Il ritorno non esaltante di Massimo D’Alema sui giornali

         Graziato, cioè ignorato, sulla prima pagina del Riformista persino da Matteo Renzi, che pure ne volle nel Pd la rottamazione più clamorosa e in fondo riuscita, Massimo D’Alema è tornato sulle prime pagine dei giornali come indagato a Napoli, insieme con Alessandro Profumo ed altri, per presunta corruzione internazionale in un affare, peraltro mancato, di colossali forniture militari italiane alla Colombia.

         I quotidiani più acidi, prevenuti e quant’altro nei riguardi dell’ex presidente del Consiglio, l’unico esponente dell’ex Pci riuscito ad arrivare a Palazzo Chigi, sia pure per poco tempo, presiedendo due governi in meno di due anni, fra l’ottobre del 1998 e l’aprile del 2000, sono stati quelli d’area di un centrodestra che pure sventola di solito la bandiera del garantismo. “Indagato per corruzione- Il “cartello” di D’Alema”, ha sparato  in rosso e nero su tutta la prima pagina Il Giornale ancora in parte della famiglia Berlusconi. “I sacerdoti della tripla morale” è il titolo dell’editoriale di Augusto Minzolini.

         Eppure, almeno da quello che mi risulta privatamente, il messaggio più caloroso di auguri ricevuto da Berlusconi nelle scorse settimane tornando a casa dopo 45 giorni di ricovero in ospedale, in gran parte trascorsi in terapia intensiva, è stato quello di D’Alema. Che Berlusconi a suo tempo aveva preferito ad altri esponenti della sinistra alla presidenza di una delle varie commissioni bicamerali succedutesi per la riforma costituzionale, prima di bloccarne a sorpresa i lavori pur arrivati ad una bozza di progetto presidenzialista, proprio come voleva il Cavaliere.

         Dirò di più, e questa volta anche di pubblico, essendo stato raccontato una volta dallo stesso D’Alema. Che, in particolare, rivelò dopo una delle corse al Quirinale durante la cosiddetta seconda Repubblica di avere ricevuto una telefonata nella quale Berlusconi gli aveva confessato di stimarlo a tal punto da essere tentato di votarlo come capo dello Stato, ma di esservi trattenuto dalla paura di deludere troppo il proprio elettorato.

         Fra i consiglieri – allora ma forse anche oggi, pur da posizioni politiche diverse-  che spingevano di più su Berlusconi per quel voto c’era il suo ex ministro per i rapporti col Parlamento Giuliano Ferrara. Sul cui giornale però –Il Foglio– è ancora fresco di stampa il commento più abrasivo alle indagini in cui è incorso D’Alema, “scambiato per Machiavelli e invece era Totò”, come dice il titolo di apertura, in turchese, assegnato ad un lungo articolo di Salvatore Merlo. Che ha visto negli affari dell’ex leader comunista l’ombra del Totò di un vecchio film non sapendo tuttavia spiegare se D’Alema si fosse messo in testa più di vendere o di acquistare la Fontana di Trevi, a Roma.

         E’ davvero una brutta bestia la politica, e la stampa che se ne lascia condizionare o addirittura ambisce a indirizzarla. Non so se commiserare più D’Alema per il modo in cui è tornato sui giornali o i suoi ex estimatori ora impegnati a demolirne ciò che resta.

Quel disastro politico per il Pd chiamato semplicemente Elly Schlein

         Fabrizio Roncone racconta sul Corriere della Sera, dopo aver fatto un giro al Nazareno e sentito altrove un po’ di esponenti del Pd sulle condizioni di salute politica, diciamo così, della nuova segretaria: “Elly sa tutto. Ha visto e letto tutto. Le hanno spiegato tutto. Perciò adesso la domanda che rimbonba nel partito -cento giorni dopo la vittoria alle primarie- è: Elly Schlein ha capito? O meglio: vuole capire che così, con questa agenda movimentista e ambigua, piena di slogan e sostanziale vaghezza, non andiamo da nessuna parte?”. Non a caso, del resto, il Pd ha appena perduto il corposo turno di elezioni amministrative di maggio.

         Roncone riferisce inoltre delle “tremende occhiate tra stupore e delusione, i sospiri rassegnati –“Vabbé, comunque è chiaro che ora dobbiamo tenercela fino alle elezioni europee”- di tanti che invece l’hanno accompagnata fin qui”.

