Il tempo perduto dal ministro Nordio con l’associazione dei magistrati

Giuseppe Santalucia

Non c’è peggiore sordo di chi non vuole sentire, dice un vecchio proverbio adattabile ai magistrati dopo l’intervento del ministro Carlo Nordio al loro congresso, a Palermo, sulla riforma costituzionale della giustizia. Che il governo deve ancora formulare in un disegno di legge ma che il sindacato delle toghe, incoraggiato dalla segretaria del Pd Elly Schlein accorsa sul posto, ha già respinto in blocco. Non vi è “mediazione” possibile sulla separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, ha ribadito il presidente Giuseppe Santalucia verso la conclusione del congresso, intervistato a Rai 3 da Serena Bortone. Che si è ripresa dallo choc del mancato monologo di Antonio Scurati contro la Meloni.  

Dal Fatto Quotidiano

         Paradossalmente proprio l’assicurazione data dal guardasigilli sulla indipendenza che i pubblici ministeri manterranno anche con la carriera separata da quella dei giudici, e in un Consiglio Superiore diviso in due sezioni dove i rappresentanti dei magistrati continueranno però ad essere in maggioranza, è stata usata da Santalucia per contestare la riforma. Perché allora cambiare?, ha chiesto Santalucia fingendo di non capire le ragioni delle modifiche in cantiere. E riproponendo l’opposizione di natura “cultura e costituzionale” cui i magistrati non intendono rinunciare. E pazienza se la separazione delle carriere è nel programma del centrodestra uscito vincente dalle ultime elezioni politiche, come ha ricordato Nordio nel suo intervento al congresso dei togati.

Gustavo Zagrebelsky

         Già, ma anche il concetto di vittoria elettorale è contestato da una certa cultura costituzionale. Proprio ieri sera, in un’altra trasmissione televisiva, condotta da Massimo Gramellini su la 7, il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky ha detto che vincere le elezioni non può bastare ad un partito, o coalizione di partiti, per rivendicare il diritto di realizzare il suo programma  e di invitare le opposizioni irriducibili nell’azione di contrasto a “farsene una ragione”, come usa dire la presidente del Consiglio. Che rivelerebbe così il suo autoritarismo.

         Messa la questione, anzi le questioni in questi termini, lo stesso concetto di governabilità diventa aleatorio. Filosoficamente aleatorio, direi.

Il compianto Giuliano Vassalli

         A proposito di autoritarismo, a nulla è valso pure il richiamo di Nordio alla riforma del processo penale che porta il nome dell’antifascista Giuliano Vassalli, ministro della Giustizia dal 1987 al 1991, giudice della Corte Costituzionale dal 1991 al 2000 e presidente della stessa negli ultimi tre mesi. Una riforma dalla quale deriva logicamente anche la separazione delle carriere dei pubblici ministeri e dei giudici, come pure dall’articolo 111 della Costituzione modificato nel 1999. Dove, oltre alla “ragionevole durata” del processo si prescrive che esso si svolga “nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Un giudice curiosamente terzo, direi, in una carriera in comune col pubblico ministero.

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Il Papa col salvacondotto equipara armi a contraccettivi, missili a pillole

Dal Corriere della Sera

Altro che il no all’aborto praticamente attribuito, a torto o a ragione, il giorno prima alla ministra della famiglia Eugenia Roccella dai contestatori che le hanno impedito di parlare. Il Papa ha potuto tranquillamente sostenere, senza subire interruzioni, ai cosiddetti Stati Generali della Natività il sostanziale divieto dei contraccettivi, paragonati alle armi perché capaci gli uni di impedire e le altre di distruggere la vita. Contraccettivi e armi le cui industrie produttrici -ha detto “Francesco il guastafeste”, come lo ha definito Massimo Gramellini sul Corriere della Sera –assicurano i maggiori profitti agli investitori.

Da Repubblica

         Un Papa munito di salvacondotto, diciamo così, è scampato alle contestazioni per la preveggenza degli organizzatori dentro l’auditorium di via della Conciliazione e per i  manganelli della Polizia fuori, dove un nugolo di malintenzionati staccatisi da un corteo vicino aveva cercato di raggiungere l’esterno del convegno per fare il solito casino.

Dal Corriere della Sera

         Gramellini, sempre sul Corriere, ha confessato, offrendo il solito caffè ai lettori, di avere “visto serpeggiare il panico nelle due curve di ultrà a cui si è ridotta la politica” leggendo o sentendo il paragone del Papa tra armi e contraccettivi, missili e pillole. Tutto invece è filato liscio anche sui giornali, dove il Pontefice l’ha fatta praticamente franca.

