Le esche di Travaglio alle Procure contro Berlusconi al Colle

Su Libero di ieri

Caspita, che preveggenza ha saputo dimostrare Carlo Nordio, conoscendo evidentemente i suoi polli ancora al lavoro nelle Procure, scommettendo non più tardi di ieri su Libero “che i pm interverranno anche nella partita per il Quirinale”.

“Occhiello” del titolo dell’articolo del Fatto Quotidiano

Oggi sul solito Fatto Quotidiano -e dove sennò?- oltre all’annuncio di una “petizione” e di una campagna di carta contro la candidatura pur di incerta formulazione, diciamo così, di Silvio Berlusconi a presidente della Repubblica, si spara in un titolone di prima pagina  una specie di notizia di reato che potrebbe ben essere interpretata come un’esca per le Procure della Repubblica. Dove la cosiddetta obbligatorietà dell’azione penale potrebbe indurre i più volenterosi ad aprire il solito fascicolo, cioè la solita inchiesta: giudiziaria, mica solo giornalistica come con inchiostro rosso il giornale diretto da Marco Travaglio ha definito quella condotta da Ilaria Proietti, e tradottasi in un lungo articolo fatto prevalentemente di insinuazioni o rivelazioni anonime.

Un misterioso parlamentare già del MoVimento 5 Stelle ha raccontato alla stessa Proietti, o ad un suo informatore, di avere ricevuto da emissari di Berlusconi, veri o presunti che fossero, offerte delle più diverse per votare l’ex presidente del Consiglio al Quirinale quando finalmente sarà il momento nell’aula di Montecitorio, a Camere riunite in seduta congiunta con la partecipazione anche dei delegati dei Consigli Regionali. Offerte, ripeto, di tutte le qualità e quantità: “poltrone in consigli di amministrazione di società all’estero e 100 mila euro”, sintetizza il sommario del titolo di prima pagina. Che sono “meno di quel che dava alle sue olgettine” il non più tanto generoso Berlusconi, commenta un “deputato campano”, non meglio specificato, coinvolto nell’”inchiesta” della giornalista. Che naturalmente potrebbe invocare il segreto professionale se qualche magistrato volesse strapparle nomi e particolari senza fare molta fatica a scoprirli da solo.  

Un nome tuttavia si fa nell’articolo a proposito dei 100 mila euro. Sarebbe quello del forzista nuovo di zecca Gianluca Rospi, ex grillino approdato alla luce del sole nel partito di Berlusconi attraverso il movimento dell’ex forzista Giovanni Toti. Centomila euro sarebbe costato appunto “il taxi” -come lo definisce la giornalista di Travaglio- che ha portato Rospi da Berlusconi, ma non certo per ammissione o racconto dell’interessato. La fonte è rimasta rigorosamente anonima.

Intervista di Antonio Martino a Repubblica
Altro titolo del Fatto Quotidiano

In questo contesto alquanto velenoso di rivelazioni, che ripropone lo spettacolo del “suq” già vissuto ai tempi politici e giudiziari del senatore Sergio De Gregorio sottratto a suo tempo da Berlusconi a Romano Prodi, ci sarà da aspettarsi di tutto e di più, a meno che lo stesso Berlusconi, anzichè continuare a divertirsi -come lo descrivono sempre al Fatto Quotidiano– a immaginare le facce dei magistrati con la sua foto da presidente della Repubblica alle loro spalle negli uffici dove amministrano la giustizia, non accetti i consigli alla rinuncia appena datigli dall’insospettabile amico  ed ex ministro Antonio Martino. Che, parlando pure lui in forma anonima di “un amico” convinto della irriducibilità del sogno quirinalizio del Cavaliere, si è chiesto in una intervista a Repubblica, “con la vita che ha fatto Berlusconi, e che ancora può fare, perché dovrebbe appassionarsi per un mestiere che consiste in baciare bambini, tagliare nastri e andare ai funerali”. Per giunta possedendo “tante belle abitazioni che non riesce neppure a viverle tutte”.

Occhetto riscrive la storia di quel brutto no a Spadolini per il Quirinale

Titolo del Dubbio

Fra gli inconvenienti o i pregi delle cicliche corse al Quirinale, secondo i gusti, ci sono le esuberanze o i vuoti di memoria di protagonisti, comprimari, attori e quant’altro delle precedenti edizioni, e quindi della storia di questa nostra non più giovane Repubblica. Che si porta addosso ormai i suoi 75 anni e mezzo, o poco meno, per fortuna non pensionabili.  

De Mita e Cossiga in una foto d’archivio

Il contributo più giocoso lo ha dato sinora Clemente Mastella riproponendo quella movimentata notte di giugno del 1985 in cui, chiamato al telefono da un imbarazzatissimo Flaminio Piccoli, dovette correre alla Camera e fare distruggere le schede con le quali i parlamentari della Dc avevano designato a scrutinio segreto il presidente in carica del Senato Francesco Cossiga al Quirinale riservandogli  un modesto o addirittura scarso 60 per cento dei voti. Ciò avrebbe potuto indurre a un ripensamento il segretario del Pci Alessandro Natta, che aveva già aderito con qualche difficoltà alla candidatura prospettatagli dal segretario della Dc Ciriaco De Mita, non essendo passati molti anni -solo cinque- dai giorni in cui i comunisti avevano cercato di mandare sotto processo davanti alla Corte Costituzionale per sostanziale favoreggiamento proprio Cossiga, allora presidente del Consiglio, per il caso del figlio terrorista di Carlo Donat-Cattin.