         E ancora, sempre Roncone sul Corriere di oggi: “La scongiurano: ascoltaci. Il grande saggio del partito, Luigi Zanda: “Si lasci aiutare”. Il potente Goffredo Bettini (sì, tranquilli: vedrete che nel Pd resta potente) ….L’autorevole Andrea Orlando, definitivo: “C’è un partito da costruire”. Gianni Cuperlo: “La segreteria di Elly non è frutto di spirito unitario” (elegante eufemismo). Struggente lettera a Repubblica di Morani/Di Salvo/Fedeli/Rotta: “Il Pd non deve diventare massimalista”.

         Conclusione, per non riportare per intero il rapporto dell’inviato del Corriere: “Nella sede del Nazareno si vede poco (non ha ancora arredato il suo ufficio, al terzo piano). A Montecitorio si vede pure meno…..i militanti dem bolognesi sono furibondi: “E’ irreperibile”. Il timore di molti è che il suo programma sia proprio solo quel nome così esotico (nemmeno più il suo trench, perché andiamo verso l’estate)”.

          La musica su e di altri giornali, anche di segno opposto, non è diversa. Marco Travaglio scrive sul FattoQuotidiano, sempre oggi, che la Schlein e, più in generale,” le opposizioni e il poco che resta di stampa libera …dovrebbero selezionare i bersagli, evitando di gridare al fascismo o alla svolta autoritaria qualunque cosa faccia il governo per evitare l’effetto “al lupo al Lupo”, essendo evidente che “se tutto è fascismo nulla è fascismo”.

         Matteo Renzi sul suo Riformista scrive che “il miglior amico di Giorgia è chi dice”, come ha appena detto anche la Schlein, ”che se cambiano le regole di controllo sulla Corte dei Conti torniamo al Ventennio. Il migliore amico di Giorgia è chi definisce il governo “illiberale” solo perché non la pensa come Magistratura Democratica. Il migliore amico di Gorgia è chi vede i saluti romani anche alle sfilate del 2 giugno, Il miglior amico di Gorgia è chi attacca la frase sul “pizzo di Stato” e subito dopo chiede la patrimoniale. Il migliore amico di Giorgia è chi sogna una sinistra talmente di sinistra da stare all’opposizione per 30 anni”. Migliore amico, in fondo, dello stesso Renzi che così dettagliatamente la difende.

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Il traguardo europeo che gli avversari vogliono precludere a Giorgia Meloni

Protetto dal suo stesso cognome dal rischio di essere cassato, a 87 anni pur non ancora compiuti il povero Sabino Cassese non ha potuto evitare il sarcasmo per l’abitudine che ha preso di non partecipare alla demonizzazione di Giorgia Meloni. Che tutto ormai inseguirebbe e travolgerebbe, anche fuori dalla sua fortezza di Palazzo Chigi: persino nel Quirinale del sobrio e forse troppo paziente Sergio Mattarella, che l’ha aiutata a sentirsi a casa anche sul colle più alto nel settantasettesimo compleanno della Repubblica. All’ottantatreesimo, nel 2029, le potrebbe addirittura capitare di essere lei la presidente, avendo nel frattempo superato la soglia minima dei 50 anni prescritta dalla Costituzione.

         Alle imprudenze, chiamiamole così, già commesse non vedendo necessariamente del male in tutto ciò che fa, dice e spera la prima premier italiana, per giunta di destra, anzi considerando “benedette” tutte le sorprese che la Meloni sta riservando come atlantista ed europeista, Cassese ha voluto aggiungere anche quella di non correre alla Corte dei Conti per difenderne sede e inquilini da quella specie di assalto compiuto dal governo per ritorsione contro giudizi e previsioni  critiche sul  modo in cui esso sta gestendo il piano di ripresa e di resilienza.

         A quel punto il pur emerito professore, ministro, giudice costituzionale è diventato sul Fatto Quotidiano –e dove sennò?- il “badante giuridico adottato” dalla Meloni, una macchietta logorroica meritevole di “almeno tre” dei famosi aforismi di Leo Longanesi elencati in quest’ordine: “Non capisce nulla, ma con grande autorità e competenza. Non bisogna appoggiarsi troppo ai principi perché poi si piegano. La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: ho famiglia”.