A parte lo stesso Corriere, la Stampa e i quotidiani del gruppo Riffeser Monti –Il Giorno, il Resto del Carlino e la Nazione- che ne hanno riferito in modo neutro, senza un’ombra critica, tutti gli altri  in prima pagina hanno semplicemente ignorato parole e concetti del Pontefice: da Repubblica al Giornale, da Libero  al Messaggero, dal Fatto Quotidiano al Foglio, da Domani all’Unità, dal Quotidiano del Sud alla Gazzetta del Mezzogiorno, dal Riformista al Dubbio, dalla Notizia alla Ragione. E mi fermo qui disponendo solo delle prime pagine della rassegna parlamentare del Senato, la più tempestiva di tutte. 

L’abbattimento del muro di Berlino

         A colpire dovrebbe essere non solo la diversità di trattamento fisico, diciamo così, riservato ad una ministra e a un Pontefice, in fondo comprensibile per il loro diverso livello di rappresentanza, rispetto, prestigio e quant’altro. Ma dovrebbe colpire di più il silenzio o l’indifferenza mediatica e culturale opposta alla concezione peccaminosa o criminale della vecchia, ormai abituale pillola contraccettiva riproposta da un Papa pur così moderno su altri versanti: tanto moderno da essere apparso rivoluzionario e persino “comunista” a qualcuno di cui Francesco ha raccolto la provocazione accettandola. Anche se il comunismo, a dire la verità, tutto è stato fuorchè moderno, finendo per fortuna sotto le rovine del muro di Berlino nel 1989 senza lo spargimento di una ulteriore goccia di sangue dopo tutte quelle -troppe-  sparse o fatte spargere prima.    

Grande davvero è la confusione sotto il cielo, come diceva il comunistissimo Mao, senza però che la situazione sia eccellente.

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La ministra Roccella contestata anche per la solidarietà ricevuta dal Quirinale

Dal Foglio

         In quello che Il Foglio ha definito nella sua cronaca ben commentata “un nomale giovedì italiano da scoppiati”, e che personalmente definirei anche un’appendice fuori stagione di Carnevale, o un Carnevale continuo, non è accaduto soltanto che una trentina di ragazzi dissidenti, al grido “sul mio corpo decido io”, abbiano interrotto e impedito di parlare in un convegno sulla natalità alla ministra della famiglia Eugenia Roccella, accusata di non difendere l’aborto disciplinato dalla legge 194.

Sergio Mattarella

Non è accaduto solo che la ministra, allontanatasi per permettere al convegno di proseguire senza la sua contestata partecipazione, sia stata difesa a distanza, con telefonata e comunicato del Quirinale, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, oltre che naturalmente dalla premier Giorgia Meloni ed altri esponenti del governo e della maggioranza.

La ministra Roccella

E’ accaduto anche, o soprattutto, in “un paese sotto sbornia”, per dirla ancora col Foglio, che sotto accusa siano praticamente finiti Mattarella, la Meloni e la stessa Roccella. Che si sarebbe troppo, o troppo presto impermalosita della contestazione assumendo i panni della vittima e guadagnandosi quindi una solidarietà immeritata. O troppo poco meditata.  

Paolo Mieli

         Lo hanno detto alcuni esponenti del Pd dissentendo da altri compagni di partito. Lo hanno ripetuto nel salotto televisivo di Lilli Gruber il più volte ex direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli e Andrea Scanzi, del Fatto Quotidiano. E lamentato il titolista del manifesto scrivendo nel sommario, naturalmente di prima pagina: “Apriti cielo. Lei se ne va e parte un coro sdegnato, cui si unisce il presidente Mattarella: i “censori” sarebbero gli studenti”. E non quindi la Roccella e i solidali con lei, fuori e dentro l’auditorium dove tutto è accaduto, a due passi dal Vaticano e dal Papa, peraltro atteso oggi nello stesso posto, si spera accolto un po’ meglio.

Roberto Gressi sul Corriere della Sera

         Il mio amico Paolo Mieli deve essere rimasto sorpreso leggendo oggi la cronaca commentata del fattaccio scritta da Roberto Gressi sul “suo” Corriere, e pubblicata come editoriale: “A nulla è valso dare la parola ai contestatori, né a nulla è servito che Roccella affermasse che non condivideva il “decido io” sul corpo delle donne, che semmai il problema è che oggi quella libertà è falsamente garantita”. La gazzarra adolescenziale, chiamiamola così, è finita solo quando la ministra, che peraltro aveva aspettato un paio d’ore per cercare di parlare, se n’è andata togliendo il disturbo.

Titolo del Corriere della Sera

         Ho il sospetto che “la bufera” annunciata nel titolo dallo stesso Corriere sia stata più quella del dopo che quella avvenuta fra le quattro mura, diciamo così, dell’auditorium della Conciliazione…mancata. Conciliazione fra diritto di parola, di dissenso e buona educazione personale, civica e persino costituzionale, per riconoscersi nella solidarietà alla ministra espressa da Mattarella.  

