Renzi ha voluto intestarsi il processo a Salvini per la nave Open Arms

            Nonostante l’autorizzazione a procedere appena concessa dal Senato con 149 voti contro 141, non si può ancora dare per certo un processo all’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini per Open Arms.jpegla vicenda della nave spagnola “Open Arms”. Dove circa 150 migranti, soccorsi a più riprese in mare, furono trattenuti a bordo in agosto di un anno fa per una ventina di giorni in acque italiane, con divieto di approdo e di sbarco.

            Esaurite le procedure del cosiddetto tribunale dei ministri, intervenuto nella fase preliminare delle indagini per la tutela prevista dalla Costituzione quando finiscono sotto inchiesta azioni appunto di un ministro, la magistratura ordinaria di Palermo potrebbe in teoria – molta teoria, direte- non ravvisare gli estremi per rinviare a giudizio il leader della Lega, accogliendone gli argomenti a difesa respinti invece col loro voto dalla maggioranza dei senatori.

            Se però si dovesse arrivare al processo, non so francamente chi avrebbe più motivo di temerlo o sul piano giudiziario o sul piano politico, o su entrambi. Su entrambi, oltre a Salvini, potrebbe avere qualche timore  il presidente del Consiglio. Che d’altronde l’ex ministro si è già proposto di trascinare in giudizio contestandone la pretesa estraneità alla gestione di quella vicenda sviluppatasi in coincidenza con la crisi e dissoluzione della maggioranza gialloverde.

            Agli atti risulta solo una lettera a Salvini in cui  Conte gli intimava di fare sbarcare i minorenni, scesi poi effettivamente dalla nave. Per il resto dei migranti che vi erano bloccati il presidente del Consiglio informò il ministro dell’Interno dei contatti in corso a livello europeo per una loro distribuzione, conformemente Nave Diciotti.jpegad altre vicende analoghe, a cominciare da quella relativa alla nave “Diciotti” della Guardia Costiera nel 2018. Che finì anch’essa sotto le lenti della magistratura con una richiesta di autorizzazione negata però dall’allora maggioranza gialloverde, pur tra i mal di pancia dei grillini superati con una consultazione digitale dei militanti e iscritti alla piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio. Essi riconobbero che lo sbarco dei migranti era stato “ritardato” per giusti motivi, non impedito.

            Sul piano politico chi rischia di pagare di più un eventuale processo a Salvini per l’affare “Open Arms” è Matteo Renzi, che francamente esce dal passaggio parlamentare come Il Fatto su Salvinipeggio non poteva guadagnandosi -una volta tanto- il plauso del Fatto Quotidiano per avere colpito il “pugile suonato” della Lega. I voti renziani sono stati determinanti sia Manifesto su Salvini.jpegquando sono mancati in giunta facendo bocciare la richiesta della magistratura sia quando sono arrivati in aula a favore dell’autorizzazione contro il “capitano di sventura”, secondo la definizione del Manifesto.

            I voti renziani stati annunciati e motivati da Renzi in persona, che non ha ravvisato nella gestione di quell’affare l’”interesse dello Stato  costituzionalmente rilevante” né “il perseguimento Renzi al Senato.jpegdi un preminente interesse pubblico” richiesti da un’apposita legge costituzionale per sollevare un ministro nell’esercizio delle sue funzioni dalle responsabilità penali e sottrarlo a un processo. Ma è anacronistico, a dir poco, non vedere un interesse superiore o rilevante della collettività nazionale nella distribuzione dei migranti fra i diversi paesi d’Europa, di cui i nostri porti hanno l’’inconveniente di essere la frontiera meridionale.

 

 

 

 

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La maggioranza scivola sulla buccia di banana di Pietro Grasso al Senato

             Il ristabilimento di un minimo di rapporti normali fra il Parlamento e il Governo, praticamente imposto dalla presidente del Senato in occasione della proroga dello stato di emergenza virale solo sino al 15 ottobre, e con tanto di autorizzazione preventiva delle Camere, ha messo in evidenza ancora più di prima il carattere quanto meno anomalo, e politicamente assai debole, di una maggioranza che vive più di divisioni che di condivisioni, più di contrasti che di concordia.

            Proprio al Senato il governo ha portato a casa con la dovuta maggioranza assoluta dei voti dei componenti dell’assemblea il cosiddetto sforamento di bilancio per altri 25 miliardi di euro, ma fra le proteste e le delusioni neppure tanto nascoste dei grillini per una risoluzione, di cui evidentemente non si erano accorti, che apre all’uso dei fondi comunitari già disponibili per il potenziamento del sistema sanitario. Sono i soldi in prestito del meccanismo europeo di stabilità -Mes- che il Movimento 5 Stelle considera, al pari dei leghisti e dei fratelli d’Italia sui banchi dell’opposizione di centrodestra, una trappola bestiale per l’Italia, per quanto a tasso vicino allo zero.