A quest’ultimo proposito, non a caso la famiglia più o meno allargata della Meloni è già caduta sotto inchieste giornalistiche che qualcuno probabilmente spera si possano tradurre prima o poi anche in inchieste giudiziarie. Stupisce anzi, con tutto ciò che stiamo vivendo da più di trent’anni a cavallo tra cronaca politica e giudiziaria, appunto, che non vi siamo già arrivati nel caso della presidente del Consiglio, della madre, della sorella, delle sorellastre, del cognato, degli amici o soci di un padre poco o per niente raccomandabile, perduto già prima, molto prima della morte fisica.

                  Ciò che gli avversari della Meloni -senza il minimo rimorso di non averla sentita arrivare, come dice Elly Schlein di se stessa dopo avere conquistato il Pd e averlo portato ai primi bagni elettorali- avvertono ora con una ossessione anche maggiore di quella mostrata nello scorso autunno, per la coincidenza fra il suo arrivo a Palazzo Chigi e il primo centenario della marcia fascista su Roma, è la possibilità che la premier riesca a conquistare dall’interno persino l’Unione Europea. E farne, con una nuova maggioranza nel Parlamento di Strasburgo che sarà eletto l’anno prossimo, quello che l’ex direttore dell’Espresso Carlo Damilano ha definito “un saloon” su Domani, il giornale che Carlo De Benedetti si è regalato per consolarsi della Repubblica perduta dai figli prima ancora di venderla.

                  Un centrodestra anche in Europa appena auspicato pure da Silvio Berlusconi, con i conservatori orgogliosamente guidati a livello continentale proprio dalla Meloni al posto dei socialisti nell’alleanza coi popolari della ex cancelliera Angela Merkel e di alcuni dei suoi illustri predecessori, da Adenauer a Kool, sarebbe “dominato dai rapporti di forza”. Come se ciò non fosse già accaduto sino ad ora, con la forza appunto ottenuta dai vari partiti nelle competizioni elettorali nelle quasi si sono misurate. Uno strano saloon, a dir poco.

                  Ciò che sgomenta di questi e analoghi ragionamenti o rappresentazioni è pure la pretesa di addebitare la colpa, la responsabilità maggiore, chiamatela come volete, di un centrodestra anche in Europa alla destra -l’odiata destra- e non anche al centro benedetto e santificato se alleato con la sinistra. E’ come se in Italia all’epoca in cui maturarono le condizioni della nascita del centro-sinistra, prima col trattino e poi senza, i liberali di Giovanni Malagodi che ne fecero le spese se la fossero presa non con i democristiani, ai quali il Pli nel 1963 riuscì a sottrarre un bel po’ di voti proprio in vista di quella svolta, ma con i socialisti di Pietro Nenni. Che avevano fatto alla luce del sole il loro gioco politico liberandosi dell’asfissiante abbraccio con i comunisti tradottosi nel fronte popolare sconfitto nel 1948. E quel gioco il Psi riuscì poi a portarlo avanti con tale coerenza e coraggio di Bettino Craxi da allargare il centrosinistra agli stessi liberali nella formula del famoso pentapartito.

Quella si chiamava ed era democrazia, della quale evidentemente si sono perdute le tracce dopo la caduta della cosiddetta prima Repubblica per scomparsa non delle ideologie, come ci siamo abituati a ripetere da pappagalli, ma semplicemente, o banalmente del buon senso di manzoniana memoria, ricordato in questi giorni di celebrazione dei 150 anni dalla morte del più genuinamente italiano dei nostri scrittori.

Pubblicato sul Dubbio

I due Visco che si guadagnano la riconoscenza di Giorgia Meloni

All’indomani delle “considerazioni finali” -ma finali davvero- del governatore uscente della Banca d’Italia Ignazio Visco, sostanzialmente ottimistiche sulla situazione economica e finanziaria  del Paese, riuscito a crescere più degli altri Stati dell’Unione Europea e persino degli Usa, quel diavolo di Antonello Caporale, del Fatto Quotidiano, è riuscito a rintracciare -credo per telefono- l’ormai disperso e quasi omonimo Vincenzo Visco, a lungo ministro economico fra il 1993 e il 2006, e parlamentare fino al 2008, strappandogli tutt’altre verità e previsioni.