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Elly Schlein fra il biliardo e il partito in rischiosi giochi di sponda

Dalla Stampa di ieri

         Da appassionata di biliardo quale è stata appena scoperta il giorno del suo 39.compleanno, grazie a quegli impiccioni di Dagospia, in un bar del quartiere romano di San Lorenzo, vicino al Verano,  la segretaria del Pd Elly Schlein dovrebbe saper calcolare bene gli effetti dei giochi di sponda. Almeno, ripeto, quelli al biliardo perché in politica ne ha appena compiuti alcuni dall’efficacia controversa, stando alle reazioni provocate nel suo partito agitandone vieppiù le acque.

Conte e Landini

         Penso, per esempio, alla firma che ha deciso di aggiungere alla proposta di un referendum abrogativo del cosiddetto Jobs act del governo di Matteo Renzi, allora anche segretario del Pd. Una firma che lei non si limita ad opporre, come si è visto in una recente manifestazione, ma disegna con vigorosi tratti di penna. Così lei ha fatto da sponda al segretario della Cgil Maurizio Landini, promotore dell’’iniziativa referendaria, e a Giuseppe Conte. Che l’ha preceduta  nell’adesione  contemporaneamente da leader di quel che rimane delle cinque stelle di Bebbe Grillo e da suo concorrente, se non vogliamo chiamarlo rivale, alla guida di una coalizione -se mai riuscirà a realizzarsi davvero-  in grado di risultare competitiva contro il centrodestra di Giorgia Meloni. O solo di Giorgia, come la leader della destra preferisce essere chiamata a Palazzo Chigi ma soprattutto nelle piazze, e votata nei seggi elettorali.

Dario Franceschini

         L’ex ministro Dario Franceschini, uno o il principale dei suoi sponsor nella corsa al Nazareno, questa volta non ha fatto finta di niente ed ha tenuto ad annunciare che lui non firmerà per quel referendum contro una legge che a suo tempo condivise. E che è stata difesa, proprio reagendo all’annuncio della firma della Schlein, dall’ex ministra Marianna Madia, a suo tempo responsabile della materia nel Pd.

Giorgi Meloni

         Di sponda con Conte, e anche con Landini che da leader sindacale si occupa pure di premierato e dintorni avvertendo puzza di fascismo o di “capocrazia”, come la chiamano il costituzionalista Michele Ainis e seguaci o tifosi; di sponda, dicevo, con Conte e anche con Landini la biliardista Schlein ha promosso per il 2 giugno, festa notoriamente della Repubblica, una manifestazione contro l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Dalla quale la Meloni invece ha appena annunciato di non volere per alcun modo recedere, pronta ad affrontare l’eventuale referendum cosiddetto confermativo.

Giorgia Meloni e Jens Stoltenberg

Non so se in questo suo proposito di lotta, insieme di difesa della sua proposta di riforma costituzionale e di contrattacco  agli avversari, la premier abbia chiesto aiuto anche al segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, distraendolo dalle incombenze della guerra in Ucraina, nell’incontro avuto con lui  ieri a Palazzo Chigi.

         A parte l’incontro realmente avvenuto, scherzo naturalmente. E’ bene precisarlo in questo paese, o in questo momento, in cui anche lo scherzo può essere pericoloso.

La scommessa di Giuseppe Conte sulla riedizione di “mani pulite”

Da Libero

          La dice lunga il carattere non sindacale ma orgogliosamente “culturale e costituzionale”, e quindi irriducibile, dell’opposizione alla riforma della giustizia annunciata al guardasigilli Carlo Nordio dal presidente dell’associazione nazionale dei magistrati, Giuseppe Santalucia in un incontro dettato non so se più dalla preparazione del disegno di legge del governo o dalla vigilia del congresso nazionale delle toghe.

Giuseppe Santalucia

A quest’ultimo è stata peraltro confermata con comprensibile compiacimento dallo stesso Santalucia la presenza ormai abituale del capo dello Stato, ma anche del ministro una volta di Grazia e ora solo di Giustizia, nel clima politico creatosi col crollo giudiziario della cosiddetta prima Repubblica. Nel clima cioè del “forte squilibrio” nei rapporti fra magistratura e politica, a vantaggio della prima, certificato da Giorgio Napolitano al Quirinale. Quando egli scrisse una coraggiosa lettera alla vedova di Bettino Craxi colpito con “severità senza uguali” per il fenomeno generalizzato del finanziamento irregolare, anzi illegale della politica.