De Mita e Mastella in una foto d’archivio

Mastella, che assicura di avere ricevuto poi la dovuta gratitudine dall’interessato, trasformò magicamente, come capo ufficio stampa di De Mita, quel 60 nel 75 per cento dei voti, con tanto di comunicato che consentì il passaggio del candidato  in aula, a Montecitorio, al primo colpo: 977 voti su 979 votanti, ben oltre quindi la maggioranza dei due terzi dell’assemblea necessaria per i primi tre scrutini, pari a 674 voti.

Non fu certo la prima bugia a fin di bene della politica, e neppure l’unica. Già nel 1971 una votazione a scrutinio segreto, sempre fra i parlamentari della Dc in una corsa al Quirinale, si era chiusa senza dare alcun dettaglio del risultato per non scatenare poi un safari nell’aula della Camera contro il povero Giovanni Leone, prevalso nel partito su Aldo Moro per meno di dieci voti.

Giovanni Spadolini

Se Mastella ha forse ecceduto giocosamente nella memoria, smitizzando un po’ il capolavoro tuttora attribuito a De Mita per l’operazione Cossiga al Quirinale, temo che Achille Occhetto abbia esagerato in senso inverso raccontando al Corriere della Sera, come ha fatto qualche giorno fa, le ragioni per le quali il Pds-ex Pci da lui guidato nel 1992 preferì votare il democristiano Oscar Luigi Scalfaro piuttosto che il repubblicano Giovanni Spadolini.  Esso preferì il presidente della Camera a quello del Senato nella soluzione “istituzionale” che si volle dare al problema quirinalizio dopo la strage di Capaci. Che la mafia aveva compiuto mentre in Parlamento si succedevano inutilmente e stancamente le votazioni per la successione a Cossiga, sempre lui, per giunta anche dimissionario, per cui il povero Spadolini già lo stava sostituendo assistito dai corazzieri.

Occhetto al Corriere del 26 novembre

Pur “premuto -ha ammesso- da importantissimi personaggi dell’editoria e dell’imprenditorialità italiana perché scegliessi Spadolini”, per il quale non aveva nascosto le sue simpatie neanche l’allora segretario della Dc Arnaldo Forlani, che già nel 1981 gli aveva praticamente ceduto Palazzo Chigi, Occhetto ha cercato di far capire di avere scartato il leader repubblicano solo perché ne temeva l’insuccesso. Al quale avrebbe potuto seguire una candidatura pentapartitica tipo quella di Giulio Andreotti. Che in effetti come presidente del Consiglio in carica considerava ”istituzionali” anche le sue carte.

Occhetto con Napolitano, e D’Alema, in una foto d’archivio

E no, caro Occhetto. L’ex Pci preferì Scalfaro solo perché l’elezione di Spadolini avrebbe reso impossibile la successione di un suo uomo alla presidenza del Senato: seconda carica dello Stato a quel punto inevitabilmente rivendicata dalla Dc. L’elezione di Scalfaro avrebbe invece consentito quella di Giorgio Napolitano al vertice di Montecitorio.

Spadolini, Scalfaro e Napolitano in una foto d’archivio

Fu quindi una mera operazione di opportunismo politico a determinare quella scelta. Alla quale stoicamente -debbo dire- Spadolini si rassegnò, pur avendo già preparato il discorso di insediamento. Mi disse che dopo sette anni avrebbe avuto la stessa età alla quale Scalfaro era stato appena eletto al Quirinale. Grandissimo, felix Spadolini, come lo chiamava l’amico Montanelli: si era già prenotato per la successione, impeditagli solo dalla morte prematura, avvenuta nel 1994

Pubblicato sul Dubbio

Se l’ottimismo in questi tempi diventa addirittura una botola

La bella locandina della festa del Foglio

Solo i fatti, peraltro anche a breve scadenza, diciamo fra gennaio e febbraio, massimo marzo, potranno dirci almeno sotto il profilo della politica interna, non estranea di certo agli interessi del Foglio che dirige, se è più consolante o consolatoria la scommessa sull’ottimismo che Claudio Cerasa ha rinnovato a conclusione della quinta edizione dell’omonima festa organizzata dal suo giornale a Firenze. Dove si sono alternati sul palco più di venti ospiti di ogni colore e mestiere, diciamo così, intervistati dalle migliori firme del quotidiano, salvo il fondatore Giuliano Ferrara, per esplorare il nostro presente e il nostro futuro.

Titolo del Foglio del 23 novembre su Silvio Berlusconi in corsa per il Quirinale

Almeno sino al 23 novembre scorso, cioè non più di una settimana fa, quando lo stesso Giuliano Ferrara cominciò a scherzarci sopra conferendo un “bel trenta e lode, più l’abbraccio accademico” al sempre amico e “amor suo” Silvio Berlusconi, ormai impegnato nella scalata al Quirinale dietro il pannello di un cantiere non ancora aperto, era stata componente importante dell’ottimismo del Foglio il possibile trasferimento di Mario Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale. Dove in sette anni -avevano spiegato Ferrara e amici- lo stesso Draghi avrebbe potuto  fare per l’Italia, e persino per l’Europa, ben più di quanto gli sarebbe stato concesso per qualche mese o settimana ancora da presidente del Consiglio con un altro capo dello Stato.

