Davvero grande è la confusione nei partiti, ma anche nei giornali…

Grande è la confusione nei partiti, si potrebbe dire parafrasando in qualche modo Mao. Ma altrettanto grande è la confusione nei giornali, a cominciare -vedo- da quello più diffuso, che è il Corriere della Sera. Il cui direttore Luciano Fontana aveva prudentemente corretto ieri Emilio Giannelli avvertendo che “le macerie” fra le quali era appena avvenuta la rielezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica non erano quelle del Parlamento, rappresentate dal suo vignettista in prima pagina, ma dei partiti. appunto. Non però di tutti o un pò tutti i partiti, come appunto Fontana mostrava di ritenere: solo di alcuni, ha ottimisticamente precisato -se non corretto- oggi sullo stesso giornale l’ex direttore Paolo Mieli. Che scrive e parla -in televisione- sempre su quel crinale fra il cronista e lo storico che ne ingrandisce le stesse sembianze fisiche da Hitchcock e gli consente licenze che forse i suoi successori in via Solferino non permetterebbero ad altri.

L’editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera

“A ben guardare -ha scritto il mio amico Paolo- i partiti sono usciti  meno malconci di quanto ci è potuto apparire in presa diretta. Due di loro, Pd e Fratelli d’Italia, sono addirittura in uno stato di discreta euforia”, pur avendo anch’essi mancato l’obiettivo comune dell’elezione di Mario Draghi, perseguito dall’uno -il Pd- per evitarne il logoramento alla guida del governo nell’ultimo anno di questa legislatura più pazza del mondo, e  dall’altro  scommettendo sul suo coraggio di sciogliere le Camere prima dello loro scadenza, al primo intoppo.  Ma già questa curiosa convergenza e al tempo stesso divergenza fra Enrico Letta e Giorgia Meloni francamente dovrebbe dare all’uno e all’altra ben poche ragioni di una pur “discreta” euforia, ripeto.

L’editorialista ed ex direttore del Corriere della Sera si è spinto tuttavia anche oltre, riconoscendo qualche ragione di compiacimento pure a Silvio Berlusconi nel campo del centrodestra, che Giorgia Meloni vorrebbe addirittura rifondare dopo lo sfascio al quale l’avrebbero portato lo stesso Berlusconi e Matteo Salvini schierandosi alla fine per la conferma di Mattarella. Il pur vecchio e non molto bene in salute Cavaliere potrebbe invece riprendere in mano la guida dell’alleanza per la sua maggiore esperienza e notorietà internazionale.  

Matteo Renzi

Anche Matteo Renzi, secondo Paolo Mieli, sarebbe uscito dall’infernale giostra del Quirinale con qualche soddisfazione che potrebbe risultargli utile nel cantiere in corso, per quanto confuso anch’esso, della cosiddetta area di centro. In fondo il senatore di Scandicci, pur essendo annoverabile fra gli sconfitti -secondo la logica di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano– per la mancata elezione di Draghi al Quirinale, avrebbe più diritto di tutti di compiacersi della conferma di Mattarella per averlo lui mandato la prima volta al Quirinale, nel 2015, quando era contemporaneamente segretario del Pd e presidente del Consiglio e dimostrò quindi eccellenti capacità di regista, o kingmaker.  Renzi  può inoltre ben vantarsi dell’offensiva condotta e vinta contro il tentativo di Conte e Salvini di mandare al Quirinale persino la regina degli 007 Elisabetta Belloni.

Titolo del Fatto Quotidiano
Alessandro Di Battista sul Fatto Quotidiano

Dicevo della logica di Travaglio sugli sconfitti individuabili nella mancata elezione di Draghi al Quirinale, per cui in testa ai vincitori starebbe Giuseppe Conte: talmente vincitore da potere respingere e rovesciare, con l’aiuto esterno di Alessandro Di Battista, il processo che all’interno del MoVimento 5 Stelle gli ha aperto Luigi Di Maio. Il quale era tra i “draghiani infiltrati”, sempre secondo Travaglio, nei vari partiti di maggioranza e opposizione. Ma già questa curiosamente compiaciuta rappresentazione dei fatti dà la misura -felicemente sottolineata dal manifesto con quel titolo copertina Litership- della confusione o della polvere di stelle cui praticamente è ridotto l’omonimo movimento presuntuosamente “centrale” della legislatura uscita dalle urne dell’ormai lontanissimo 2018. 