Dal Secolo XIX di Genova

           D’altronde, quel finanziamento anche quando è diventato regolare, e legale, con tanto di registrazione nei bilanci di chi dà e di chi riceve -come ha appena sperimentato il governatore della Liguria Giovanni Toti finendo agli arresti domiciliari per corruzione- si presta ad essere letto e interpretato nei modi più diversi, anche criminogeno. Poi saranno i processi, di vario grado, a giudicarli. Intanto si svolgono con rito immediato e sommario i processi mediatici, con la gogna degli imputati. Poi assolti di frequente a babbo morto, diciamo così.

Dalla prima pagina della Stampa

             L’opposizione -ripeto- “culturale e costituzionale” dei magistrati alla riforma della giustizia pur ancora in cantiere governativo si svolge in coincidenza con un’offensiva giudiziaria contro la politica che spazia dal sud al nord, dalla Sicilia al Piemonte, dalla Puglia alla Liguria. E chissà dove altro sino alle elezioni europee dell’8 e 9 giugno, cui ne seguiranno altre di livello diverso già quest’anno e in quello prossimo. Elezioni e relative campagne tutte condannate, volenti o nolenti, ad essere condizionate dalle cronache giudiziarie.

             Rispetto all’offensiva di più di 30 anni fa, quella delle enfatiche “mani pulite” di rito ambrosiano e derivati, questa in corso sembra condotta con più accortezza o furbizia, investendo oggi il centrodestra e ieri il presunto o effettivo centrosinistra, o come altro lo si voglia o possa chiamare, e domani di nuovo il centrodestra. Ma di turno c’è sempre un beneficiario quanto meno aspirante.

  L’altra volta toccò alla sinistra nominalmente post-comunista, che pensò -peraltro illudendosi- di salvarsi dal crollo del muro di Berlino e di tutto il resto spingendo o comunque vedendo in galera o in fuga gli avversari. Questa volta tocca a ciò che resta del grillismo guidato da Giuseppe Conte, candidato autolesionisticamente già dal Pd fra il 2019 e il 2020 alla guida dei “progressisti”, addirittura. Egli è in vantaggio rispetto alla concorrente Elly Schelin per il totale controllo che ha del suo vascello, salvo sorprese del “garante” restituitosi per ora al teatro in senso stretto, peraltro consulente a contratto del movimento che si era proposto di portarci fra le stelle. E ci ha invece sprofondato nelle stalle di conti impazziti per le esperienze del reddito di cittadinanza e dei superbonus edilizi.  

Silvio Berlusconi nel 1994

             Anche Conte potrebbe tuttavia svegliarsi o ritrovarsi spennato come l’ex Pci degli anni Novanta. Che fu sorpreso da Silvio Berlusconi. Ora Conte deve vedersela non tanto con la concorrente del suo campo, la già ricordata Schlein, quanto con una tosta avversaria come Giorgia Meloni. Che è molto meno vulnerabile, per tante ragioni, anche di genere e di anagrafe, della buonanima di Berlusconi.

  Dovrebbero pensarci un po’ sopra anche quei magistrati -non importa quanti di numero e d’altro- che più o meno consapevolmente stanno facendo sognare il “Giuseppi” di vecchia e rinnovata memoria trumpiana. Essi potrebbero entro questa stessa legislatura scoprire che in fondo fanno molto meno paura dei loro colleghi di oltre trent’anni fa. I quali mobilitavano piazze e magliette ora prese da altri problemi. O sommerse da quel nulla che è o rappresenta il partito dell’astensionismo, in testa a tutte le classifiche elettorali, reali o virtuali che siano, tra risultati   effettivi e sondaggi, o “intenzioni di voto”.

Pubblicato su Libero

Ma questa giudiziaria in corso da sud a nord è un’altra guerra

Dal Dubbio

Come per le guerre all’estero e le loro connessioni, chiamiamole così, per esempio fra Ucraina e Gaza, così per le guerre interne, pur senza il sangue delle altre, rischiamo di perderne il conto.

         Stavo leggendo le cronache giudiziarie dalla Liguria, con l’arresto del governatore Giovanni Toti e tutto il resto, e riflettendo sui curiosi tempi di una, anzi più indagini di quattro anni che hanno sorpreso anche un esperto come il ministro della Giustizia ed ex magistrato Carlo Nordio, quando sono stato raggiunto dalla notizia dell’incontro fra lo stesso Nordio e il presidente dell’associazione nazionale dei magistrati Giuseppe Santalucia sulla riforma della giustizia in cantiere fra Palazzo Chigi e via Arenula.  Essa prevede di sicuro la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, la divisione del Consiglio Superiore in due sezioni, un’alta Corte per i procedimenti disciplinari riguardanti i magistrati, che ora vi provvedono direttamente e da soli, forse anche un intervento sulla obbligatorietà dell’azione penale sancita dalla Costituzione.