            Sempre al Senato, nella stessa giornata, la maggioranza non ha retto all’accordo sulla rispartizione, a metà legislatura, delle presidenze delle commissioni, per cui quelle dell’Agricoltura e della Giustizia sono rimaste agli odiati leghisti. Particolarmente cocente, sul piano personale e politico, per i suoi precedenti professionali e parlamentari, è stata la sconfitta dell’ex presidente dell’assemblea Pietro Grasso nella corsa alla guida della commissione Giustizia.

            Dev’essere apparso quanto meno anacronistico a buona parte della stessa maggioranza che a quel posto dovesse andare non solo e non tanto un ex magistrato quanto un ex presidente Il Fatto.jpegdel Senato che in quella veste qualche anno fa negò -per esempio- la concessione di una sala di Palazzo Madama, o dell’attiguo Palazzo Giustiniani, alla presentazione di un libro contenente le lettere inviate dal compianto Enzo Tortora alla sua compagna durante la detenzione per presunto spaccio di droga e associazione camorristica. Eppure quella del celebre conduttore televisivo, e poi parlamentare del partito radicale di Marco Pannella, è la storia emblematica di una giustizia amministrata nel peggiore dei modi, inseguendo e coltivando pentiti inattendibili e premiando nelle carriere magistrati rivelatisi così chiaramente e scandalosamente non all’altezza dei loro compiti, giustamente sconfessati alla fine della lunga vicenda processuale costata comunque a Tortora  la salute.

            Candidare Grasso, della sinistra dei “liberi e uguali”, alla presidenza della Commissione Giustizia del Senato  ha avuto ad un certo punto il sapore, per i suoi avversari e concorrenti politici, di una provocazione  con effetti che non era certamente difficile prevedere. Ma non per questo egli si asterrà oggi -c’è da scommettervi- dal fare la sua parte nell’aula di Salvini.jpegPalazzo Madama per cercare di mandare sotto processo l’ex ministro dell’Interno e tuttora leader leghista Matteo Salvini per sequestro di persona nella vicenda della nave “Open Arms”. Dalla quale il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si limitò l’anno scorso,  durante la crisi di governo, ad ordinare lo sbarco dei minori, consentendo quindi il trattenimento a bordo degli altri, in attesa di una loro distribuzione fra più paesi europei, e tuttavia negando a Salvini la copertura del governo nella diatriba giudiziaria che ne è derivata.

 

 

 

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Come la presidente del Senato ha restituito la centralità alle Camere

Oltre e più ancora della partita all’interno della maggioranza sulla durata della proroga dello stato di emergenza virale, retrocessa dall’originario 31 dicembre al 15 ottobre per le resistenze combinate del Pd di Nicola Zingaretti e dell’Italia Viva di Matteo Renzi, si è giocata al Senato – e ripetuta poi alla Camera- una partita istituzionale che porta il nome, e il polso, della presidente dell’assemblea Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e ancor più i suoi sostenitori più accaniti sul fronte giornalistico hanno compiuto l’errore di sottovalutare.

Quando comparvero le prime indiscrezioni sulla volontà di Conte di prorogare di ben cinque mesi lo stato di emergenza proclamato sino al 31 luglio all’esplosione dell’epidemia virale anche in Italia, la Casellati alzò subito la voce reclamando un passaggio per fare uscire il Parlamento dalla clandestinità, o quasi, in cui era stato ridotto dalla gestione tutta governativa dell’eccezionalità della situazione.

La seconda carica dello Stato, presumibilmente convinta di esprimere umori e sentimenti condivisi dalla prima, cioè dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, denunciò lo stato di “invisibili della Carta” costituzionale in cui si trovavano ormai da troppo tempo i parlamentari, pur costretti ad una serie smisurata di votazioni di fiducia per la “conversione” dei decreti legge sfornati dal governo fra un decreto e l’altro del presidente del Consiglio dei Ministri, che neppure passavano per le commissioni e le aule del Parlamento.

La sortita della presidente del Senato fu derisa dal Fatto Quotidiano, che l’accusò -testualmente- di essersi “sparata sui piedi” per avere scambiato le comunicazioni già in programma del ministro della Sanità in quei giorni sulla proroga di alcune misure che stavano per scadere con quelle che il presidente del Consiglio si sarebbe già proposto di fare più in là per spiegare le ragioni della proroga, più in generale, dello stato di emergenza proclamato a fine gennaio. Per tutta risposta la presidente del Senato fece votare l’assemblea anche sulle comunicazioni brevi, diciamo così, del ministro della Salute Roberto Speranza.