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Mattarella -e Draghi- tra le macerie dei partiti, non del Parlamento

L’editoriale del Corriere della Sera, difforme dalla vignetta

Eh no, con tutta la simpatia, il sostegno, la tolleranza che merita la satira, questa volta Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera, smentito d’altronde pochi centimetri più in là dal direttore in persona dello stesso quotidiano, ha preso un abbaglio proponendo ai lettori il palazzo della Camera diroccato e fumante con la rielezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Le macerie sottintese alla conferma del Capo dello Stato non sono di Montecitorio o, più in generale, del Parlamento, ma dei partiti. Lo dice, anzi lo grida l’editoriale di Luciano Fontana. 

Titolo del Giornale

Sono i partiti che hanno dovuto subire “obtorto colle”, secondo il felice titolo del Giornale, la conferma di Mattarella per non essere riusciti a trovare un’altra soluzione a causa delle loro divisioni, esterne e interne, e alla totale mancanza anche dell’elementare istinto di conservazione. Che invece hanno avvertito le Camere, per quanto delegittimate dall’anno o poco più che manca alla loro scadenza e dalla riforma voluta autolesionisticamente dai grillini per la riduzione dei seggi. E’ dalle Camere  che è venuta spontanea la spinta alla conferma di Mattarella sin dal primo degli otto scrutini sfociati nella rielezione con 759 voti, secondi solo a quelli presi dal popolarissimo Sandro Pertini nel 1978. I partiti avevano ben altro per la testa, con gli occhi rivolti tutti al loro interno, contemplando ciascuno il proprio ombelico. 

Ora, tra le macerie che si sono procurati, paradossalmente garantiti da Mattarella al Quirinale e da Mario Draghi a Palazzo Chigi, per un attimo minacciato ieri persino dal buon Giancarlo Giorgetti con la tentazione delle dimissioni da ministro per reazione al disordine del suo partito leghista; ora, tra le macerie -dicevo- che si sono procurati da soli i partiti potranno regolare ciascuno i propri conti interni. E poi quelli fra di loro, prevedibilmente nelle elezioni ordinarie dell’anno prossimo, se non commetteranno con una crisi avventata anche l’errore di anticiparle, adesso che Mattarella è tornato a poter sciogliere le Camere anzitempo.

L’edioriale di Marco Travaglio
Titolo del Fatto Quotidiano

Fra tutti i partiti, quello che mi sembra francamente messo peggio -più ancora della già citata Lega a proposito della minaccia rientrata delle dimissioni di Giorgetti da ministro per tutti i torcicolli procuratigli da Matteo Salvini- è il MoVimento 5 Stelle presieduto da Giuseppe Conte. La cui crisi non poteva essere rappresentata meglio dal giornale di Marco Travaglio, che del resto lo conosce più di tutti, nell’editoriale di oggi. In cui si raccontano così le gesta, o fatiche, dell’ex presidente del Consiglio: “Conte, oltre a Berlusconi, non voleva Draghi, né gli invotabili Amato, Casini, Cartabia, Casellati, Cassese&C, e li ha sventati, dando sponda al no di Salvini sul premier (nei giorni dispari). Come piano B non gli dispiaceva il Mattarella bis invocato a gran voce dai gruppi M5S e l’ha avuto. Il suo piano A erano tre nomi di livello e non di parte: Riccardi, Belloni e Severino. Ma giocava con due handicap: non poter votare nessuno dei candidati altrui e dover trattare col coltello di Di Maio conficcato nella schiena”. Ciò ha impedito, in particolare, il decollo della candidatura pur sostenuta da Beppe Grillo in persona, dell’ambasciatrice Elisabetta Belloni, da sette mesi regina -diciamo così- degli OO7. Ecco chi ha ucciso la Presidente donna”, ha titolato il Fatto Quotidiano.

Il delitto è di casa da quelle parti. Si è ripetuto insomma il “Conticidio” già denunciato dallo stesso Travaglio l’anno scorso commentando l’arrivo di Draghi a Palazzo Chigi. Delitto sempre in casa, con lo stesso pugnale: quello del ministro grillino degli Esteri Luigi Di Maio. E costoro -i pentastellati- sognavano di poter governare addirittura da soli l’Italia.

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Il rieletto Sergio Mattarella non si è sottratto al dovere di restare

Titolo del Dubbio

In un sistema parlamentare com’è il nostro il presidente della Repubblica può anche rimanere lusingato da un bis reclamato dalle piazze intese in senso lato ma fare spallucce. E persino opporre, tra imballaggi e simili, qualche insofferenza alle insistenze, rivendicando direttamente o indirettamente il diritto a non farsi strattonare la giacca, e persino altri indumenti. Ma perde questo umanissimo diritto quando a reclamare il bis è il Parlamento che lo elegge. Così è praticamente accaduto in questa edizione davvero speciale della corsa al Quirinale. E’ accaduto a cominciare da quei 16 voti affacciatisi al primo scrutinio, diventati 39 al secondo, 125 al terzo, 166 al quarto, scesi a 46 al quinto -per lo sfizio, diciamo così, toltosi dal centrodestra di verificare  in quel frangente la sua insufficiente consistenza con la candidatura addirittura della seconda carica dello Stato- risaliti a 336 nel sesto e a 387 nel settimo. E sempre senza una designazione partitica, per scelta spontanea e libera dei senatori, deputati e delegati regionali. 