Giuseppe Santalucia, presidente dell’associazione nazionale dei magistrati

         Con una franchezza in ogni caso apprezzabile, da preferire a frasi e formule ambigue, il presidente del cosiddetto sindacato delle toghe ha dichiarato di avere annunciato al guardasigilli una “opposizione culturale e costituzionale” della sua categoria. Una opposizione cioè politica –“non sindacale”, ha riconosciuto Santalucia-  alla riforma in arrivo come proposta del governo. Un’opposizione politica condotta in una sede non politica, non essendo l’associazione dei magistrati un partito, né rappresentato in Parlamento né extra-parlamentare.  

Tanto alla Camera quanto al Senato l’associazione dei magistrati si affida evidentemente al sostegno che la sua opposizione riuscirà a trovare, o meritarsi, nei e fra i gruppi parlamentari.

         Se tutto questo sia regolare o opportuno francamente non so. E’ sicuramente ordinario, entrato cioè nelle abitudini consolidate, aggravate dalla circostanza che i magistrati hanno di avere, dietro l’apparenza della estraneità, sostanzialmente una doppia rappresentanza, indiretta e diretta. Indiretta con la pratica appunto dei collegamenti con i partiti e rispettivi gruppi parlamentari, diretta con il notissimo distaccamento di tante toghe presso uffici del governo, Ministeri e quant’altro, dove si confezionano i disegni di legge, i decreti legge, i decreti delegati eccetera, E dove si stendono anche le modifiche che maturano nel percorso parlamentare dei provvedimenti.

         Già messa così, la situazione appare, anzi è molto complessa, a dir poco. Ma essa diventa imbarazzante o inquietante, sempre a dir poco, quando l’annunciata “opposizione culturale e costituzionale” dell’associazione dei magistrati ad una riforma in gestazione, o a quelle già all’esame del Parlamento, si somma, s’intreccia, si contorce con una miriade di iniziative giudiziarie, più o meno clamorose che siano, dalla Sicilia al Piemonte, dalla Puglia alla Liguria e domani chissà dove. Iniziative che, condotte a carico dei politici e, più in generale, di una politica sospettata e accusata di banale o criminale commercio di favori, più o meno inevitabilmente si sovrappongono anche alle campagne elettorali che non mancano mai in un Paese dove c’è sempre qualche organo rappresentativo da rinnovare.

         Quali sono -mi e vi chiedo-i rapporti fra queste iniziative, prese singolarmente o nel loro complesso, e l’opposizione -ripeto- di natura culturale e costituzionale, cioè politica e non sindacale, non solo esercitata ma ora anche rivendicata dal presidente dell’associazione nazionale dei magistrati?  Che peraltro è alla viglia di un congresso al quale è stata assicurata la rispettosa presenza della politica ai livelli anche massimi del presidente della Repubblica e del ministro della Giustizia.

Giorgio Mulè, vice presidente della Camera

         La domanda che mi sono posta e vi ho girato come lettori nasce pure da un allarmato appello appena lanciato dal vice presidente della Camera Giorgio Mulè, di Forza Italia, ai politici di ogni colore a svolgere il loro mandato di parlamentari, e riformatori anche della Costituzione, senza lasciarsi intimidire dalle proteste di chi si sente colpito. Se non è una guerra anche questa, poco francamente le manca.

Pubblicato sul Dubbio

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Dall’alba manettara di Genova alla solita, sadica gogna mediatica

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

         Altro che lo “choc in Liguria” annunciato dal Corriere della Sera dopo l’arresto del “governatore” di centrodestra Giovanni Toti, e più o meno amici, per corruzione. O il “terremoto” preferito nella titolazione da altri giornali per dare una forza, diciamo così, sismica all’iniziativa dei magistrati spezzini e genovesi. Che lavorano da quattro anni attorno a un pentolone esploso -guarda caso, non unico- a un mese da elezioni in tutta Italia, stavolta per il rinnovo del Parlamento europeo.

Dalla prima pagina dell’Unità

         Vedremo di quanti anni avranno bisogno Toti e gli altri finiti nel pentolone per essere regolarmente processati e giudicati, magari assolti com’è accaduto ad altri “governatori” di vario colore politico che sono già passati per la stessa esperienza in Umbria, Basilicata e Calabria. E soprattutto vedremo, come ha titolato Piero Sansonetti sulla sua Unità, “chi sarà il prossimo” a cadere più o meno all’alba, secondo i riti della Tangentopoli di una trentina d’anni fa, sotto i colpi della magistratura in pendenza elettorale.

