in sede giudiziaria europea con l’accusa di tortura. Cui ha fatto seguito la legge appena approvata dal Parlamento italiano fra proteste e timori che la sua applicazione si presti a strumentalizzazioni contro le forze dell’ordine.

         Sarà curioso vedere se e quali reazioni di De Gennaro seguiranno alle critiche del capo della Polizia in carica.

Il Quirinale schizofrenico raccontato da Travaglio

Pur nel contesto di un ragionamento condivisibile, a mio avviso, su questa troppo lunga campagna elettorale in corso, che Matteo Renzi giustamente avrebbe voluto, e forse vorrebbe ancora accorciare anticipando di qualche mese il rinnovo delle Camere, Marco Travaglio se l’è presa sul suo Fatto Quotidiano col presidente della Repubblica. Che ha rappresentato ai lettori come un “noto anestesista” impegnato al Quirinale a “dispensare dosi industriali di narcotico” per mettere il governo di Paolo Gentiloni al riparo dai rischi di crisi, anche a costo di farne una riedizione di quelli dell’indimenticato Giulio Andreotti. Di cui è arcifamosa la battuta opposta alle critiche di Ciriaco De Mita per la sua prudenza a Palazzo Chigi: “E’ meglio tirare a campare”, come appunto De Mita gli aveva rimproverato, “che tirare le cuoia”.

A dispetto però di questa liquidazione di Mattarella come anestesista, Travaglio ne ha condiviso l’azione svolta nei giorni scorsi per fare rinviare all’autunno, fuori tempo massimo per garantirne l’approvazione entro questa legislatura, del pasticciato “ius soli”. Che forse è infelice, oltre che pasticciato, anche nel nome perché il provvedimento fermo ora al Senato non prevede affatto l’automatismo da molti temuto o contrabbandato -purtroppo con una certa efficacia nel clima elettorale in cui ci troviamo- fra nascita e cittadinanza di un figlio di immigrati in Italia.

Ma ancora una volta a dispetto di quest’altra rappresentazione anestetica e prudente dell’azione di persuasione condotta dal capo dello Stato, Travaglio ha aperto ieri il suo giornale descrivendo un Mattarella per niente narcotizzante, tutto preso a incoraggiare o comunque a sostenere il presidente del Consiglio in un’attività che lo farebbe entrare in rotta di collisione col segretario del suo partito, a rischio quindi di crisi.

In particolare, Gentiloni potrebbe contare sull’aiuto del Quirinale per intervenire su tutte le nomine in scadenza nel cosiddetto sottogoverno, in modo da non lasciarne neppure una a disposizione di chi ambisce a sostituirlo a Palazzo Chigi dopo le elezioni, ordinarie o anticipate che dovessero risultare. E si sa che Renzi vi ambisce, anche se ogni tanto fa l’indifferente, come ha mostrato l’ultima volta qualche giorno fa per telefono con l’ormai amico Eugenio Scalfari accomiatandosi per ferie per qualche settimana.

Non è la prima volta, naturalmente, e non sarà neppure l’ultima, in cui si cerca di accreditare un conflitto latente fra Gentiloni e Renzi. Ma quando questa rappresentazione viene proposta coinvolgendo il capo dello Stato, come avviene di frequente, e non solo al Fatto Quotidiano, visto che lo si fa spesso anche a Repubblica, si rischia più di intossicare che alimentare informazione e dibattito politico.

Posso sbagliare, per carità, ma personalmente non credo che Gentiloni abbia voglia di rompere con Renzi e Mattarella di aiutare a farlo. Mi incoraggia in questa convinzione il crescente malumore verso Gentiloni di quanti sono usciti dal Pd, ma non ancora dalla maggioranza di governo, e gli rimproverano di essere troppo appiattito sull’odiatissimo, da loro, segretario del partito.

D’altronde, sullo stesso Fatto Quotidiano di ieri, sempre in una prima pagina un po’ toppo schizofrenica sul piano politico, Mattarella veniva accusato di avere nominato, peraltro nell’ormai lontano mese di dicembre, Grande Ufficiale al merito della Repubblica un finanziatore dichiarato di Renzi. Che sarebbe il capo della BAT, intesa non come provincia di Barletta, Andria e Trani, ma come Britih American Tobacco. Fra le cui colpe il giornale di Travaglio ha profittato dell’occasione per inserire anche quella di avere procurato lavoro, sotto forma di consulenze, al figlio dello stesso Mattarella. Ma probabilmente, anche se Il Fatto si è ben guardato dal sospettare, a insaputa del padre.

A leggere le cronache politiche del giornale di Travaglio, e non solo quelle giudiziarie ancora più dense di anticipazioni e quant’altro, vengono a volte le vertigini.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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