Scalfari spinge Renzi a Palazzo Chigi

Eugenio Scalfari ci ha appena spiegato sulla sua Repubblica che quello del giovane Macron, il presidente francese che si sta divertendo a schiaffeggiare l’Italia, non è gollismo, ma qualcosa di più antico e solido: roba di mezzo millennio di storia d’oltralpe. E si è chiesto, un po’ angosciato, come Macron potrà essere fronteggiato da Renzi quando il segretario del Pd tornerà, dopo le elezioni, a Palazzo Chigi.

         Con questo il fondatore di Repubblica ha evidentemente rinunciato del tutto, come del resto si era capito già da qualche sua omelia laica, alla tentazione coltivata per un po’ di consigliare al capo del Pd di accontentarsi della sua carica di partito, mandando o lasciando altri alla guida del governo.

         D’altronde, nella storia della Repubblica, quella vera, voluta dagli elettori col referendum del 1946, il cumulo delle cariche di segretario del maggiore partito e di presidente del Consiglio non ha mai portato fortuna a chi lo ha praticato: prima Amintore Fanfani e poi Ciriaco De Mita.

         Scalfari ha tuttavia posto a Renzi una specie di condizione, sotto forma di consiglio, per ritentare l’avventura: che si rassegni a farsi affiancare da almeno tre personalità che potrebbero dargli una mano: Romano Prodi, che -guarda caso- ha contemporaneamente scritto rammaricandosi che l’Italia sia ormai scambiata per la Croce Rossa Internazionale, Enrico Letta e Walter Veltroni.

         Dopo tutto quello che anche di recente si sono detti a distanza Enrico Letta e Matteo Renzi, a suon di “disgusto” e simili facezie, è francamente difficile pensare che Scalfari possa essere accontentato. Così come mi sembra difficile che Prodi ritrovi la tenda smontata qualche settimana fa dalle vicinanze del Pd e dimenticata -sembra- sul treno che ha preso per andare a montarla in qualche altro posto. Veltroni, già autorottamatosi come deputato per non dare a Renzi la soddisfazione di farlo da segretario del partito, potrebbe essere forse l’unico ad avere qualche possibilità di accontentare Scalfari.

         Il buon Walter ha appena dimostrato di avere problemi solo con i cani, essendone stato morso durante una festa della defunta Unità. E di Renzi, per quante se ne siano dette e scritte dai suoi avversari, nessuno è ancora arrivato a dargli del cane.

Forse è Trump il modello grillino in Campidoglio

         La chiave dell’ultimo capitolo, per ora, del giallo capitolino che si trascina ormai da più di un anno -da quando cioè si insediò la sindaca grillina Virginia Raggi con l’aiuto elettorale della destra e della sinistra che preferirono lei a Roberto Giachetti, il candidato renziano del Pd- si trova in una frase dell’ormai ex direttore generale dell’Atac. Che è letteralmente scappato via, dimettendosi e poi sfogandosi con qualche intervista, dopo avere misurato il dissesto finanziario e operativo dell’azienda romana dei trasporti e verificato le resistenze della sindaca alla sua terapia d’urto, consistente nel ricorso alle procedure fallimentari: le uniche forse in grado di fare ritrovare un po’ di senno ai sindacati e agli altri responsabili del dissesto dei trasporti nella Capitale.

         Beppe Grillo e Davide Casaleggio ? “Mai visti e sentiti. Non li conosco”, ha risposto Bruno Rota. Che si era evidentemente illuso dovesse bastare e avanzare avere conosciuto la Raggi assumendo l’incarico e proponendosi -beato lui- di ripetere a Roma il miracolo compiuto a Milano, dove era riuscito a risanarne l’azienda dei trasporti urbani.

         Ecco, il primo limite dell’amministrazione capitolina a 5 stelle è la confusione estrema all’interno del movimento grillino. Che si ripercuote in Campidoglio con l’impossibilità di capire dove finisca la inadeguatezza della sindaca e cominci quella dei suoi capi o referenti politici, i quali l’hanno commissariata dal primo momento, con tanto di titoli sui giornali, senza che nessuna autorità preposta al controllo delle amministrazioni locali abbia mai ritenuto né opportuno né necessario un intervento chiarificatore.

         Deputati, o portavoce, del movimento grillino salgono e scendono dal Campidoglio nella totale indifferenza, in particolare, della Prefettura. Dove evidentemente si ritiene ininfluente che un sindaco finisca sotto sorveglianza diversa da quella dell’organo locale del governo.

         L’unica cosa che si sia avvertita chiaramente della gestione grillina del Campidoglio è il gran numero di dimissioni, licenziamenti e quant’altro di assessori, dirigenti, assistenti, capi e vice capi di Gabinetto, Dipartimento e quant’altro. E questo senza parlare, per scrupolo garantista, delle vicende giudiziarie che hanno preceduto o accompagnato o seguito i vari e convulsi avvicendamenti.

         I sei licenziamenti appena rimproverati dalla stampa mondiale al presidente americano Donald Trump nei primi otto mesi della sua permanenza alla Casa Bianca è cosetta davanti all’andirivieni nel Campidoglio italiano. Che questa curiosa gara con Trump sia avvenuta e si svolga tuttora a Roma per mano della Raggi o di Grillo, o di Casaleggio, o dei portavoce che gli ultimi due spediscono e l’altra accoglie, ha poca importanza a questo punto.

         Di certo è che la confusione sotto il cielo di Roma è grande, ma la situazione non è per niente eccellente, come diceva invece Mao nella sua Cina.

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