

Così rapidi e sensibili nel difendere il carattere “parlamentare” della Repubblica ogni volta che qualcuno propone il presidenzialismo o il semipresidenzialismo, magari accontentandosi di quello di fatto intravisto, a torto o a ragione, dietro certi passaggi politici come quello del governo in carica presieduto da Mario Draghi, costituzionalisti e politici dal palato fine, anzi finissimo, assistono senza fiatare, o quasi, a uno spettacolo paradossale come quello in corso di un suicidio assistito autorizzato dalle strutture sanitarie nelle Marche in esecuzione di una sentenza della Corte Costituzionale, non di una legge. Sulla quale, per quanto chiesta dalla stessa Corte con un’abrogazione parziale o praticamente virtuale dell’articolo 580 del codice penale, il Parlamento non è riuscito a fare altro che giocare a palla, cioè rinviare.
Ora, di fronte al clamore provocato dal dramma del tetraplegico marchigiano si profila un più o memo miracoloso approdo in aula, a Montecitorio, di una legge troppo a lungo giocata appunta come una palla in commissione. Ma con quante poche prospettive che qualcuno riesca a segnare davvero un gol è facile immaginare considerando la fase dei lavori parlamentari contrassegnata dal percorso del bilancio e quella successiva in cui su tutti gli altri problemi o scadenze prevarrà la successione a Mattarella -se sarà davvero successione- al Quirinale.
Non vorrei sembrare irriverente verso l’istituto parlamentare e dintorni ma in occasioni sempre più frequenti la Repubblica sembra diventata quella di Pinocchio. Il cui naso notoriamente si allungava con le bugie. Non è solo il problema del suicidio assistito ad avere impantanato il Parlamento. E’ tutto un impantanamento tra problemi generali della giustizia, per esempio, per quanto chiasso politico abbia prodotto l’intervento recente sulla durata del processo penale, e l’adeguamento della legge elettorale alle Camere che deriveranno la prossima volta, massimo fra un anno e mezzo, dal taglio dei seggi.
In un gioco a dir poco perverso di pigrizie, furbizie, opportunismi e simili si rinviano le decisioni, si allungano i brodi e si lascia il campo, volenti o nolenti, alla supplenza dei referendum abrogativi. Che non a caso sono stati promossi in gran numero negli ultimi tempi per cercare di fare sciogliere direttamente dagli elettori, abrogando appunto o confermando le norme in vigore, i nodi irrisolti dai gruppi parlamentari e dai partiti di riferimento.
Il guaio è che nella loro ormai intrinseca debolezza, per quanto enfatici siano i richiami al carattere -ripeto- parlamentare della Repubblica, le Camere riescono anche a uccidersi pur di non decidere, passando alle nuove le loro debolezze. Il tanto sempre temuto scioglimento anticipato, precluso a Mattarella da luglio scorso per i limiti derivanti dal cosiddetto semestre bianco del suo mandato, tornerà a incombere con l’elezione del nuovo presidente, o la pur ormai sempre più improbabile conferma del presidente uscente. Ma non è per niente detto che continuerà ad essere una prospettiva temuta, per quanto siano tanti i parlamentari uscenti senza più alcuna possibilità di essere ricandidati o rieletti per mancanza di posti o di voti: i primi tagliati forse troppo imprudentemente dagli stessi interessati e i secondi perduti il più delle volte meritatamente per strada a causa degli errori compiuti.

Lo scioglimento anticipato è ormai dal lontano 1972 -l’anno in cui fu costretto a ricorrervi per la prima volta nella storia della Repubblica l’appena eletto presidente Giovanni Leone- una buona occasione per gli interessati di turno ad evitare referendum abrogativi ai quali non ci si sente preparati a livello di partiti. I cui elettorati sono generalmente spaccati dai quesiti referendari.

Il buon Renzi, si fa per dire, ha appena fatto una polemica rassegna di tutti quelli che sarebbero interessati alla fine prematura di questa legislatura, di cui lui invece vorrebbe la prosecuzione per il peso che riesce ad avere con la sua quarantina fra deputati e soprattutto senatori. Ed ha indicato le ragioni di tanta voglia di elezioni anticipate in interessi, diciamo così, di bottega: Enrico Letta, per esempio, per fare lui le liste dei candidati del Pd e disporre finalmente di gruppi parlamentari fidati, come lo stesso Renzi fece nel 2018 perdendo tuttavia le elezioni; Giuseppe Conte per le difficoltà analoghe che ha nei gruppi parlamentari delle 5 Stelle, o in ciò che ne è rimasto; Matteo Salvini per cercare di fermare la crescita di Giorgia Meloni nel centrodestra e via discorrendo.

Il povero Renzi, a questo punto, pur avendo ormai preso il posto che fu prima di Bettino Craxi e poi di Silvio Berlusconi nella difficoltà o drammaticità dei rapporti con la magistratura, si è dimenticato della principale ragione che potrebbero avere i suoi nemici sulla strada delle elezioni anticipate. Essa consiste nel comune interesse ad evitare, rinviandoli per effetto appunto delle elezioni, i referendum sulla giustizia in cui rischiano di rimettere i loro privilegi, o solo le loro brutte abitudini, i magistrati più politicizzati. O quelli -per ripetere la formula abituale di Mattarella quando ne parla, come ha appena fatto al Quirinale incontrando le toghe della Corte dei Conti- che svolgono il loro lavoro condizionati più da “logiche corporative” che dalla legge.
Pubblicato sul Dubbio
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