Titolo sempre del Foglio del 23 novembre su Berlusconi al Colle

Pur ridimensionato dal sarcastico applauso di Ferrara alla “missione difficile ma chissà” di Berlusconi al posto di Mattarella, l’obiettivo, il sogno e quant’altro di Draghi al Quirinale è rispuntato in un po’ in tutti i passaggi del raduno del Foglio nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio. Ma neppure il nome della festa è riuscito a cambiare il clima sottinteso a quel rifugio di Ferrara nell’ironia del 23 novembre. La ministra forzista Mara Carfagna, pur considerata fra quelle meno ingessate della sua parte politica, ha lanciato da Firenze l’appello a lasciare tranquillamente Draghi al suo posto, come contemporaneamente raccomandava Silvio Berlusconi in persona lasciandosi intervistare al telefono nella sua Milano dal Corriere della Sera.

Mara Carfagna a Firenze
Luigi Di Maio a Firenze

Sulla stessa posizione, pur non spingendosi, almeno sinora, ad aprire ad una candidatura di Berlusconi al Quirinale, si è collocato davanti ai “foglianti” il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Che anche come presidente del nuovo comitato di garanzia, o come diavolo si  chiama, nel MoVimento 5 Stelle è l’amico, diciamo così, da cui si deve guardare di più il presidente Giuseppe Conte: più ancora che dall’altro ma supremo “garante” Beppe Grillo. Dal quale non a caso l’ex presidente del Consiglio si è appena guadagnata in una videoconferenza la qualifica di “maggiore esperto di penultimatum”, cioè di nulla.

Titolo del Tempo
Enrico Letta al Firenze

Il segretario del Pd Enrico Letta, pure lui a Firenze    tra i “foglianti”, è stato su Draghi al Quirinale di un allusivo preoccupante quando, professandosi favorevole all’esaurimento ordinario della legislatura nel 2023, nonostante la voglia di urne che gli attribuisce Matteo Renzi, ha detto che la successione al vertice dello Stato non dev’essere “il preludio al precipitare degli eventi verso elezioni anticipate”. A Draghi insomma “tocca lavorare” ancora a Palazzo Chigi, come ha titolato Il Tempo. “Al governo per forza”, ha scritto in rosso Libero avvertendo una “grande alleanza” contro un trasferimento del presidente del Consiglio al Colle.

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Il passaggio galeotto delle consegne a Roma da Macron a Omicron

La vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX

Salutato festosamente anche dal Papa, presumibilmente interessato pure lui, come Sergio Mattarella e Mario Draghi, alla sua conferma all’Eliseo in primavera, il presidente francese Emmanuel Macron ha lasciato l’Italia mentre vi approdava, proveniente dall’Africa, il quasi omonimo Omicron. Che non è un “migrante”, come desolatamente ricorda Stefano Rolli nella vignetta del Secolo XIX, ma l’ultima -in ordine cronologico- e forse più pericolosa di tutte le varianti del Covid 19. Essa ha distribuito subito il panico fra mercati, ospedali e giornali. Il più sensibile dei quali si è mostrato, almeno sinora, quello della famiglia Berlusconi guardando, in particolare, a ciò che potrebbe derivarne sul piano politico, a poche settimane ormai dalle elezioni presidenziali italiane in Parlamento. Che si è voluto tenere per ben stretta la prerogativa di scegliere il Capo dello Stato, considerando evidentemente gli elettori non ancora o proprio non adatti in assoluto ad una scelta diretta, capace evidentemente di riservare chissà quali altre brutte sorprese dopo tutte quelle procurate dai partiti in questi ultimi anni, o decenni.

Titolo dell’editoriale del Giornale
Augusto Minzolini sul Giornale

Al netto, per carità, dei soliti possibili errori o equivoci nel tentativo di interpretare e tradurre al meglio pensieri, desideri, obiettivi, interessi e quant’altro dell’editore, Il Giornale che sino al 1994, quando Silvio Berlusconi decise di “scendere in politica”, fu di fatto di Indro Montanelli anche dopo che lo stesso Berlusconi lo aveva aquistato davvero, non solo in edicola ogni mattina per orgoglio o devozione al pur imprevedibile fondatore; Il Giornale, dicevo, ha invitato un po’ bruscamente Mario Draghi al senso di responsabilità forse sfuggitogli o attenuato nelle scorse settimane. L’emergenza, a cominciare da quella virale ma comprensiva anche di un certo impaludamento della pur larga maggioranza che sostiene da febbraio il governo nato da una forte iniziativa del Quirinale, non permetterebbe più a Mario Draghi di pensare a un trasloco sul Colle, o di lasciarlo pensare agli amici. Lui deve sentire l’obbligo, direi, persino patriottico di rimanere al suo posto, per non rischiare quello che non meriterebbe: passare -ha praticamente scritto il direttore del Giornale Augusto Minzolini, fra titolo e testo dell’editoriale- “da eroe a disertore”.