I partiti, addirittura i tre più grandi della maggioranza di governo e quello unico dell’opposizione di destra di Giorgia Meloni, si sono spinti a cercare soluzioni persino anomale, a dir poco, come la candidatura per fortuna neppure decollata della regina degli 007. Che è persona degnissima, per carità. La quale mi scuserà la sbrigativa qualifica giornalistica che le ho attribuito, anzichè definirla più correttamente e propriamente direttrice del Dipartimento di coordinamento dei servizi segreti: l’ambasciatrice di lunga e onorata carriera Elisabetta Belloni. Del cui ruolo delicatissimo avrebbero dovuto avere maggiore considerazione i partiti che l’hanno coinvolta in una vicenda impropria, considerando i compiti che svolge da sette mesi. 

La resa di Matteo Salvini

Ah, i partiti, croce e delizia della Repubblica, ai quali -dice l’articolo 49 della Costituzione- “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Essi stanno purtroppo attraversando una crisi a volte persino identitaria, dopo il crollo delle cosiddette ideologie, che si riflette sul Parlamento cui concorrono nelle urne con le liste dei candidati. Nell’ultima crisi di governo, l’anno scorso proprio di questi tempi, la loro incapacità di accordarsi pur in un momento gravido di emergenze come quelle della sanità, dell’economia e della finanza costrinse il presidente della Repubblica a scegliere fra le elezioni anticipate, a rischio di trasformarle in occasione di ulteriori contaminazioni virali, e il ricorso ad un governo speciale come quello ancora oggi guidato da Mario Draghi. Al quale il Parlamento per fortuna concesse la fiducia costruendo attorno ad esso una maggioranza di unità nazionale, o quasi. 

Un momento della sanificazione nell’aula di Montecitorio

Ecco, quello stesso Parlamento dopo un anno ha autonomamente e per primo avvertito, precedendo i partiti e i rispettivi gruppi della Camera e del Senato, il pericolo che l’elezione del capo dello Stato, alla scadenza del mandato di Mattarella, scivolasse rapidamente nella dissoluzione del governo e della sua maggioranza, pur perdurando le emergenze per le quali erano nati l’uno e l’altra. Ed ha cominciato a votare per conto suo Mattarella, appunto, uniformandosi più agli umori della gente comune -quella del bis reclamato nelle piazze- che alle convulsioni dei partiti, obbligandoli alla fine a rinunciarvi e a chiedere anch’essi al presidente uscente, attraverso i capigruppo dei partiti della maggioranza con tutte le formalità del caso, la disponibilità alla conferma nell’ottavo e ultimo scrutinio.  A questo esito ha contribuito dietro le quinte anche il presidente del Consiglio.

Sembra un paradosso ma non lo è. Un Parlamento pur delegittimato da una riforma incauta, che lo ha invecchiato precocemente tagliando un terzo abbondante dei seggi del prossimo,  che sarà eletto fra un anno, ha avuto più lucidità dei partiti, obbligandoli pur all’ultimo momento al senso di responsabilità. Viva il Parlamento. E grazie, Presidente.

Pubblicato sul Dubbio

Tranquilli. Ognuno resta al suo posto: Mattarella, Draghi e Belloni

Ambasciator non porta pena, si potrebbe dire anche a proposito dell’epilogo della candidatura dell’ambasciatrice, appunto, Elisabetta Belloni alla Presidenza della Repubblica, esplosa mediaticamente e politicamente dopo un incontro fra il segretario del Pd Enrico Letta, il presidente del MoVimento 5 Stelle Giuseppe Conte e il leader della Lega Matteo Salvini. 

L’ambasciatrice Elisabetta Belloni

Incolpevole di tanta anomala avventura, la direttrice del dipartimento che coordina i sevizi segreti rimarrà tranquillamente al suo posto, avendola gli stessi partiti promotori esonerata dallo scomodissimo passaggio parlamentare. Che avrebbe potuto risolversi in una bocciatura come quella giù rimediata -su un altro versante politico- dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberto Casellati, viste le fratture subito emerse dall’interno della stessa maggioranza che l’aveva così incautamente esposta.  E, se bocciata, la responsabile dei servizi segreti ne sarebbe uscita indebolita, compromessa e quant’altro anche nelle sue funzioni amministrative.