         Anche con Silvio Berlusconi al governo -ha praticamente ricordato il Visco senior, diciamo così, per quanto di soli 8 anni più anziano dell’altro- le strade e piazze d’Italia erano affollate di turisti, i ristoranti pieni di clienti, le agenzie di viaggio sommerse da richieste di notizie e prenotazioni, ma l’allora presidente del Consiglio finì “cacciato” e sostituito da Giorgio Napolitano con una specie di commissario di Bruxelles,Mario Monti, nominato senatore a vita prima o apposta per insediarsi Palazzo Chigi.

         La stessa cosa -par di capire dal ragionamento dell’ex ministro- potrebbe capitare a Meloni, che invece scommette sullo scenario opposto. Che è quello di elezioni europee destinate l’anno prossimo a cacciare via da Bruxelles un bel po’ di politici e burocrati cresciuti in tutti i sensi all’ombra dell’alleanza fra popolari e socialisti. Cui potrebbe seguirne un’altra fra i popolari e i conservatori, in una edizione europea del centrodestra italiano. Dove, è vero, il leader leghista Matteo Salvini mostra qualche resistenza a confondersi con i popolari, e a distinguersi dall’estrema destra con la quale si è abituato a muoversi a Strasburgo. Ma in politica, si sa dai tempi in cui in Italia democristiani e comunisti si annusavano dopo essersi scontrati nelle elezioni, “mai dire mai”.

         Sarà pur vero, come ha detto l’ex ministro, che la Meloni strizza troppo l’occhio agli evasori e sono “pochissimi gli investimenti privati e pubblici”, che c’è una “fuga di massa verso l’estero”, “nessuna capacità di spesa del Pnrr” e “infrastrutture ai minimi termini”, per quanto Salvini -sempre lui- sia sicuro di costruire finalmente il Ponte sullo stretto di Messina. Sarà pur vero che “purtroppo la barca fa acqua ma la destra festeggia”, come ai tempi -ripeto- dell’ultimo governo Berlusconi. E’anche vero tuttavia che la sinistra è messa peggio della destra ed è perciò la prima garanzia di cui dispone la destra per continuare a governare.  

         “La sinistra? Dov’è la sinistra?”, ha chiesto chi pure l’ha a lungo rappresentata in Parlamento e nel governo. “Finora -si è risposto da solo Vincenzo Visco- la vedo rappresentata da notabili ex democristiani. E poi, diciamoci la verità, la sinistra ha perso colpi quando ha scelto di rifiutare la demagogia come elemento caratteristico del proprio discorso pubblico” e “ha affrontato la realtà senza disconoscerla o manipolarla”. Meloni comprensibilmente ringrazia.

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Passano le feste ma non l’ossessione del fascismo in agguato in Italia e ora anche in Europa

         Passano le feste religiose, civili, elettorali, almeno di chi esce vincente dalle urne di turno, gli archivi si arricchiscono di foto che rappresentano plasticamente i cambiamenti intervenuti negli equilibri politici, come quelle di Giorgia Meloni fra giardini e salotti del Quirinale o ai Fori imperiali, incoraggiata dal pubblico prima e dopo la sfilata militare del 2 giugno, ma non cambia la rappresentazione della politica da parte degli sconfitti nell’ultimo rinnovo delle Camere. L’Italia per costoro è sempre sull’orlo di un nuovo fascismo. Anzi, adesso lo è l’intera Europa, dove la Meloni, sempre lei, sostenuta e incoraggiata in Italia da Silvio Berlusconi, persegue un cambiamento delle tradizionali alleanze fra i partiti maggiori per realizzare un centrodestra anche a Bruxelles, attorno alla Commissione esecutiva dell’Ue che sarà formata l’anno prossimo, sostituendo i socialisti con i conservatori accanto ai popolari.

         “Sì, credo sia possibile. Una maggioranza di centrodestra -ha detto Berlusconi al direttore del suo ormai ex Giornale di famiglia parlando, immagino, accanto all’onorevole e convivente Marta Fascina, che lui considera e chiama “moglie”- sarebbe una svolta importante e darebbe nuovo impulso al funzionamento delle istituzioni europee, superando ogni residua forma di scetticismo verso la casa comunitaria. La maggioranza fra popolari, liberali e socialisti, che ha retto le istituzioni europee per molti anni, ha fatto il suo tempo”.