Dalla prima pagina del Fatto Quotidiano

         I quattro anni d’indagine, e di lontananza dai fatti, sono significativamente, sospettosamente lunghi quanto i cinque mesi che ha impiegato l’ufficio del giudice competente ad evadere la richiesta di arresto domiciliare di Toti. Tutti tempi, questi, su cui si è pubblicamente interrogato anche il ministro della Giustizia, ed ex magistrato, Carlo Nordio incorrendo per i suoi dubbi, o la sua curiosità, nelle solite proteste di quanti preferiscono non porsi questi problemi e gustarsi con voracità la gogna anticipatrice del processo. Una gogna come quella, per esempio, che si trova nel titolo scelto per l’apertura del suo Fatto Quotidiano da Marco Travaglio: “Toti ottiene il terzo mandato. Di cattura”.

Sempre dal Fatto Quotidiano

         Come si fa con i cani quando si decide di bastonarli a morte, Travaglio ha insistito con il suo editoriale scrivendo testualmente del malcapitato: “Ora che Giovanni Toti sì è guadagnato il meritato terzo mandato (quello di cattura), l’unico stupore è che fosse rimasto a piede libero così a lungo. Mancava solo lui nella foto di gruppo degli ex-allievi della scuola berlusconiana di furto con scasso e/o mafiosità finiti in manette: Previti, Formigoni, Galan, Brancher, Verdini, Dell’Utri, Cuffaro, Cosentino, Matacena, D’Alì (altro che rimpiangere B.”.

Dal Secolo XIX

         Di rinforzo a Travaglio è sceso in campo sul Secolo XIX di Genova Stefano Rolli con la sua vignetta di giornata, dove Berlusconi si gode dall’aldilà lo spettacolo rammaricandosi di avere “sottovalutato” in vita il suo ex consigliere, e per qualche ora persino delfino.

Massimo Gramellini sul Corriere della Sera

         Tanto livore nella rappresentazione delle vicende giudiziarie può apparire in contrasto con la reazione comune avvertita sulla prima pagina del Corriere da Massimo Gramellini scrivendo di “vabbeismo”, di gente cioè ormai abituata a certe cronache e sostanzialmente indifferente. Il filo che unisce il sarcasmo e il “vabbeismo” è l’antipolitica, che temo debba alla magistratura molto più che alla cattiva politica in attesa di giudizio.

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Lo sciopero (politico) in Rai caduto rovinosamente dal cavallo

Da Libero

Ai mei tempi -che brutto inizio, lo so, ma sono gi inconvenienti dell’età, e relativa esperienza- capitava di raccogliere lamenti e sfoghi privati di leader autorevoli di partiti al governo contro gli inconvenienti della lottizzazione della Rai. Che pure essi erano accusati di praticare dalle opposizioni, almeno fino a quando anch’esse non furono ammesse ai suoi riti, benefici e costi.

         Si lamentavano i signori del governo, chiamiamoli così, di essersi occupati e di occuparsi ancora troppo dei vertici giornalistici -direttori, vice direttori, caporedattori eccetera- dei telegiornali pubblici e simili e troppo poco delle redazioni. Che alla fine risultavano sempre più affollate di giornalisti ostili. I quali erano capaci per numero, ma qualche volta anche per qualità, di condizionare i superiori e rendere loro la vita difficile, persino impossibile.

         Nel raccogliere i loro lamenti, a commento di questa o quella cattiva sorpresa riservata da qualcosa di non gradito appena visto a un telegiornale o ascoltato a un giornale radio, io cercavo di consolare i lottizzatori sfortunati dicendo che in fondo ciò che accadeva in Rai si ripeteva, sia pure in forma forse ridotta, nei giornali stampati. E poi anche nelle redazioni televisive private, a cominciare da quelle del Biscione. Dove l’editore e allora mio amico Silvio Berlusconi si accorgeva ogni tanto di qualche “comunista” -diceva- sfuggito all’attenzione sua e degli amici fidati e fedeli al momento dell’assunzione, o selezione.

         Quando capitò anche a me di collaborare alla Rai, su proposta -lo confesso- di un consigliere d’amministrazione che mi venne a trovare personalmente nella redazione romana del Giornale fondato e diretto ancora da Indro Montanelli, mi accorsi personalmente della realtà lamentata dai lottizzatori di più vecchia data. E me ne andai, preferendo la tv privata e infine la vecchia, cara carta stampata, quando mi accorsi della fatica di Sisifo nella quale rischiavo di perdermi.

         Con il primo di non ricordo più quanti scioperi giornalistici programmati alla Rai contro la cosiddetta Telemeloni, e conclusosi in canti opposti di vittoria fra chi vi ha aderito e chi è stato accusato di averlo boicottato, mi sembra francamente che le cose siano cambiate rispetto -ripeto- ai miei tempi. Lo scrivo con tutti i benefici naturalmente del solito, prudente inventario. Ma col conforto di uno sicuramente più pratico di televisione e di Rai di me come Giovanni Minoli. Che ha avvertito nei due telegiornali su tre andati più o meno regolarmente in onda una piccola replica della caduta del muro di Berlino del 1989.