Sergio Mattarella
Mario Draghi

Ognuno, e non solo l’ambasciatrice Belloni, rimarrà tranquillamente al suo posto: a cominciare dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Al quale i capigruppo della maggioranza, aiutati dietro le quinte dal presidente del Consiglio Mario Draghi, hanno chiesto nelle dovute forme di rito di accettare la rielezione all’ottavo scrutinio, dopo essere stato già votato nei precedenti, rispettivamente e autonomamente, senza indicazioni partitiche, da 16, 39, 125, 166, 46,336 e 387 fra senatori, deputati e delegati regionali. Rimarrà al suo posto anche il governo Draghi, per quanto un suo autorevole ministro, il leghista Giancarlo Giorgetti, abbia anticipato -mentre scrivo- le sue dimissioni per ragioni presumibilmente interne di partito. Rimarrà infine al suo posto il Parlamento, che rischiava le elezioni anticipate se la corsa al Quirinale fosse proseguita sulla strada dei veti, delle manovre e degli intrighi intrapresa  originariamente da un pò tutti i partiti. Che hanno a lungo sottovalutato o perseguito, secondo i casi, il rischio di travolgere anche il governo così fortemente voluto da Mattarella un anno fa per fronteggiare emergenze che permangono, soprattutto quella sanitaria. 

Chi aveva scommesso sulla indisponibilità del presidente uscente della Repubblica, già impegnatosi peraltro tra fotografi e telecamere nell’imballaggio e altre operazioni necessarie ad un trasloco dal Quirinale, c’è rimasto forse male. Ed ha già cominciato ad affilare le armi di una lunga campagna elettorale, come Giorgia Meloni. Eppure non era molto difficile prevedere un simile epilogo considerando la natura parlamentare, tanto spesso rivendicata, della Repubblica italiana. Nella quale spetta al Parlamento l’elezione del capo dello Stato, che ne avrebbe poco riguardo se contestasse le sue scelte, a meno di quelle legislative su cui può chiedere una nuova deliberazione ove la ritenesse necessaria, obbligato tuttavia ad accettarle se rinnovate. 

Per quanto possa non essere condivisa dall’interessato, stanco o no dei sette anni già trascorsi al Quirinale, la rielezione del presidente della Repubblica può essere impedita solo con una modifica della Costituzione, auspicata ma inutilmente anche da alcuni predecessori di Mattarella che non hanno tuttavia avuto la sfortuna -dal loro punto di vista- di ripetere o allungare il mandato, avendolo dovuto anzi interrompere anzitempo per ragioni politiche o di salute: rispettivamente Giovanni Leone e Antonio Segni.

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Quello del Quirinale diventa addirittura un affare spionistico…

Titolo di Repubblica
Titolo della Stampa

Dopo il rapido e impietoso autoaffondamento della candidatura del centrodestra nella persona addirittura della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, e mentre dall’aula di Montecitorio si rovesciavano sulla pur inesistente ricandidatura di Sergio Mattarella una valanga di voti spontanei, saliti dai 166 del quarto scrutinio ai 336 del sesto, i presunti -a questo punto- registi di questa caotica edizione della corsa al Quirinale trattavano ieri sera un’altra soluzione femminile. 

Questi presunti registi -ripeto-  sono il segretario del Pd Enrico Letta, il presidente del MoVimento 5 Stelle Giuseppe Conte e il leader della Lega Matteo Salvini. Essi sono riusciti a impasticciare così tanto le cose da trasformare quello del Quirinale in un affare addirittura spionistico. Già, perché la donna messa in campo, e subito sommersa da veti all’interno della stessa maggioranza di governo, è la responsabile dei servizi segreti Elisabetta Belloni, diplomatica di lungo  e onoratissimo corso, finita a sua insaputa -spero- in una tempesta destinata a farne o una mancata presidente della Repubblica, come l’altra Elisabetta, o una presidente della Repubblica la più divisiva possibile, per usare un aggettivo di moda nelle corse al Colle. 

Ma se dovesse diventare una mancata presidente della Repubblica, l’ambasciatrice Belloni si troverebbe ad essere, suo malgrado, anche una depotenziata responsabile dei servizi segreti, come la sua quasi omonima Elisabetta al vertice del Senato. Dove peraltro potrebbe anche accadere, in teoria,  fra qualche giorno la trasformazione della presidente in supplente del capo dello Stato, il cui mandato scadrà il 3 febbraio. 