         Di tutt’altro avviso è naturalmente Domani, il giornale del vecchio antagonista di Berlusconi nel campo editoriale e non solo, cioè Carlo De Benedetti. Sul cui quotidiano l’ex direttore dell’Espresso Marco Damilano liquida un’Europa di centrodestra come “un saloon” di sovranisti, in cui varranno come “unica regola i rapporti di forza”, anche a causa del clima creato da Putin. Il quale “perderà militarmente” la sua guerra all’Ucraina ma “vincerà politicamente se il dopoguerra sarà caratterizzato da una distesa di Stati e di leader nazionalisti” nel vecchio continente.

         La paura di un centrodestra vincente anche in Europa nelle elezioni dell’anno prossimo per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo è avvertita naturalmente anche da chi si è abituato a governare a Bruxelles, a livello sia politico sia burocratico. Ciò spiega l’ultima intemerata di due portavoce della Commissione contro il governo italiano, che ha risposto per le rime con un lungo comunicato di Palazzo Chigi, per presunti ritardi o ridotti controlli nella realizzazione del piano di ripresa e risilienza. E’seguita quella che Repubblica ha definito vistosamente una “tregua armata”. E una protesta della consorella Stampa contro la durezza della reazione della Meloni: “un cannone che spara a un passerotto”, ha scritto il direttore Massimo Giannini lamentando anche “i manganelli della destra mediatica che colpiscono compatti, debitamente ispirati dai rispettivi danti causa di Palazzo”.

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Alla premier Giorgia Meloni mancavano solo i Fori Imperiali

Con quella bottiglietta d’acqua sulla bocca come una ragazza allo stadio o in discoteca, sia pure col capo dello Stato Sergio Mattarella che la guardava sorridente e comprensivo come fa con quasi tutti i provvedimenti che gli arrivano al Quirinale da Palazzo Chigi e lui sottoscrive, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni non era proprio al massimo dello stile ieri nella cornice della sfilata militare della festa della Repubblica ai Fori Imperiali. Ma è stata ugualmente la sua felice prima volta in quel posto, e in quel ruolo, forse ancora più protagonista o comunque osservata dello stesso presidente della Repubblica, arrivato marzialmente davanti alla tribuna delle autorità nell’auto scoperta accanto al ministro della Difesa Guido Crosetto, peraltro amico e collega di partito della premier.

         “Chi l’avrebbe mai detto?”, si era chiesta la stessa Meloni arrivando invece a piedi sul posto rispondendo con gesti di saluto e di ringraziamento alla folla che la salutava, per niente convinta di assistere e partecipare a suo modo a quella che oggi il solito Fatto Quotidiano ha definito su tutta la sua prima pagina la Festa della Repubblica sì, ma di “quella ucraina” in un “2 giugno di guerra”.  Una Ucraina aiutata anche dall’Italia a resistere all’aggressione russa ma che sarebbe uno Stato “terrorista”, per niente meritevole quindi di sostegno politico e tanto meno militare.

         Ma è proprio questo modo di rappresentare i fatti che ha contribuito in modo, credo, decisivo a far vincere alla Meloni e alla sua coalizione le elezioni politiche dell’anno scorso, ad accreditarla sempre di più all’estero, nel fronte occidentale, e allunga la vita al suo governo, per quanti sforzi possano, vogliano e riescano a fare certi suoi alleati di centrodestra di complicarle la vita, persino sostituendosi alle opposizioni divise e sempre più deboli. O per quanti errori la stessa Meloni possa compiere, per carità.

         La Meloni sta ormai alla sua poltrona di Palazzo Chigi, o postazioni delle cerimonie alle quali partecipa, all’opposto della sua antagonista Elly Schlein alla segretaria del Pd, specie dopo avere rovinosamente perduto i suoi primi appuntamenti con le urne, nelle elezioni amministrative di maggio. Persino Vauro, il vignettista del Fatto Quotidiano, rappresenta oggi sulla poltrona la premier che chiede in romanesco “E chi se move?” alla Schlein che aveva sfdato i suoi critici e avversari dopo il fiasco nelle città a “mettersi comodi”, cioè a non darle fastidio standole troppo addosso.