Passato qualche giorno, senza lasciarsi impressionare più di tanto dal cesarismo scolpito sul nome di Conte dai sostenitori al termine del lungo e travagliato Consiglio Europeo sul “Recovery fund”, come se l’accordo a Bruxelles fosse stato solo merito del presidente del Consiglio italiano e non Giuseppe Conte.jpegsoprattutto della presidente di turno dell’Unione e cancelliera tedesca Angela Merkel, la presidente del Senato rinfrescò moniti e memoria con una intervista al Messaggero. Il cui titolo, proiettato sui passaggi successivi a quel vertice, compreso quello relativo alla proroga dello stato di emergenza, non poteva essere più netto e chiaro: “Il premier non faccia da solo. L’ultima parola è delle Camere”.

Il plurale s’intendeva naturalmente come atto di riguardo al Parlamento nella sua interezza, e quindi anche al presidente di Montecitorio: il grillino Roberto Fico. Che, volente o nolente, viene spesso messo dal suo partito nelle stesse difficoltà in cui un suo predecessore, Gianfranco Fini, metteva -sino alla rottura definitiva- il suo partito o schieramento di appartenenza o provenienza ai tempi dell’ultimo governo di Silvio Berlusconi. Alludo naturalmente al Pdl, dove erano confluite Forza Italia e Alleanza Nazionale, già Movimento Sociale.

Con la proroga, unica e ultima, dello stato di emergenza virale al 15 ottobre, peraltro accompagnata dalla preminenza restituita ai decreti legge rispetto agli abusati decreti del presidente del Consiglio dei Ministri, la presidente del Senato può ben ritenere di avere consentito, anzi determinato, un riallineamento dei rapporti fra il Parlamento e il Governo, o viceversa, con tutte le maiuscole del caso. E’ stata in qualche modo restituita la visibilità agli “invisibili” dei mesi passati.

Chiamatela pure ironicamente “Queen Elisabeth”, signori sostenitori ad oltranza del presidente del Consiglio e di quel “narcisismo della popolarità” stigmatizzato sul Corriere della Sera dal pur cauto Massimo Franco, ma la presidente del Senato ha giocato e vinto in questi giorni una partita mica da poco sullo scenario istituzionale e persino politico.

Dovrebbe tenerne conto anche il leader leghista ed ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, le cui recenti esibizioni senza mascherina di protezione per sé e per gli altri, all’insegna di un “negazionismo” dell’emergenza virale che ha allarmato anche Andrea Bocelli dopo avervi partecipato con l’immancabile Vittorio Sgarbi e altri, la presidente del Senato ha affidato all’esame degli onorevoli questori di Palazzo Madama.

Non rischierà processi almeno per questo, si spera, bastando e avanzando quelli che si è già procurato o sta ancora procurandosi per sequestro di persone quando era al Viminale, ma è forse il caso che anche Salvini si dia una regolata in questi tempi di pericolo o rischio non ancora cessato da coronavirus.

 

 

 

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La presidente del Senato ce l’ha fatta a rimettere un pò in riga il governo

            Non ditelo, per favore, a quelli del Fatto Quotidiano, che non se ne sono ancora accorti scambiando anzi per un’altra vittoria del loro beneamato presidente del Consiglio Giuseppe Conte il passaggio appena consumatosi al Senato per autorizzare il governo a prorogare sino al 15 ottobre Il Fatto sul Senato.jpeglo stato di emergenza per l’epidemia virale. “Salvini & C ancora sconfitti”, ha titolato sulla prima pagina il giornale di Marco Travaglio sbandierando i 157 voti raccolti dalla mozione della maggioranza contro i  125 no delle opposizioni unite del centrodestra.

            Ciò che Il Fatto ha omesso di ricordare è che l’intenzione annunciata originariamente  dal governo era di prorogare l’emergenza, e i poteri speciali che ne derivano, sino al 31 dicembre provocando -contro il silenzio del comprensivo presidente grillino della Camera Roberto Fico- le proteste della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che denunciò le condizioni ormai di “invisibili” dei parlamentari e annunciò che sulla questione avrebbe fatto riprendere al Senato l’abitudine di votare.

            Dal governo, e dal giornale che lo sostiene ormai sistematicamente, si rispose che la signora si era “sparata sui piedi” perché in aula Conte aveva già deciso di  mandare a riferire sull’epidemia il ministro della Salute Roberto Speranza. Alle cui comunicazioni, o informativa, limitate alla proroga a fine luglio di alcune misure che stavano per scadere in quei giorni, la presidente del Senato fece comunque Casellati al Messaggeroseguire una votazione, giusto per chiarire il cambiamento di musica. Il punto fu successivamente ribadito con una intervista al Messaggero di monito a Conte a “non fare da solo” perché “l’ultima parola è delle Camere”.