La migliore vignetta della giornata: Stefano Rolli sul Secolo XIX
L'”abbraccio” di Beppe Grillo a Elisabetta Belloni

Nel momento in cui scrivo, a poche ore dall’apertura della settima votazione nell’aula di Montecitorio, dove hanno preso anche la decisione di farne due al giorno complicando ulteriormente la situazione, l’ambasciatrice Belloni -sempre che nel frattempo non sopraggiunga una sua cautelare rinuncia, come si dice dell’arresto in corso d’indagine- gode dell’appoggio sperticato e lontano di Beppe Grillo e -si presume- di Conte, di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni dai banchi però dell’opposizione. Si sono invece schierati contro di lei per l’anomalia, quanto meno, della regina degli 007 che si trasferisce dalla mattina alla sera al Quirinale per fare la presidente della Repubblica Silvio Berlusconi, il giovane e sempre baldanzoso Matteo Renzi, dichiaratamente convinto che a questo punto sia un affare raddoppiare il mandato di Mattarella da lui voluto sette anni fa al Quirinale, e mezzo Pd.  Il cui segretario si è trovato così spiazzato di fronte alla loquacità e alla fretta di Conte e di Salvini da prenderne rapidamente le distanze, aprendo sia ad una conferma di Mattarella -pure lui- sia ad altre due candidature femminili. Si tratta, in particolare, dell’ex ministra della Giustizia Paola Severino, indigesta a Berlusconi per avere condiviso l’applicazione retroattiva di una sua legge per fargli perdere nel 2013 il seggio del Senato, e la ministra della Giustizia in carica Marta Cartabia, indigesta ai grillini per avere sostituito la vecchia prescrizione abolita da loro abolita con la nuova improcedibilità nei processi penali. 

In mezzo, se volete, tra gli entusiasti e i contrari, si è collocato il ministro grillino degli Esteri Luigi Di Maio, di cui la signora Belloni è stata strettissima collaboratrice alla Farnesina, definendo “indecorosa” l’esposizione di una persona così qualificata della pubblica amministrazione ad uno spettacolo tanto imbarazzante e pericoloso sotto molti punti di vista. 

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Il sacrificio un pò biblico della Casellati sulla strada del Quirinale

Senza intenzioni blasfemiche, ma solo per tentare di spiegare ciò che è accaduto con la quinta votazione a Montecitorio per l’elezione del presidente della Repubblica, ricordo la terribile prova di fede chiesta da Dio ad Abramo e raccontata nel libro biblico della Genesi. 

Titolo del Dubbio

In particolare, Dio chiede ad Abramo, come dimostrazione di fede, di sacrificargli il figlio Isacco. Abramo sale sul monte Moriah e afferra il pugnale per uccidere il figlio. Ma viene trattenuto all’ultimo momento da un angelo del Signore che gli mostra un ariete da immolare al posto di Isacco.

Matteo Salvini, leader della Lega ma anche del centrodestra dopo il sorpasso elettorale del 2018 su Forza Italia, nella rappresentazione drammatica di ieri a Montecitorio sta ad Abramo, invitato dalla coalizione a provare la sua fedeltà mettendo ai voti un candidato del centrodestra. Cioè immolandolo perchè questa coalizione non ha i numeri autosufficienti per eleggere il capo dello Stato da sola con la maggioranza minima e al tempo stesso assoluta di 505 voti  

Salvini, che pure aveva concordato col centrodestra una rosa di candidati comprendente, in ordine rigorosamente alfabetico, Letizia Moratti, Carlo Nordio e Marcello Pera, sceglie per il sacrificio -pare col paradossale consenso dell’interessata- la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che è la seconda carica dello Stato, possibile supplente di Sergio Mattarella fra qualche giorno, quando scadrà il mandato del presidente uscente della Repubblica. 

Oltre che mettere alla prova la compattezza del centrodestra, reclamata in particolare da Giorgia Meloni  dopo un blitz rumoroso da lei stessa tentato col fedelissimo Guido Crosetto, furbescamente Salvini pensa di mettere alla prova anche la sensibilità istituzionale dei suoi interlocutori di centrosinistra con la candidatura della seconda carica dello Stato, già votata peraltro al vertice del Senato dai grillini all’inizio della legislatura. Ma quelli, a cominciare da Giuseppe Conte, gli contestano l’iniziativa considerandola una provocazione rispetto al progetto di una soluzione negoziata e realmente condivisa. E per di più con la formula dell’astensione tolgono praticamente la scheda ai “grandi elettori” della loro parte politica per impedire voti di soppiatto alla Casellati. 