La sigla del Tg1 “crumiro”

         Evidentemente le redazioni sono, o sono diventate, più governabili di prima. Non a caso, del resto, è finito il monopolio sindacale dei giornalisti della Rai. La cui maggiore organizzazione non si accorge -cieca come Dio sa rendere quelli che vuole perdere, secondo un vecchio proverbio- di quanto si denudi da sola proclamando l’ottanta per cento della partecipazione ad uno sciopero del quale la stragrande maggioranza del pubblico non si è accorto, salvo che per la lettura dei comunicati di protesta contro l’azienda, e di difesa di quest’ultima, fortunatamente ancora ammessa a questo diritto.

La sigla del Tg2 “crumiro”

         La ciliegina sulla torta, chiamiamola così, è stata messa dalla insospettabile Repubblica, sostenitrice della protesta, sovrapponendo la parola “Politica”, come occhiello, al titolo di prima pagina dedicato allo sciopero nell’azienda di viale Mazzini presidiata dal famoso cavallo di bronzo.  E’ stata quindi una partita tutta esclusivamente politica. Di sindacale non c’è stato praticamente nulla. E non serve certamente a ravvivarne lo spirito la regressione del linguaggio, e della polemica, con quel grido di “crumiri” lanciato contro quanti legittimamente non hanno aderito allo sciopero ed hanno preferito onorare in altro modo, diciamo così, il servizio pubblico al quale sono preposti. E di cui sono forse in troppi a riempirsi la bocca salendo sulle barricate non tanto contro un’azienda quanto contro uno scenario politico non previsto, non desiderato e prevedibilmente non rovesciabile in questa -per loro- dannata, fottutissima legislatura. Che rischia di smentire anche il passato di una, anzi più riforme costituzionali destinate a non superare il vaglio referendario. Un futuro diverso sarebbe semplicemente l’Apocalisse per lor signori, alla rovescia rispetto a quelli sfottuti dell’indimenticabile Fortebraccio sull’Unità dell’ancora florido Pci.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it l’11 maggio

La Rai denudata dallo sciopero fallito dei giornalisti pur numerosi nella protesta

Dalla prima pagina di Repubblica

Sullo sciopero dei giornalisti alla Rai la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità -si direbbe in tribunale- è scappata al giornale –la Repubblica– che l’a maggiormente sostenuto. E l’ha raccontato in un richiamo in prima pagina con un titolo sovrastato da un occhiello, come si chiama in gergo tecnico, che di solito serve un po’ a catalogare l’evento. Ebbene, l’occhiello è di una sola parola, in giallo pallido: Politica.

E’ stato appunto un evento non sindacale. Uno sciopero proclamato e condotto per politica. Uno sciopero di opposizione politica- ripeto- contro una Rai liquidata come “TeleMeloni”, così come era “Tele Renzi” quando l’allora presidente del Consiglio la riformò sottoponendola direttamente al governo e non al Parlamento, e poi “TeleGentiloni” “TeleLetta”, da Enrico a Palazzo Chigi, “TeleConte”, “TeleDraghi”. E domani ancora “TeleMeloni”, non vedendosi ancora all’’orizzonte un’alternativa realistica al governo in carica da un anno e mezzo, formato dopo regolari elezioni, non dopo una marcia su Roma ripetitiva di quella di 100 anni prima, e sostenuto dalla fiducia del Parlamento.

Dal Foglio

         La “Rai scioperata”, secondo il solito e pungente titolo del Foglio, è apparsa improvvisamente, direi spietatamente nuda agli occhi dei suoi spettatori, o pubblico. Una Rai in cui avrebbe scioperato, secondo i dati del sindacato promotore, ben l’ottanta per cento dei giornalisti, annunciato con orgoglio particolare nel salotto televisivo di Lilli Gruber a la 7- e dove sennò?- ma dove hanno potuto andare regolarmente in onda due telegiornali su tre. Il che  potrebbe avere fatto pensare al contribuente del canone che nell’azienda sorvegliata dal cavallo morente di viale Mazzini vi è forse una certa sovrabbondanza di personale. E infatti le televisioni private forse neppure messe tutte insieme raggiungono i duemila giornalisti, e rotti in più o in meno, dipendenti dalla Mamma Rai che proprio in questo 2024 festeggia i suoi 70 anni di trasmissioni televisive.  