Sondaggio di Alessandra Ghisleri
Titolo di Domani

D’altronde -sembra fargli eco Alessandra Ghisleri con un sondaggio della sua Euromedia Research effettuato non più tardi del 24 novembre scorso su scala nazionale, pur col solito campione di soli mille intervistati- Draghi sta forse sopravvalutando la propria popolarità. A preferirlo al Quirinale, piuttosto che a Palazzo Chgi, sarebbero solo 14,2 italiani su cento. E Berlusconi, il tanto dileggiato Cavaliere con i suoi problemi d’età e di tribunali, è distaccato solo di 2,2 punti. Seguono, in ordine rigorosamente decrescente di percentuali, da un massino di 10,3 a un massimo di 1,2, la guardasigilli Marta Cartabia, Romano Prodi, Maria Elisabetta Casellati, Paolo Gentiloni, Gianni Letta, forse scambiato per lo zio Enrico, Casini, Emma Bonino, Veltroni, Marcello Pera, Franceschini, Conte e Giuliano Amato. Non classificato, diciamo così, per una conferma il presidente uscente Mattarella, che pure ieri era ancora temuto da Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano e oggi dal direttore Stefano Feltri sul Domani di Carlo De Benedetti, irriducibile nella sua aspirazione a partecipare in qualche modo alle partite politiche italiane.

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Il patto del Quirinale tra frecce tricolori svettanti e frecce avvelenate

Più ancora di quelle pur bellissime frecce tricolori svettanti sul Quirinale dopo la firma del trattato di “cooperazione rafforzata” fra l’Italia e la Francia, l’immagine emblematica dell’importante evento politico e diplomatico è quella che ritrae il padrone di casa Sergio Mattarella mentre stringe la mano destra a quella del presidente francese Emmanuel Macron e la mano sinistra, il lato peraltro del cuore, a quella del presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, come per dare loro anche il buon lavoro per l’applicazione dell’accordo concluso -non dimentichiamolo- dopo ben quattro anni di  lavoro.

Come e da dove Macron e Draghi dovranno o potranno lavorare per l’esecuzione del trattato su quello che è stato chiamato anche “l’asse Parigi-Berlino”, lo diranno le elezioni presidenziali in programma nei due Paesi a scadenza ravvicinata: a gennaio a Roma, nell’aula di Montecitorio, dove per la successione a Mattarella voteranno i deputati, i senatori e i delegati regionali, e in aprile in Francia. Dove ad eleggere l’eventuale successore di Macron saranno direttamente -beati loro- i francesi.

La scommessa di Mattarella, ma anche di Draghi, sulla conferma di Macron è nelle cose, diciamo così, dimostrate dagli stessi tempi scelti per la firma del trattato. Che da solo è un incentivo olt’Alpe alla conferma del presidente francese in un quadro dove i nostri cosiddetti cugini hanno voluto o potuto precostituirsi le condizioni per continuare a svolgere, in cooperazione rafforzata con l’Italia, un ruolo trainante in Europa, specie nel cosiddetto dopo-Merkel.

I due firmatari del Patto del Quirinale

Più difficile resta invece l’immaginazione di ciò che Mattarella, stringendo quelle mani, abbia potuto auspicare che avvenga ormai fra una decina di settimane al Quirinale. Dove, certo, potrebbe subentrargli proprio Draghi in circostanze o modi tali da assicurare una qualche continuità a Palazzo Chigi con un rinnovato accordo di emergenza e sostanziale solidarietà nazionale attorno a un nuovo presidente del Consiglio, salvo incidenti programmati o imprevisti funzionali ad uno scioglimento anticipato delle Camere. Che è adombrato come una specie di bomba atomica da chi si oppone all’elezione di Draghi.

Ma potrebbe anche, o ancora, accadere ciò che nel mondo pur gassoso delle 5 Stelle, nei cui gruppi parlamentari, o in ciò che ne rimane, sembra essere temuto come una sciagura. Tale almeno è considerata oggi sul solito Fatto Quotidiano l’ipotesi di un ripensamento di Mattarella per l’accettazione di una conferma praticamente a termine, per il tempo necessario da una parte a garantire un ritocco della Costituzione che impedisca con la non rieleggibilità del capo dello Stato un’altra conferma ancora in futuro, e dall’altra a permettere l’elezione del successore alle Camere nuove e più legittimate.

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

Come in un travaso di bile Marco Travaglio ha visto sul palcoscenico politico il fantasma della “coppia di Stanlio e Ollio che salutano tutti (“arrivedoorci!”) e non si muovono di lì”. E ha reclamato da Mattarella -“per non fare -ha scritto- la figura del bugiardo tipo Napolitano”, lasciatosi confermare nel 2013 per un paio d’anni- un’uscita finalmente inequivocabile, in stretto dialetto siciliano. Che sarebbe questa, di inutile traduzione in italiano tanto è chiara: “Chi camurria, m’aviti scassatu a minchia”. Un po’ troppo forse per una persona educata come Mattarella.    