Matteo Salvini

A questo punto la quinta votazione si trasforma davvero e solo in un sacrificio,  senza nessun angelo che possa fermare la mano di Salvini dirottandola su qualche ariete di passaggio. E infatti la Casellati viene bocciata senza fare neppure il pieno dei voti del centrodestra disponibili sulla carta: 382 su almeno 430.

Ma la tragedia -o tragicommedia, come preferite- non finisce qui perché Salvini lascia, non so se più ingenuamente o più furbescamente, che la sua enfatica presentazione della candidatura della Casellati come la persona più alta in grado dopo Mattarella sia interpretata come una mezza disponibilità del centrodestra, o almeno della Lega, a convertirsi alla conferma del presidente uscente della Repubblica. Più sopra di lui, certo, non si potrebbe andare.  

Pubblicato sul Dubbio

Battuta clamorosamente la presidente del Senato nella corsa al Quirinale

Cercata o subita che sia stata per il malumore crescente nella coalizione di centrodestra, di cui è formalmente il capo dopo il sorpasso elettorale eseguito nel 2018 su Forza Italia, la prova di forza gestita da Matteo Salvini nella quinta votazione per la successione a Sergio Mattarella si è risolta in un clamoroso infortunio. La candidatura della pur presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, seconda carica dello Stato, in procinto di sostituire temporaneamente il presidente della Repubblica se non dovesse essere eletto il successore entro il 3 febbraio, è stata bocciata con 382 voti, contro i 505 necessari e i circa 430 a disposizione del centrodestra sulla carta. 

Che le cose stessero mettendosi male per lei la presidente del Senato non è riuscita a nasconderlo chattando col telefonino mentre procedeva lo scrutinio e il presidente della Camera Roberto Fico le passava le schede da consegnare ai parlamentari e funzionari di Montecitorio addetti alle operazioni di conteggio. 

Si sono subito levate dall’interno della stessa coalizione dichiarazioni di certificazione della “fine” del centrodestra, come ha detto l’ex forzista Osvaldo Napoli. 

La Casellati -ma questo lo sapevamo Salvini e tutti gli altri leader e leaderini del centrodestra- non ha potuto contare neppure sull’aiuto sotterraneo di qualche dissidente del centrosinistra e dintorni perché in 406 da quella parte hanno obbedito all’ordine di astenersi. Cioè di non ritirare la scheda, come del resto avevano fatto anche i “grandi elettori” dello stesso centrodestra nella precedente votazione, ieri: quella dell’esplosione della candidatura di Mattarella, votato da 166 fra deputati, senatori e delegati regionali. Che nella quinta votazione, e prima di questo venerdì 28 gennaio, sono scesi a 46 proprio per il disarmo imposto nel campo del centrosinistra con la procedura dell’astensione. Ma nella sesta votazione sono stati addirittura 336, nonostante le voci nel frattempo diffusesi su trattative in corso fra Enrico Letta, Giuseppe Conte e Matteo Salvini su una candidatura femminile da proporre già domani.

E’ curioso, quanto meno, che la presidente del Senato si sia prestata a questa prova di forza, o sfida, come preferite, anche a costo di indebolire inevitabilmente la sua posizione istituzionale, per quanto anche la legislatura sia ormai agli sgoccioli. Al massimo le rimane poco più di un anno, che il governo di Mario Draghi -o di chiunque altro dovesse sostituirlo a Palazzo Chigi se egli fosse eletto al Quirinale- dovrà affrontare con tutte le difficoltà di una lunghissima campagna elettorale. 

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I giornali seguono la corsa al Quirinale con una certa distrazione…

Non è, o almeno non vuole essere un processo ai giornali, non fosse’altro per carità di mestiere. E’ solo un elenco dei titoli di prima pagina dei quotidiani sull’esito della quarta votazione per l’elezione del Capo dello Stato e, più in generale, sulle prospettive della corsa al Quirinale: un  elenco che vi propongo sfogliando la benemerita e tempestiva rassegna stampa del Senato.

Titolo del Corriere della Sera

Il Corriere della Sera ha titolato sulla “carta Casellati” da giocare non si sa ancora, mentre scrivo, in quale votazione, senza una parola -dico una- sui 166 voti presi da Sergio Mattarella nel quarto scrutinio, dopo i 16 del primo, i 39 del secondo e i 125 del terzo. 

Titolo di Repubblica

La Repubblica ha preferito proporre ai lettori l’immagine del Colle dei veti incrociati”, col Mattarella relegato in fondo al sommario, pur con la riconosciuta “crescita” dell’ipotesi di un suo bis. Una notizia tutto sommato minore, sembra di capire.