Dal Tempo

         La già ricordata Lilli Gruber e Il Fatto Quotidiano, non a caso l’ospite forse più frequente di quel semiaristocratico salotto asburgico, hanno attribuito il demerito -secondo loro- dei telegiornali andati lo stesso in onda ai “crumiri”, cioè ai legittimi dissidenti dallo sciopero. Uno che di Rai d’intende per avervi lavorato a lungo, Giovanni Minoli, in una intervista al Tempo ha invece applaudito al crollo di un altro “muro”, dopo quello di Berlino nel 1989. Il muro del sindacato unico e del conformismo nell’azienda pubblica dell’informazione e dello spettacolo. E’ questione, naturalmente, di gusto, oltre che di competenza.

         Un favore alla Rai scioperata -ripeto col Foglio– l’hanno fatto i giornali che l’hanno ignorata sulle loro prime pagine: dall’Unità alla Gazzetta del Mezzogiorno, al Riformista, al Dubbio e al manifesto. La cui carità è pari solo all’ostinazione con la quale si sente e si dichiara “quotidiano comunista”.

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Quando si ha paura di chiamare le cose col loro nome

Amintore Fanfani

C’erano una volta le parole “magiche”, come nella ormai lontana prima Repubblica le chiamava Amintore Fanfani contestandole. A cominciare dal “confronto”, che Ado Moro, l’altro cavallo di razza della Dc, aveva adottato come testata di una sua agenzia di stampa dopo avere teorizzato la famosa “strategia dell’attenzione” verso il Pcii. Al quale  gli “amici” dorotei avevano proibito di aprire nei primi governi di centro-sinistra, salvo offrire all’opposizione comunista una maggioranza “più incisiva e coraggiosa” purchè guidata a Palazzo Chigi da uno di loro, in particolare Mariano Rumor.

Aldo Moro

         Fanfani dalla presidenza del Senato, dove si era attestato per meglio cercare di scalare il Quirinale, senza tuttavia riuscire a raggiungerlo, replicava a Moro che il confronto è insito nel Parlamento, dove si va appunto per confrontarsi.

         Un’altra parola magica che Fanfani contestava era la “irreversibilità” applicata da Moro al centrosinistra, senza più il trattino. Tutto è reversibile fuorchè la morte, gli replicava l’antagonista a costo di tradire la sua fede cristiana, che contempla la resurrrezione.

         Oggi le parole magiche che Fanfani forse contrasterebbe sono quelle, diciamo così, a rovescio. Che si pronunciano per sostenere la impraticabilità di certe decisioni o condizioni, che invece appartengono alla realtà delle cose.

La guerra in Ucraina

         Una di queste parole, per esempio, è a guerra. Nella quale il ministro degli Esteri e quello della Difesa, Antonio Tajani e Gudo Crosetto, per non parlare di Matteo Salvini, hanno assicurato di non sentirsi nei confronti della Russia di Putin, contro cui invece il presidente francese Emmanuel Macron non ha escluso di inviare truppe se davvero l’Ucraina dovesse rischiare di essere travolta anche con i nuovi aiuti militari e i finanziamenti che le stanno arrivando dall’Occidente. Pur se Giuseppe Conte, Michele Santoro e tutti gli altri al seguito ne parlano come di una sciagura vietata dalla Costituzione, è francamente difficile -o quanto meno ipocrita- negare che in guerra con Putin ci siamo già. Purtroppo in una condizione obbligata, in cui la Russia putiniana ha messo tutto l’Occidente scegliendo la guerra, appunto, originariamente camuffata come “operazione speciale” di polizia per confrontarsi -direbbe la buonanima di Moro-con l’Ucraina addirittura da “denazificare”.

         Un’altra parola magica al rovescio è il referendum. Che il melonianissimo deputato Giovanni Donzelli ha appena escluso, parlandone con La Stampa, fra i progetti, propositi e simili della premier. Che invece vi è quotidianamente immersa con la candidatura -legittima, per carità- al Parlamento europeo, annunciata espressamente per verificare la popolarità sua, facendosi votare Giorgia e basta, e del governo che guida. Un referendum che si ripeterà inevitabilmente, anche se negato a parole, quando la riforma del cosiddetto premierato arriverà al pettine della verifica elettorale, essendo prevedibile la mancanza parlamentare necessaria per evitarlo.

Toga giudiziaria

         Donzelli ha anche escluso guerre o simili con i magistrati per la riforma della giustizia appena impostata a Palazzo Chigi con la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, la divisione del Consiglio Superiore della Magistratura in due sezioni, ad una delle quali si potrebbe arrivare col sorteggio, e il ricorso ad un’alta Corte per i procedimenti riguardanti le toghe. Ma quando questo progetto viene definito “assalto” dal presidente dell’associazione nazionale della categoria, almeno come gli ha fatto appena dire Repubblica nel titolo di una intervista, è difficile che il governo possa sottrarsi allo scontro.

         E’ la politica, bellezza. Come la stampa.

Pubblicato sul Dubbio con la firma sbagliata di Paolo Delgado

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