Anche Macron dà la sua….spintarella a Draghi verso il Quirinale

Fra le tante fotografie sulla missione del presidente francese Emmanuel Macron a Roma per la firma odierna del cosiddetto trattato del Quirinale fra i due Paesi, ve n’è una un po’ galeotta per le attuali circostanze politiche.

Alla vigilia ormai -fra poco più di un mese- della convocazione delle Camere in seduta congiunta per l’elezione del successore di Sergio Mattarella quello di Macron a Mario Draghi a Palazzo Chigi è sembrato, a torto o a ragione, ben più di un saluto formale fra persone che si conoscono e si stimano: quasi un incoraggiamento a Draghi nella “corsa al Quirinale” in cui tanti lo vedono ormai coinvolto senza più il distacco o la diffidenza di qualche settimana fa.

Persino dal Vaticano, dove Mattarella è atteso il 16 dicembre per una visita annunciata di “congedo” dal Papa, giungono segnali a favore di Draghi, che lo stesso Pontefice l’anno scorso volle d’altronde chiamare, da celebre “disoccupato” per l’esaurimento del suo mandato di presidente della Banca Centrale Europea, alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

Dal Messaggero di oggi

“Non è un mistero per nessuno -ha scritto il vaticanista del Messaggero riferendo sugli auspici espressi dal Segretario di Stato Pietro Parolin per un Presidente dal “proflo di mediazione, di punto fermo per i valori democratici e di riferimento di fronte alla fluidità in cui ci troviamo a vivere”- che a Santa Marta”, la residenza di Papa Francesco, “si faccia il tifo per Mario Draghi. ritenuto una personalità autorevolissima in Europa e nel mondo, ispirato da una sana laicità e con le spalle sufficientemente larghe per far fronte alle sfide”.

Wanda Marra sul Fatto Quotidiano

Addirittura al Fatto Quotidiano, dove Draghi è poco simpatico, diciamo così, per il solo fatto di essere succeduto all’indimenticato e amatissimo Giuseppe Conte, se non di avere partecipato attivamente a quello che il direttore di quel giornale ha definito “Conticidio” in un libro, sembrano ormai rassegnati al trasferimento del presidente del Consiglio al Quirinale. In vista o in funzione del quale  è stato visto nella cronaca politica di Wanda Marra anche la decisione di Draghi di consultare separatamente -al posto, per ora, del “tavolo” proposto dal segretario del Pd Enrico Letta per mettere tutti insieme i leader della maggioranza- i capigruppo parlamentari e capi-delegazione dei partiti che partecipano al governo. “Al Nazareno- ha riferito la cronista parlando della sede del Pd- l’ipotesi che il premier vada al Quirinale non sembra così peregrina”.

Maurizio Turco a Repubblica

Anche direttamente dal mondo delle 5 Stelle, in particolare dal vice presidente del Movimento Mario Turco, pur temendo  “un rallentamento di tutte le attività in atto” per effetto della prevedibile formazione di un nuovo governo, e non della semplice sostituzione del presidente del Consiglio, è arrivata l’assicurazione che “verso Draghi non abbiamo nessuna preclusione”.

Il senatore del Pd Luigi Zanda

C’è tuttavia chi ancora spera di convincere Mattarella a un bis temperato, diciamo così. Sembra il sottinteso, per esempio, del disegno di legge appena preannunciato dall’autorevole senatore del Pd Luigi Zanda per una modifica della Costituzione sulla ineleggibilità del capo dello Stato uscente e sull’abolizione del cosiddetto semestre bianco, che gli impedisce di sciogliere le Camere. Sono cose entrambe auspicate pubblicamente da Mattarella, a garanzia delle quali il presidente in scadenza potrebbe farsi confermare, facendo eleggere praticamente il suo successore dalle nuove Camere nel 2023, e in un nuovo contesto anche costituzionale, oltre che politico.

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Dal Natale in casa Cupiello al Natale in casa Draghi

Titolo del Corriere della Sera
Titolo de La Verità

Dal “Natale in casa Cupiello” dell’indimenticabile Eduardo De Filippo al “Natale normale” appena promesso, anzi auguratoci da Mario Draghi dopo avere fatto varare dal Consiglio dei Ministri “all’unanimità”- come ha tenuto giustamente a sottolineare con un mezzo sorriso di sarcastica soddisfazione- le misure che renderanno un po’ più difficile la vita, e la loro pretesa di rovinarci le feste, ai cosiddetti no-vax. Sarebbero gli “otto milioni” di italiani -contati quasi uno per uno da Maurizio Belpietro sulla prima pagina della sua Verità- che il presidente del Consiglio avrebbe deciso di “segregare”, per fortuna senza mandarli in qualche campo di concentramento già evocato ripetutamente in piazza dai manifestanti accostando il viso di Draghi a quello di Hitler, o bruciandone le foto come una volta si faceva con le bandiere degli Stati Uniti.

Titolo del Fatto Quotidiano

Pensate se solo il 2 per cento di questi presunti otto milioni di ancor più presunti perseguitati -per stare alla percentuale elettorale con la quale il povero Matteo Renzi viene dileggiato proprio da Belpietro, che ancora non gli perdona forse di avergli fatto perdere la direzione di Libero quando stava a Palazzo Chigi- decidesse di preferire La Verità dello stesso Belpietro nelle edicole persino al Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. Che proprio oggi li ha corteggiati gridando contro “il Natale” che “non sarà più uguale per tutti”. Sarebbe per l’ex direttore anche del Giornale l’affare editoriale del secolo. Ma credo che non avverrà.

Vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX

L’aria che tira nel Paese  l’ha fiutata bene, o meglio, Matteo Salvini prima facendo approvare dai suoi ministri il cosiddetto “super green pass” e poi cercando di prenderne le distanze nella comica posizione in cui l’ha immaginato e proposto ai lettori Stefano Rolli nella vignetta di prima pagina del Secolo XIX. Dove l’ex ministro dell’Interno si è lasciato imbavagliare e serrare a doppia mandata di fune, diciamo così, non tanto dal presidente del Consiglio, che continua ogni tanto a riceverlo, quanto dai “governatori” regionali di un movimento che paradossalmente si chiama proprio Lega.

Titolo della Repubblica
Titolo della Stampa

Naturalmente, per quel che vale la mia modestissima opinione, accetto e ricambio volentieri a Draghi gli auguri di un Natale “normale”. Che -chissà perché- in un eccesso non so se più di laicismo, vero o presunto che sia, o di scettica indifferenza, Vittorio Feltri ha voluto deridere in un salotto televisivo dicendo che del Natale, appunto, non gliene “frega niente”, pur avendo condiviso, bontà sua, le misure predisposte da Draghi. “La giusta scelta di campo”, ha titolato la Repubblica di carta. “La vittoria del pragmatismo”, le ha fatto eco La Stampa. Una mezza prenotazione del Colle, penserà qualche retroscenista malizioso che, a torto o a ragione, si è fidato di quel barista dei Parioli, quasi sotto casa del presidente del Consiglio, che ha recentemente rivelato di aver sentito prevedere per il marito dalla signora Serenella Draghi un trasferimento da Palazzo Chigi al Quirinale. Nel frattempo però la corsa alla successione a Sergio Mattarella si è affollata di aspiranti, furbi o ingenui che siano, palesi o occulti, pregiudicati o incensurati come preferirebbe distinguerli il solito Travaglio, sempre più ossessionato -mi pare- dalla paura che ad essere favoriti dalle bizzarrie della politica finiscano per essere i primi.  

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La Repubblica di Pinocchio partorita dai ritardi del Parlamento

Titolo del Dubbio
Il Palazzo della Cote Costituzionale

Così rapidi e sensibili nel difendere il carattere “parlamentare” della Repubblica ogni volta che qualcuno propone il presidenzialismo o il semipresidenzialismo, magari accontentandosi di quello di fatto intravisto, a torto o a ragione, dietro certi passaggi politici come quello del governo in carica presieduto da Mario Draghi, costituzionalisti e politici dal palato fine, anzi finissimo, assistono senza fiatare, o quasi, a uno spettacolo paradossale come quello in corso di un suicidio assistito autorizzato dalle strutture sanitarie nelle Marche in esecuzione di una sentenza della Corte Costituzionale, non di una legge. Sulla quale, per quanto chiesta dalla stessa Corte con un’abrogazione parziale o praticamente virtuale dell’articolo 580 del codice penale, il Parlamento non è riuscito a fare altro che giocare a palla, cioè rinviare.

Ora, di fronte al clamore provocato dal dramma del tetraplegico marchigiano si profila un più o memo miracoloso approdo in aula, a Montecitorio, di una legge troppo a lungo giocata appunta come una palla in commissione. Ma con quante poche prospettive che qualcuno riesca a segnare davvero un gol è facile immaginare considerando la fase dei lavori parlamentari contrassegnata dal percorso del bilancio e quella successiva in cui su tutti gli altri problemi o scadenze prevarrà la successione a Mattarella -se sarà davvero successione- al Quirinale.

Non vorrei sembrare irriverente verso l’istituto parlamentare e dintorni ma in occasioni sempre più frequenti la Repubblica sembra diventata quella di Pinocchio. Il cui naso notoriamente si allungava con le bugie.  Non è solo il problema del suicidio assistito ad avere impantanato il Parlamento. E’ tutto un impantanamento tra problemi generali della giustizia, per esempio, per quanto chiasso politico abbia prodotto l’intervento recente sulla durata del processo penale, e l’adeguamento della legge elettorale alle Camere che deriveranno la prossima volta, massimo fra un anno e mezzo, dal taglio dei seggi.

In un gioco a dir poco perverso di pigrizie, furbizie, opportunismi e simili si rinviano le decisioni, si allungano i brodi e si lascia il campo, volenti o nolenti, alla supplenza dei referendum abrogativi. Che non a caso sono stati promossi in gran numero negli ultimi tempi per cercare di fare sciogliere direttamente dagli elettori, abrogando appunto o confermando le norme in vigore, i nodi irrisolti dai gruppi parlamentari e dai partiti di riferimento.