Titolo della Stampa
Titolo di apertura della Stampa

La Stampa ha dedicato invece in prima pagina  al Mattarella bis il richiamo di un articolo del quirinalista Ugo Magri, ma il titolo di apertura è andato alla rappresentazione evidentemente più allettante e vendibile, in termini di copie all’edicola, del “tutti contro tutti”.Titolo

Titolo del Messaggero
Titolo del Mattino

Il Messaggero ha annunciato “trattative ad oltranza”, senza una parola su Mattarella. Il cugino Mattino, dello stesso editore, si è spinto più avanti anticipando “la volata”, ma di Mattarella e dei suoi 166 voti, a dispetto del trasloco già in corso, niente. 

Anche il Fatto Quotidiano, pur provenendo buona parte di quei voti dai parlamentari pentastellati che lo leggono più di ogni altro giornale, ha preferito sorvolare e prendersela con la condotta obiettivamente molto, troppo mobile di Matteo Salvini, tornato ai tempi del Papeete.

Vignetta di Libero

Il Giornale della famiglia Berlusconi ha proposto ai lettori “la frittata Quirinale”, com’è ormai diventata la corsa dopo il ritiro dello stesso Berlusconi. Ed ha relegato nel sommario “l’invocazione” a Mattarella, di cui pure si è accorto, da parte di un crescente numero di cosiddetti grandi elettori. Il collaterale -d’area politica- Libero ha deriso quell’invocazione con una vignetta su Mattarella alle prese con i bagagli e ha proposto come scena principale l’ipotesi di un duello in arrivo fra la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati e il senatore, ma già presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini.

Titolo del Foglio

Il Foglio, sempre sostenitore di Mario Draghi al Quirinale, ha cercato in un titolo di convincere quel testone di Matteo Salvini che l’elezione del presidente del Consiglio converrebbe anche a lui. Potrebbe diventarne addirittura il regista se solo volesse uscire “vincente” dal torneo che rischia invece di diventare per lui una palude.

La Verità di Maurizio Belpietro ha sparato contro “il caos” e ha opposto ai 166 voti presi da Mattarella, senza però citarli, la notizia di “un’altra inchiesta” sul fratello Antonino.

Il Secolo XIX se l’è presa con la vittoria “solo delle liti”. Per Avvenire, il giornale dei vescovi, “si gira a vuoto” anche con “i voti a Mattarella”, peraltro non quantificati. 

Titolo della Nazione

Titolo della Nazione

La Nazione e gli altri giornali del gruppo Riffeser Monti hanno esortato genericamente il Parlamento a “fare presto” perché “il Paese ha altri problemi” e non si diverte a vedere “infilzato un candidato all’ora”, secondo il titolo del Tempo, o ad assistere allo “stallo” lamentato dal Quotidiano del Sud.

Titolo di Domani
Titolo del Riformista

Solo su Domani e sul Riformista si trovano titoli di un certo riguardo, diciamo così, per Mattarella e il credito che gli danno i grandi elettori. Gran parte dei giornali, quindi, ha mostrato di soffrire di torcicollo, per parafrasare il felice titolo col quale, al solito, il manifesto ha rappresentato la vicenda quirinalizia in corso, pur pensando forse ai colli più dei partiti che dei quotidiani.  

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Il Parlamento “boicotta” il trasloco di Mattarella dal Quirinale

Titolo del Dubbio

Dopo quattro scrutini infruttuosi sul presidente della Repubblica, compreso quindi quello più atteso – l’ultimo- per i 505 voti necessari all’elezione con la maggioranza assoluta, anzichè i 672 della maggioranza dei due terzi richiesti per i primi tre, la gara politica fra i partiti e i rispettivi gruppi parlamentari, presi singolarmente o come coalizioni, si è rovesciata. La cosa da capire adesso non è chi controlla di più la propria parte, e in un certo verso, la situazione complessiva ma chi la controlla di meno. Ed è quindi l’interlocutore più inaffidabile nella girandola degli incontri e altri tipi di contatti che si inseguono alla ricerca di un accordo da sottoporre poi alla verifica dei cosiddetti grandi elettori, cioè dei deputati, senatori e delegati regionali dai quali dipende l’elezione del capo dello Stato, al netto naturalmente dei franchi tiratori. Che hanno sempre avuto nelle corse al Quirinale la penultima parola, prima di risultare irrilevanti grazie all’ampiezza degli accordi fra i partiti o alla stanchezza persino fisica o ambientale dei dissidenti.

Con Giuseppe Saragat nel 1964 e con Giovanni Leone sette anni dopo, nel 1971, più che all’uno e all’altro i franchi tiratori si arresero, rispettivamente, alle feste di Capodanno e di Natale. Il cui rispetto era reclamato dai familiari più che la disciplina dai partiti di appartenenza. Ma va detto anche che Saragat al quarto scrutinio su di lui, ventunesimo dell’intera sessione, si era garantita una specie di polizza di assicurazione trattando l’appoggio dei comunisti, al di là quindi della maggioranza di centrosinistra con cui era sceso in campo. 