         Sul Secolo XIX invece Stefano Rolli rappresenta la Schlein, sola al “tavolo delle opposizioni”, che dice al cameriere pronto a servirla: “Aspetto delle persone”. Magari il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte o Carlo Calenda e Matteo Renzi, come ha auspicato nel Pd l’ex capogruppo della Camera Graziano Delrio, in una opposta visione tattica e strategica, per quanto i due attori del cosiddetto terzo polo trascorrano i loro giorni e le loro notti a litigare fra loro.  

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L’Italia repubblicana ha 77 anni, ben portati come i quasi 82 di Mattarella

A 77 anni quanti ne compie oggi la Repubblica italiana -quella vera, non di carta fondata da Eugenio Scalfari 30 anni dopo- non è per fortuna nelle penose condizioni in cui la descrive l’omonimo quotidiano sostituendo nel  titolo strillato in prima pagina l’orbace con Orbàn. Che è il presidente ungherese filoputiniano associato a Giorgia Meloni anche dal Riformista di Matteo Renzi in un fotomontaggio definibile quanto meno, come vedremo, un incidente editoriale.

         La Repubblica, sempre quella vera e non di carta, non è neppure quella donna in sandali sconvolta, se non travolta, dal forte vento proveniente da destra come la propone Stefano Rolli con la sua vignetta sulla prima pagina del Secolo XIX, dello stesso gruppo editoriale del giornale scandalizzato dalla “Italia alla Orbàn”.

         No. L’Italia è ancora una Repubblica saldamente occidentale e antiputiniana, felicemente presieduta nel suo secondo mandato da un Sergio Mattarella, guarda caso, che ha colto l’occasione dell’incontro festoso con gli ambasciatori stranieri ricevuti al Quirinale per confermare il sostegno più pieno all’Ucraina aggredita dalla Russia, appunto, di Putin. I Corazzieri sono ancora al servizio di questo Presidente e di questa Repubblica, non di quella ungherese dove temo personalmente si sia dimenticato il 1956. Che fu l’anno della repressione sovietica di una rivoluzione che commosse il mondo, fatta eccezione per il Pci di Palmiro Togliatti. Dal quale per reazione uscirono in parecchi senza timore di essere considerati “pidocchi”, come lo stesso Togliatti aveva definito i primi dissidenti o transfughi del partito delle allora Botteghe Oscure.

         Se c’è qualcosa, a dispetto anche dell’”autoritarismo” avvertito dall’ex presidente del Consiglio Romano Prodi fra interviste e brevissimi messaggi di conferma alla Stampa; se c’è qualcosa, dicevo, che sta investendo e compromettendo l’immagine della Repubblica italiana è il vento di sinistra che cerca di soffiarle addosso la nuova segretaria del Pd Elly Schlein reduce dall’infausto esordio elettorale nelle amministrative di maggio. Una Schlein della quale, intervistato dal Giornale diretto da Augusto Minzolini, un Renzi evidentemente all’oscuro della prima pagina che stavano confezionando al Riformista, ha detto o previsto che è “un petardo”, destinato a perdere “pure alle condominiali”.

         In fondo questa sconfitta  “condominiale” è appena avvenuta a Strasburgo, dove gli euro deputati del Pd hanno rifiutato l’indicazione giunta dal Nazareno per un’ambigua astensione nella votazione sulla norma che autorizza l’impiego dei fondi del piano di ripresa e di resilienza anche per ricostituire le scorte compromesse dalle forniture militari mandate alla resistenza ucraina. Solo quattro degli eurodeputati del Pd si sono astenuti, uno ha votato contro e gli altri dieci a favore, finendo sulla prima pagina del Fatto Quotidiano nell’”ammucchiata bellicista”. Schlein naturalmente è rimasta al suo posto a Roma, la faccia un po’ meno.

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Gli squilli del governatore della Banca d’Italia scambiati per allarme contro il governo

         D’accordo, il bene non fa notizia, facendone invece il male, come scrisse una volta il compiamto Aldo Moro polemizzando sul Giorno, pur nel suo stile garbato, con Umberto Eco che si era appena aggrappato a una brutta notizia, appunto, per formulare giudizi e previsioni pessimistiche sull’Italia. Ma non bisogna esagerare, come si è invece fatto un po’ su tutti i giornali italiani riportando e commentando le “considerazioni” davvero finali di Ignazio Visco. Finali anche della sua lunga permanenza, di dodici anni, alla guida della Banca d’Italia.