Il guaio è che nella loro ormai intrinseca debolezza, per quanto enfatici siano i richiami al carattere -ripeto- parlamentare della Repubblica, le Camere riescono anche a uccidersi pur di non decidere, passando alle nuove le loro debolezze. Il tanto sempre temuto scioglimento anticipato, precluso a Mattarella da luglio  scorso per i limiti derivanti dal cosiddetto semestre bianco del suo mandato,  tornerà a incombere con l’elezione del nuovo presidente, o la pur ormai sempre più  improbabile conferma del presidente uscente. Ma non è per niente detto che continuerà ad essere una prospettiva temuta, per quanto siano tanti i parlamentari uscenti senza più alcuna possibilità di essere ricandidati o rieletti per mancanza di posti o di voti: i primi tagliati forse troppo imprudentemente dagli stessi interessati e i secondi perduti il più delle volte meritatamente per strada a causa degli errori compiuti.

Giovanni Leone

Lo scioglimento anticipato è ormai dal lontano 1972 -l’anno in cui fu costretto a ricorrervi per la prima volta nella storia della Repubblica l’appena eletto presidente Giovanni Leone- una buona occasione per gli interessati di turno ad evitare referendum abrogativi ai quali non ci si sente preparati a livello di partiti. I cui elettorati sono generalmente spaccati dai quesiti referendari.

Matteo Renzi

Il buon Renzi, si fa per dire, ha appena fatto una polemica rassegna di tutti quelli che sarebbero interessati alla fine prematura di questa legislatura, di cui lui invece vorrebbe la prosecuzione per il peso che riesce ad avere con la sua quarantina fra deputati e soprattutto senatori. Ed ha indicato le ragioni di tanta voglia di elezioni anticipate in interessi, diciamo così, di bottega: Enrico Letta, per esempio, per fare lui le liste dei candidati del Pd e disporre finalmente di gruppi parlamentari fidati, come lo stesso Renzi fece nel 2018 perdendo tuttavia le elezioni; Giuseppe Conte per le difficoltà analoghe che ha nei gruppi parlamentari delle 5 Stelle, o in ciò che ne è rimasto; Matteo Salvini per cercare di fermare la crescita di Giorgia Meloni nel centrodestra e via discorrendo.

Sergio Mattareòòa

Il povero Renzi, a questo punto, pur avendo ormai preso il posto che fu prima di Bettino Craxi e poi di Silvio Berlusconi nella difficoltà o drammaticità dei rapporti con la magistratura, si è dimenticato della principale ragione che potrebbero avere i suoi nemici sulla strada delle elezioni anticipate. Essa consiste nel comune interesse ad evitare, rinviandoli per effetto appunto delle elezioni, i referendum sulla giustizia in cui rischiano di rimettere i loro privilegi, o solo le loro brutte abitudini, i magistrati più politicizzati. O quelli -per ripetere la formula abituale di Mattarella quando ne parla, come ha appena fatto al Quirinale incontrando le toghe della Corte dei Conti- che svolgono il loro lavoro condizionati più da “logiche corporative” che dalla legge.

Pubblicato sul Dubbio

Benedetta, anzi benedettissima autoironia: da Mattarella a Draghi e a Grillo

Mattarella all’Università La Sapienza

Non so se da buon figlio di moroteo, com’era suo padre Bernardo, e moroteo lui stesso, anche se approdato alla politica quando lo statista democristiano era già morto, Sergio Mattarella sia bravo come Aldo Moro anche nell’imitare nelle voci e nelle smorfie colleghi e non di partito. Di sicuro ne ha ereditato quello di cui si è appena vantato con i professori dell’Università romana della Sapienza e ha definito “una buona dose di autoironia” indicandola come “ingrediente” o “antidoto” al rischio, per chi “esercita potere”, di farsene troppo “condizionare”.

La foto storica di Aldo Moro prigioniero delle brigate rosse

Persino negli ultimi giorni di vita, quando lottava disperatamente perché i suoi amici di partito e alleati lo sapessero e volessero sottrarre alla sentenza di morte emessa contro di lui dalle brigate rosse, che lo tenevano prigioniero in un covo a Roma dopo averne sterminato la scorta vicino casa, Moro non rinunciò all’ironia prendendosela, in particolare e addirittura, con Papa Montini: il suo amico Montini. Che aveva chiesto pubblicamente ai terroristi, sia pure “in ginocchio”, di rilasciare il presidente della Dc “senza condizioni”. Non si è sprecato molto, osservò pressappoco Moro in una delle sue lettere a proposito del Pontefice, forse pensando anche lui ad una manina, diciamo così, dell’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti in quel messaggio toccante ma politicamente inutile alla causa della sua liberazione, per come si erano ormai messe le cose nella gestione un po’ pasticciata, a dir poco, della cosiddetta linea della fermezza opposta dal governo alla sfida dei terroristi.

A distanza, direi, di poche ore dall’autoironia raccomandata, anzi riproposta da Mattarella, che nei mesi precedenti vi aveva già accennato in un incontro con una scolaresca, abbiamo assistito a due prove di autoironia, appunto, di una certa efficacia nella lettura delle vicende politiche italiane, che non brillano abitualmente di chiarezza e trasparenza.