Giuseppe Conte

In questa edizione della corsa al Quirinale il “premio” della inaffidabilità, intesa come incapacità di controllare il proprio campo, se l’è spontaneamente aggiudicato il presidente del MoVimento  ancora maggioritario 5 Stelle Giuseppe Conte, peraltro neppure parlamentare né delegato regionale. Egli ha fatto comunicare dal portavoce durante lo scrutinio di ieri il carattere non vincolante della pratica della scheda bianca adottata a parole lunedì scorso e via via confermata nei giorni successivi. 

E’ stato un annuncio,, quello della libertà di coscienza lasciata ai grandi elettori pentastellati, pateticamente tardivo essendosela gli interessati giù presa abbondantemente. Essi hanno contribuito in buona parte ai 16 voti andati a Mattarella nel primo scrutinio, diventati 39 nel secondo e 125 nel terzo. Nel quarto sono saliti ulteriormente a 166, a dispetto delle notizie, foto e riprese televisive diffuse o promosse dal Quirinale per dimostrare il trasloco nel quale è già impegnato il presidente uscente della Repubblica, fra scatole e altri imballaggi spediti anche dalla sua casa di Palermo all’appartamento di Roma preso in affitto a poca distanza dagli alloggi dei figli. Segno che Mattarella rimarrà indisponibile ad una conferma, anche a costo di contribuire di fatto all’indebolimento del governo derivante dagli ostacoli frapposti da varie direzioni ad una elezione di Mario Draghi a capo dello Stato? Vedremo. 

Pubblicato sul Dubbio

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Mattarella sale da 16 a 166 voti in quattro scrutini a Montecitorio

Esterno della Camera

Non fatevi incantare, per favore, dai soliti salotti televisivi e dintorni che indicheranno nei 166 voti andati a Sergio Mattarella nel quarto scrutinio sul presidente della Repubblica dopo i 16 del primo, i 39 del secondo e i 125 del terzo come una generica insofferenza dei “peones”. O una loro rivolta contro le indecisioni, le ambiguità e quant’altro dei partiti e rispettivi gruppi parlamentari, che girano a vuoto da lunedì. Basterebbe quindi accelerare le procedure per placare gli animi, magari votando più volte al giorno anche con gli inconvenienti sanitari e igienici della pandemia.

No. I 166 voti andati al presidente uscente, e provenienti da varie parti politiche, non solo dai pentastellati, i più divisi sicuramente di tutti, sono una scelta politica a favore della sua conferma. Che è vista come la soluzione più stabilizzante in una situazione politica compromessa dall’incredibile campagna cominciata contro Mario Draghi per la sua disponibilità all’elezione al Quirinale come il “nonno a disposizione delle istituzioni” della famosa conferenza stampa del 22 dicembre. Che si è rivelata indigesta a tanti aspiranti alla Presidenza della Repubblica -e questo si potrebbe anche capire- ma anche a tante parti estranee alla partita del Colle in sé e per sè. 

L’indebolimento di Draghi, rappresentato a destra e a sinistra, dal Giornale della famiglia Berlusconi a quello di Marco Travaglio, come un uomo dalle sfrenate ambizioni personali, o come un presidente del Consiglio che vorrebbe “fuggire” al Quirinale per avere sbagliato tutto a Palazzo Chigi, si è tradotto in quello del governo. Che nessuno tuttavia sa come sostituire, tanto che gli stessi critici di una candidatura del presidente del Consiglio al Colle vorrebbero inchiodarlo dov’è. E’ una fiera di incongruenze da tragicommedia. 

Trasloco dei mobili di Mattarella

Può darsi che Mattarella sia stato disturbato dai voti crescenti in Parlamento a suo favore mentre lui si fa ritrarre, tra la sua Palermo e Roma, nelle operazioni di trasloco nell’appartamento affittato vicino a quelli dei figli. Ma il presidente della Repubblica non può sentirsi disturbato dalle Camere: dalle folle o singoli cittadini che per strada o in teatro lo applaudono e gli chiedono di rimanere sì, può sentirsi importunato, non dai parlamentari e dai delegati regionali ai quali la Costituzione affida il compito di eleggere il capo dello Stato. O di rieleggerlo, come d’altronde è già accaduto nel 2013 a Giorgio Napolitano. Fino a quando la Costituzione non cambierà per impedirla, la rielezione va accettata per disciplina di Stato, mi si permetta di scrivere. 

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