         Va bene che il governatore in persona, pur con un passato giovanile di boy scout, non ci ha messo molto di suo, nella mimica, per compiacersi della sorprendente capacità di crescita dimostrata dall’Italia guidata da Giorgia Meloni in sostanziale continuità con Mario Draghi, già governatore della stessa Banca d’Italia, oltre che presidente dalla Banca Centrale Europea. Ma i numeri sono più forti delle parole e della faccia di chi le pronuncia. Siamo riusciti a crescere, peraltro in un contesto internazionale alquanto difficile, più del resto dell’Europa, e persino degli Stati Uniti oltre Oceano. Ai dati di Visco si sono peraltro aggiunti quelli dell’Istat.

         Eppure Repubblica ha preferito avvertire e lanciare “l’allarme” del governatore sui salari troppo bassi o sul rischio di rallentamento o di non completa realizzazione del piano di ripresa e resilienza e delle riforme.

         Persino Il Giornale della ormai ex famiglia Berlusconi, ora solo partecipe della proprietà, ha arruolato Visco, nel titolo su tutta la prima pagina, nell’”opposizione surrogata” attribuendogli, in particolare, la colpa di “rubare il lavoro” alla segretaria del Pd Elly Schlein per “criticare la Meloni su salari e riforme”, appunto,

         Bisogna tornare ad un altro vecchio amore giornalistico di Berlusconi, cioè al Foglio, di cui il Cavaliere favorì la nascita finanziando un Giuliano Ferrara stanco della sua prima e unica esperienza di governo come suo ministro dei rapporti col Parlamento; bisogna tornare al Foglio, dicevo, per trovare una interpretazione delle considerazioni di Visco in funzione filogovernativa. “Fermare l’Italia della lagna”, ha titolato in rosso il giornale di Ferrara spiegando, in nero, che “il manifesto sull’ottimismo di Visco è una lezione contro la politica fatta di fuffa, allarmismi e capri espiatori”. Non credo possa intendersi casuale, cioè non voluto, ogni riferimento o allusione polemica al Pd, preferito dal Foglio nelle ultime elezioni politiche, e alla sua nuova segretaria Elly Schlein, decisa a restare al suo posto anche dopo la batosta elettorale subita nelle amministrative di maggio. “Tranquilli, non me ne vado”, ha ammonito l’interessata dopo avere nervosamente chiesto a critici ed avversari di non starle “troppo addosso” per il suo esordio elettorale non proprio incoraggiante.  

Compromesso il guardaroba del Pd, più ancora della sua segretaria

Il problema della segretaria del Pd dopo la batosta elettorale delle elezioni amministrative di questa disordinata primavera non è di nervi, come ha titolato Il Giornale incoraggiato dalla richiesta di Elly Schlein ai colleghi critici o preoccupati di partito di non “starle addosso”, né di guardaroba personale, come ha ironicamente proposto ai lettori del Foglio il vignettista Makkox. Che, inchiodandola alla croce della sua famosa intervista a Vogue su come si veste e si lascia consigliare per abbinare colori o stoffe, o entrambi, le fa dire: “Magari ci voleva un fresco-lana. O un caldo-cotone. Vestirsi a cipolla”. E lo stesso Makkox conclude, di suo: “E’ che col vento delle destre non sai mai cosa mettere”.

         Se poi ci fosse davvero un problema di guardaroba, esso non riguarderebbe tanto la giovane segretaria ma il partito che le è stato affidato -tra interni e esterni, iscritti e non, addirittura elettori e non delle sue liste alle politiche e alle amministrative- da una maggioranza a dir poco spuria, unita più da risentimenti che sentimenti, più dalla tattica che dalla strategia. Ora la poveretta -sarebbe il caso di scrivere della Schlein sul piano politico-  si trova sostenuta soprattutto dall’ex ministro Dario Franceschini. Che ha affdato a Repubblica l’invito agli amici di provenienza sia democristiana sia comunista, in quell’”amalgama mal riuscito” bollato a suo tempo da Massimo D’Alema, a non commettere “l’errore di ingabbiare Elly” nel suo poco felice esordio elettorale. E a scommettere ancora su di lei nella prospettiva delle elezioni europee dell’anno prossimo. In cui sempre Franceschini è convinto che la somma dei voti raccolti dai partiti all’opposizione sarà superiore a quella dei partiti al governo. E con questo? Ci sarebbe da chiedere all’ex ministro, il cui bacio una volta era quello della vita nella scomposizione e ricomposizione degli equilibri interni al Pd ma potrebbe essere diventato oggi quello della morte; ci sarebbe da chiedere all’ex ministro, dicevo, che valore potrà mai avere una somma di voti non concretizzabile in una maggioranza o coalizione di governo alternativa a quella in carica.

