Comincia maluccio il 2022 per le casse già scarse dei grillini…

Giuseppe Conte

E cominciato in rosso, contabile e politico, il 2022 per Giuseppe Conte. Che non può fare affidamento sulla quota di finanziamento pubblico del MoVimento 5 Stelle che aveva voluto garantirsi col referendum digitale nello scorso mese di novembre, indetto in tutta fretta e assai poco partecipato dagli iscritti, in gran parte astenutisi dal votare alla sola idea di vedere finire la loro formazione nel registro nazionale dei partiti: requisito essenziale per l’ammissione al cosiddetto meccanismo del 2 per mille nelle denunce dei redditi.  

La domanda d’iscrizione è stata respinta dalla commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici composta di cinque membri, tutti magistrati, e nominata congiuntamente fra il 2019 e il 2020 dai presidenti delle Camere. 

E’ stata questa commissione, presieduta dal consigliere della Corte dei Conti Amedeo Federici, a comunicare a Conte che nello statuto da lui riscritto nella sostanziale rifondazione del MoVimento mancano le condizioni di democrazia interna richieste dalla normativa in materia, oltre che dalla Costituzione” per l’iscrizione al registro nazionale dei partiti.

L’insospettabile Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, che ha potuto accedere al documento della commissione, ha riferito che il giudizio non è stato generico, essendo stata  fatta rilevare “una serie di criticità e modifiche necessarie” allo statuto del MoVimento per cercare di sanarvi entro 45 giorni: “operazione non facile -ha spiegato con un mezzo sollievo il   giornale molto sensibile agli umori e malumori pentastellati- conoscendo le procedure “necessarie per modificare gli assetti interni statutari, frutto già del difficile compromesso raggiunto la scorsa estate in sede di revisione e riscrittura tra Giuseppe Conte e il fondatore Beppe Grillo”, tuttora garante di quel non partito orgogliosamente nato per contrapporsi a tutti gli altri anche nella forma. Poi, si sa, l’appetito vien mangiando con chi si accetta di sedersi alla stessa tavola per governare.  

A consolare Conte per quest’altro contrattempo di inizio o trapasso d’anno -dopo tutti i problemi procuratisi anche col tentativo di assegnare una corsia preferenziale alle donne nella corsa al Quirinale- chissà se basterà “la buona compagnia” -come hanno scritto al Fatto- in cui si è trovato alle prese con i rifiuti e i rilievi della commissione di garanzia degli statuti eccetera eccetera. E’ la compagnia, in particolare, dei pentastellati dissidenti o espulsi  costituitisi in “Alternativa”, degli ex forzisti e simili raccoltisi in “Coraggio Italia” e di altri ancora ritrovatisi in una formazione  chiamata non certo originalmente “europeisti”. In fondo, è più facile farsi riconoscere in questi tempi come “sovranisti”, quali per un pò sono stati anche tutti i grillini, prima di convertirsi al governiamo, più ancora che alla governabilità. 

Mattarella si accomiata in piedi al Quirinale, ma con misura

In piedi come se fosse non dico in cortile, a pochi passi dal portone del  palazzo, ma in prossimità di una delle uscite dalla sala del Quirinale scelta per pronunciare il tradizionale messaggio televisivo di fine anno, scartando quindi la scrivania o la poltrona di un salotto più consone ad una stabile permanenza, il presidente della Repubblica ha voluto ricordare in apertura del suo discorso i “pochi giorni” mancanti -“come dispone la Costituzione”, ha precisato- alla conclusione del suo “ruolo”. Egli non è quindi tornato a inserire il suo commiato “in un inciso”, di recente sottolineato dal quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda riferendo su una cerimonia augurale appena svoltasi sul Colle. L’apertura è l’apertura. 

Eppure permettete ad un vecchio cronista politico e parlamentare di esprimere l’impressione ricavata di un saluto diverso da quello che era lecito aspettarsi dall’enfasi mediatica riservata a ripetuti segnali di indisponibilità di Mattarella ad una rielezione. Dalla quale, del resto, si è affrettata a confermare la sua contrarietà Giorgia Meloni avvertendo evidentemente anch’essa che l’ipotesi resta in campo.  

Rispettoso com’è delle prerogative non solo sue ma soprattutto del Parlamento, per quanto appena sacrificate dall’ennesima edizione della legge di bilancio dello Stato approvata all’ultimo momento, in un regime di sostanziale monocameralismo, il buon Mattarella non può d’altronde impedire alle Camere di rieleggerlo, se lo volessero a dispetto della destra meloniana. Rieleggerlo e basta, d’accordo, senza quel mandato a termine contestato dai costituzionalisti in parrucca, o cattedra, ma ugualmente sperimentato e accettato da Giorgio Napolitano nel 2013 a conclusione del suo primo settennato in condizioni di particolari difficoltà politiche e istituzionali. Dipende dalla sensibilità. disponibilità e quant’altro del presidente della Repubblica rieletto valutar l’opportunità di assegnarsi una durata intera o parziale del nuovo mandato. 

Lo stesso presidente Mattarella in una visione fiduciosa del futuro del Paese e delle capacità degli italiani di sapere dare il meglio di se stessi nelle difficoltà, che permangono  pur nel quadro di una ripresa nel contesto di una pandemia amcora pericolosa, ha invitato “ciascuno” ad “accettare di fare sino in fondo la propria parte”. E non è detto che non gliene spetti ancora anche a lui, per quanto stanco possa essere e per quanta ritrosia possa avere maturata verso una rielezione da studioso e docente di diritto parlamentare. A volte le parti che ci spettano possono essere anche sgradite, o più semplicemente scomode. 

In questo spirito come un italiano fra i tanti -che, se ne avesse avuto l’occasione, si sarebbe aggiunto la sera del 7 dicembre scorso agli applausi e ai “bis” levatesi verso Mattarella da ogni settore del teatro milanese della Scala di cui lui era ospite- ringrazio e ricambio di cuore gli auguri di buon anno rivolti dal presidente uscente della Repubblica. E auspico di sentirlo ancora rivolgersi ai concittadini dal Quirinale, almeno sino a quando non sarà ristabilita la normalità di una situazione politica e istituzionale oggi compromessa. E si sa bene da che cosa: da un Parlamento troppo invecchiato, se non delegittimato, da una riforma della sua composizione imprudentemente voluta all’inizio della legislatura dal partito maggiormente premiato nelle elezioni del 2018 e dagli alleati di governo via via avvicendatisi con una certa disinvoltura.  

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