Titolo del Corriere della Sera

“Anch’io cerco la mia strada”, ha detto Mario Draghi intrattenendosi con dei ragazzi, chiamiamoli così, a Rona. Il presidente del Consiglio non poteva esprimere meglio, con autoironia appunto, le tentazioni dalle quali è preso in questo periodo: tenersi rigorosamente estraneo alla successione a Mattarella o contribuirvi in qualche modo, sino a candidarsi anche lui o lasciarsi candidare per un trasferimento da Palazzo Chigi sgradito naturalmente ad altri possibili concorrenti al Quirinale: per esempio, Silvio Berlusconi.

Titolo di Repubblica

Già comico professionale di suo, con una visione quindi persino esasperata dell’ironia, Beppe Grillo ha profittato di un collegamento con un convegno sull’energia per “dileggiare” -ha titolato la Repubblica- il presentissimo presidente del suo MoVimento Giuseppe Conte. Che egli ha definito -dopo una sparata ormai esaurita  contro la Rai per un giro di nomine non gradito-  “un gentleman” praticamente innocuo, tra i più specializzati in “penultimatum”.

Titolo del Fatto Quotidiano su Conte

In un tentativo mal riuscito di essere anche lui ironico Conte ha reagito sottolineando il tipo “non ortodosso” di “comunicazione” di quello che pur sempre è il suo “garante”, in senso statutario. E che certamente- deve ammetterlo il professore di Volturara Appula- con le sue prese in giro non gli dà una mano mentre l’ultimo sondaggio elettorale di Winpoll attribuisce alle 5 Stelle l’11 per cento dei voti, a rischio di sorpasso anche da parte di una Forza Italia salita al 10,8.  

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Chi sale e chi scende dalla intrigante giostra del Quirinale

Scusatemi se non riesco ad appassionarmi, diciamo così, ai temi della pandemia, dell’assalto pur amichevole degli americani a Tim, delle beghe più o meno regolamentari al Senato sul bilancio e altre cose ancora. Purtroppo mi intriga di più, per vecchie abitudini di mestiere, quella che comunemente si chiama “corsa al Quirinale” e che spesso sarebbe meglio definire “giostra” per la rapidità capricciosa con la quale scendono e salgono i candidati più disparati, con un occhio sempre rivolto tuttavia al presidente uscente della Repubblica. Dalla cui disponibilità o ambizione a restare dipendono tattiche e strategie degli altri concorrenti, almeno da quando la rielezione riuscì nel 2013 a Giorgio Napolitano, anche lui all’origine contrario, come adesso Sergio Mattarella, ma poi arresosi alle circostanze.

Titolo del Messaggero
Titolo del Quotidiano del Sud

 Anche nell’ultima uscita dal Quirinale, tornando tra i professori dell’università romana della Sapienza dove studiò da giovane, il capo dello Stato ha voluto ricordare le “poche settimane” che mancano alla “conclusione del ruolo e delle funzioni” assunte nel 2015, dopo l’abbandono di Napolitano per stanchezza, non so francamente se più fisica o politica, dati gli stress che gli procurava con i suoi ritmi, a dir poco, Matteo Renzi da Palazzo Chigi. Mattarella “chiude ancora ai partiti”, ha titolato Il Messaggero. “Mattarella deve insistere: ho finito”, ha gridato il manifesto. “Mattarella seppellisce l’ipotesi bis”, ha cimiterialmente chiosato Il Quotidiano del Sud.

Se però questa maggiore determinazione di Mattarella a lasciare il campo -per quanto avesse fatto pensare a qualche ripensamento rispolverando recentemente negli archivi quirinalizi le proposte di due predecessori di mettere in cantiere modifiche della Costituzione che gli dessero la ragione o il pretesto per garantirne il corso con un prolungamento davvero eccezionale e ultimo del suo mandato- dovesse davvero nascere dalla convinzione attribuitagli da qualcuno che vada profilandosi dietro le solite quinte un accordo vasto su Paolo Gentiloni come successore, sarebbe forse il caso di diventare più prudenti nei titoli e nelle previsioni.

Travaglio sul Fatto Quotidiano

Sull’ex presidente del Consiglio e attuale commissario europeo si è appena aperta una specie di offensiva sotto le stelle per avere avuto come capo di Gabinetto a Palazzo Chigi lo stesso Antonio Funiciello che oggi assiste Draghi. Al quale Il Fatto con la solita verve di Marco Travaglio ha chiesto di rimuoverlo per avere favorito abitualmente finanziatori di Matteo Renzi. Che -guarda caso, sembra di capire- starebbe lavorando adesso proprio per la candidatura di Gentiloni al Colle, dopo “la pace di Bruxelles” del 9 novembre a casa del commissario europeo annunciata da Repubblica.

Titolo del Foglio
Titolo sempre del Foglio

I problemi di Gentiloni e quelli anche di Draghi, che al Foglio da tempo auspicano al Quirinale ma il cui trasferimento da Palazzo Chigi preoccupa anche un ammiratore come Silvio Berlusconi, hanno scatenato lo spirito giocoso e goliardico di Giuliano Ferrara. Che a questo punto, sempre sul Foglio, ha dato “trenta e lode” al sempre amico Cavaliere per l’ostinazione, la schiettezza, la fantasia e quant’altro  con cui si sta giocano la partita del Quirinale pur senza avere ancora indossato la maglia del giro.   Diavolo di un uomo, il Cavaliere.    

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