Il delitto dietro l’angolo fra le votazioni sul presidente della Repubblica

Titolo del Fatto Quotidiano
La vignetta del Fatto Quotidiano

Neppure la rosa degli incolpevoli candidati faticosamente proposti dal centrodestra -Letizia Moratti, Carlo Nordio e Marcello Pera, in ordine alfabetico- e subito bocciati dal centrosinistra di Enrico Letta, Giuseppe Conte e Roberto Speranza, che tuttavia si è predisposto ad un conclave con gli avversari per uscirne solo ad accordo trovato su cbissà quale altro nome; neppure questa rosa, dicevo, ha rimosso dalla corsa al Quirinale Mario Draghi. Che Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera ha messo rannicchiato in un frigorifero lasciandolo per fortuna aperto e Marco Travaglio “in panchina” con un vistoso titolo sul suo Fatto Quotidiano. Dove una vignetta di Riccardo Mannelli ripropone il presidente del Consiglio tignoso nella sua ambizione quirinalizia “colle buone e colle cattive”, giocando sulla morfologia del palazzo della Presidenza della Repubblica. Nel cui cortile fervono i preparativi per accogliere con tutti gli onori dovuti il successore di Sergio Mattarella. Il quale però è l’unico, fra i candidati sinora votati da deputati, senatori e delegati regionali, fra tantissime schede bianche, ad avere guadagnato punti, passando dai 16 del primo scrutinio ai 39 del secondo: più del doppio. pur nella modestia dei numeri.

Titolo del Foglio
Altro titolo del Foglio

Del povero Draghi espostosi nella conferenza stampa del 22 dicembre come “un nonno a disposizione delle istituzioni” manca ormai soltanto una rappresentazione in salamoia. Il Foglio, lanciatosi per primo nella campagna promozionale  all’insegna del “meglio sette anni al Quirinale che sette mesi, o poco più, ancora a Palazzo Chigi”, titola in rosso sangue in prima pagina su un “draghicidio gialloverde”, per metà grillino e per metà leghista, anche se -a dire il vero- non mancano né fra i grillini né fra i leghisti convinti sostenitori ancora della promozione del presidente del Consiglio a capo dello Stato. E non sono uomini di second’ordine, corrispondendo rispettivamente, fra gli altri, a Luigi Di Maio e a Giancarlo Giorgetti, entrambi non a caso ministri di una certa importanza istituzionale e consistenza politica: l’uno agli Esteri, che tutti consultano prima o dopo -o prima e dopo- avere parlato con Giuseppe Conte per cercare di capire meglio la sempre mutevole situazione interna del MoVimento 5 Stelle, e l’altro allo Sviluppo Economico. 

Il “draghicidio” fa rima in tutti i sensi col “conticidio” coniato un anno fa sul Fatto Quotidiano da Marco Travaglio, e tradottosi anche in un libro, per denunciare, lamentare e quant’altro la congiura prima e il delitto poi compiuto per allontanare da Palazzo Chigi, dopo soli tre anni e poco più  di esperienza, il presunto migliore capo del governo avuto dall’Italia nella sua storia: l’uomo -altro che Draghi- cui tutti dovremmo la svolta solidaristica dell’Unione Europea di fronte ai danni della pandemia, dopo “il sangue e la merda” -direbbe il mio amico Rino Formica- sparsi da Bruxelles e da Berlino negli anni della politica comunitaria del rigore o dell’austerità. 

Titolo di Repubblica
Titolo del Foglio

Delitto per delitto, c’è forse da mettersi in attesa di quelli che potrebbero essere consumati in questa corsa al Quirinale ai danni dei candidati che, in buona o cattiva fede, vengono lanciati da destra e da sinistra attribuendoli ai progetti nascosti ora di questo e ora di quello schieramento: dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati all’ex presidente della Camera e ora senatore Pier Ferdinando Casini, o al vice presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato, peraltro presidente in pectore della Consulta per ragioni di anzianità, essendo in scadenza  Giancarlo Coraggio. 

Ripreso da http://www.startmag.it

Quel Matteo Salvini uno e trino, blasfemia a parte….

Titolo del Dubbio

  Una domanda non so neppure io se più ingenua o maliziosa: in quale veste Matteo Salvini ha incontrato Mario Draghi prima che si aprissero nell’aula di Montecitorio, e dintorni drive in, le urne per l’elezione del presidente della Repubblica? Come leader della Lega o del centrodestra a trazione appunto leghista dal 2018, per effetto del sorpasso elettorale effettuato sul partito di Silvio Berlusconi? 

              Nel primo caso l’incidente, l’equivoco, chiamatelo come volete, col presidente del Consiglio, praticamente rifiutatosi di parlare di un nuovo governo non avendo la veste ne’ di presidente della Repubblica, o non ancora, ne’ di capo-partito, è da considerarsi spiacevole ma limitato, o non grave. Nel secondo caso risulterebbe peggiorata la situazione già critica del centrodestra dopo i modi, i tempi e le motivazioni scelte da Berlusconi per rinunciare alla corsa al Quirinale, sottraendosi di fatto a un confronto con gli alleati disposti a votarlo e ponendo una specie di pregiudiziale alla candidatura di Draghi, troppo bravo e necessario a Palazzo Chigi per allontanarsene.

               Invece Salvini cercando di parlare col presidente del Consiglio di un nuovo governo ne ha implicitamente ipotizzato il ruolo di capo dello Stato, quasi condizionando alla sua disponibilità verso l’assegnazione di incarichi governativi il consenso ad una elezione a capo dello Stato. E la cosa non è per niente piaciuta -ne’ sarebbe potuto accadere diversamente- a Berlusconi e al giro stretto dei collaboratori, fedelissimi e familiari. I quali, pur essendosi mossi autonomamente nell’operazione di rinuncia alla corsa, esponendosi quindi al rischio di una ritorsione, o qualcosa di simile, si aspettavano di essere coinvolti in un approccio diverso alla candidatura quirinalizia del presidente del Consiglio.

             Una prova o un indizio, come si preferisce, della sorpresa e dei malumori al vertice di Forza Italia si trova nella iniziativa presa dal vice di Berlusconi, coordinatore nazionale del partito ed ex presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani, rimasto fuori dal governo proprio per la caratura di leader attribuitagli l’anno scorso da Draghi, di condurre personalmente consultazioni e quant’altro, a cominciare da Giuseppe Conte. Che sarà pure malmesso, come è recentemente scappato di riconoscere all’amico ed estimatore Goffredo Bettini, ma è il presidente del movimento, ora quasi partito, ancora maggiormente rappresentato in Parlamento. Da cui, almeno sulla carta, è difficile prescindere in questa legislatura dura a morire: assai dura, anche a costo di imporre al Paese una campagna elettorale di più di un anno, quanto manca alla scadenza ordinaria, anziché dei 75 giorni normali. E guai a lamentarsene perché si rischia il linciaggio da parte dei deputati e senatori uscenti sicuri di non poter essere rieletti, e neppure candidati dopo i tagli ai seggi così imprudentemente apportati.

Pubblicato sul Dubbio

                                                                                                                               

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