         Nella sua ottimistica e perdurante scommessa sulla Schlein l’ex ministro democristiano, erede non tanto della sinistra dello scudo crociato quanto del corpaccione doroteo più forte nel trasformismo che nella chiarezza delle idee  e dei programmi, sottovaluta forse l’analogia creata dai  fatti -non dalla  fantasia- fra la Dc che si inabissò nel 1993  perdendo i Comuni e il Pd che ha smesso  o sta smettendo di essere il partito dei sindaci, d’altronde considerati da D’Alema -sempre lui- più “cacicchi” che altro. Alessandra Ghisleri sulla Stampa sostiene che il Pd continui ad essere “nei Comuni il primo partito”, ma senza candidati in grado di farsi eleggere sindaci, se non a condizione che sul posto in campagna elettorale, com’è appena accaduto a Vicenza, non si facciano vedere i dirigenti nazionali.

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Meloni scavalcata dagli avversari nel riconoscimento del successo nei ballottaggi

         Questa volta gli avversari di Gorgia Meloni non possono neppure accusarla di avere esagerato mettendosi in posa fra i divani, gli stucchi, gli specchi e quant’altro di Palazzo Chigi per commentare a caldo, anzi caldissimo, la vittoria del “centrodestra” nei ballottaggi comunali di ieri. Così lei stessa ha tenuto a definire la sua coalizione, che alcuni amici di partito  e analisti preferiscono chiamare “destra-centro”.

La premier è stata persino scavalcata nei giudizi sui risultati elettorali  da chi la combatte. Dal “vento della destra” di Repubblica, allusivo anche a quello venuto dalla Spagna con la disfatta amministrativa del premier socialista costretto lui stesso ad alzare la posta imboccando la strada delle elezioni politiche anticipate, si passa alla Meloni che “stravince” nel titolo di apertura della Stampa.

         Dalla “Caporetto della sinistra” su Domani, il giornale di Carlo De Benedetti in edizione “radicale” inteso come massimalista, si passa al “trionfo delle destre” nel titolo del Fatto Quotidiano.

         Impietosamente sul Corriere della Sera l’editoriale di Roberto Gressi comincia annunciando la “doccia gelata per Elly Schlein”, che viene tuttavia graziata nel titolo dove si lamenta “la sfida mai partita” dalla nuova segretaria del Pd a Giorgia Meloni. La quale dove si presenta, trovando il tempo anche per qualche comizio fra i tanti impegni internazionali e nazionali di governo, porta voti ai suoi candidati e agli alleati. La Schlein invece, su pressante invito del candidato del Pd a sindaco di Vicenza, ha dovuto tenersi lontana dalla città per consentirgli di vincere la partita, peraltro con soli 500 voti di scarto: l’unica chiusa a vantaggio del Nazareno, entrato secondo Stefano Folli, su Repubblica, nel “nuovo anno zero”.

         Il Foglio, passato notoriamente dall’originario centrodestra di “tendenza Veronica”, quando questa era ancora la moglie di Silvio Berlusconi, al centrosinistra vero o presunto del Pd di Enrico Letta e ora della Schlein, ha chiesto o raccomandato di “non esagerare” nella lettura dei risultati elettorali a favore di una destra che “un po’ più moderata piace”, mentre non piace “la fuga del Pd dai moderatismo”. Un’esagerazione deve essere probabilmente apparsa al quotidiano fondato e ancora animato da Giuliano Ferrara il rumoroso titolo del Giornale, do cui egli fu per un po’ anche editorialista, sulla “Schlein” che “rottama il Pd”. E che il vignettista Stefano Rolli sul Secolo XIX ha messo su strada a chiedere “la carità” nei panni che indossa con la consulenza di una cromatonista, o come diavolo si chiama chi l’aiuta a scegliere e abbinare stoffe e colori dei suoi abiti. Il viola quaresimale, del resto, sembra che sia fra i più preferiti da entrambe.

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