            Alla fine è toccato al presidente del Consiglio di riferire di persona proprio al Senato accorciando la proroga, come si è accennato, dal 31 dicembre al 15 ottobre, dopo avere tentato la data del 31 ottobre, contestata però all’interno della maggioranza dal Pd. Ma anche in questa versione ridotta, e criticata da tutte le componenti dell’opposizione del centrodestra, con tanto Conte.jpeganche di telefonata di Matteo Salvini al presidente della Repubblica in persona, il governo si è dovuto accontentare di soli 157 voti e registrare il no di un altro dissidente grillino. I 157 “sì” sono stati sufficienti per far passare la mozione sulla proroga dell’emergenza virale con annessi e connessi – stavolta tuttavia non col via libera ai soliti decreti del presidente del Consiglio dei Ministri caduti come pioggia nei mesi scorsi direttamente sui cittadini, saltando le Camere- ma non lo sarebbero  per l’approvazione del nuovo sforamento di bilancio per altri 25 miliardi appena proposto dal governo. Occorrono per questo almeno 160 voti, pari alla maggioranza assoluta.

            Ciò consente di avere ben chiaro il quadro di incertezza, e di pericolo, in cui ormai si nuove la maggioranza giallorossa del secondo governo Conte. Ma soprattutto -ripeto- fa capire abbastanza bene i vincoli dei rapporti fra l’esecutivo e il Parlamento che si erano un pò troppo allentati e che la presidente del Senato ha voluto ristabilire, ben sapendo naturalmente che proprio a Palazzo Madama, diversamente da Montecitorio, i numeri per la maggioranza sono quelli che sono: alquanto incerti o ballerini.

 

 

 

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La maggioranza non delle identità ma delle convenienze di potere parallele

Già di incerto colore -fra il giallorosso applicatogli per la partecipazione di tutta la sinistra rappresentata in Parlamento e il giallorosa preferito da Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, forse più per rispetto della squadra di calcio della Roma e dei suoi tifosi che per diffidenza verso il Pd e i “liberi e uguali” dei Grasso, Bersani e compagni- il secondo governo di Giuseppe Conte è sempre più di incerta denominazione politica.

Ezio Mauro su Repubblica gli ha attribuito una variante delle “convergenze parallele” assegnate al terzo governo di Amintore Fanfani. Che nel 1960, dopo la rovinosa caduta di Fernando Tambroni fra tumulti Moro e Fanfani.jpegdi piazza e dimissioni di ministri, preparò il centro-sinistra, col trattino, guadagnandosi l’astensione dei socialisti. I quali sarebbero entrati in modo “organico” nella maggioranza e nel governo con Aldo Moro solo nell’autunno del 1963.

Di “parallele” nel secondo governo Conte l’ex direttore di Repubblica ha trovato non le convergenze ma addirittura le “identità”. Che sarebbero quelle dei grillini, dal nome del fondatore, garante e quant’altro dei Movimento 5 Stelle, del Pd, del partito improvvisato da Matteo Renzi proprio mentre il secondo governo Conte muoveva i primi passi, e dei già citati “liberi e uguali” di provenienza mista, fra lo stesso Pd e la sinistra di Niki Vendola, per non andare più indietro con Fausto Bertinotti, Armando Cossutta, Oliviero Diliberto e altri ancora, ormai appartenenti alle preistoria, o quasi, della sinistra sopravvissuta alla caduta del Muro di Berlino, emblematico del comunismo.

Temo che il mio amico Ezio Mauro abbia ecceduto a scrivere di “identità”, non volendosi limitare forse alle troppo datate “convergenze” dei tempi di Aldo Moro alla segreteria della Dc, e di Fanfani a Palazzo Chigi. “Identità” mi sembra francamente una parola troppo grossa per i partiti dell’attuale maggioranza, a cominciare dal più consistente, essendo generalmente chiamata proprio “d’identità” la crisi che esso attraversa da quando, dopo le elezioni politiche del 2018, fu costretto dalle circostanze ad allestire un governo, pur di non tornare immediatamente alle urne, con uno dei suoi due maggiori partiti antagonisti nella campagna elettorale: la Lega di Matteo Salvini, diventata addirittura la forza di trazione del centrodestra. E l’anno dopo, rottosi il rapporto con una Lega che ne aveva dimezzato i voti nelle elezioni europee portandoli dal 32 e più  al 17 per cento, i grillini con la medesima disinvoltura identitaria -se mi permette Ezio Mauro- si allearono con l’altro partito antagonista Matteo Renzi.jpegdella campagna elettorale del 2018: il Pd non più di Renzi ma di Nicola Zingaretti, spinto tuttavia a quell’accordo dallo stesso Renzi. Che si era stancato di mangiare pop-corn sui banchi dell’opposizione, o si era spaventato -disse- per uno scenario di elezioni anticipate dominato da una Lega già ben oltre il 34 per cento dei voti guadagnato nel rinnovo del Parlamento europeo.

Parlare, ripeto, di “identità” di fronte a questa successione di fatti, credo, incontestabili mi sembra davvero troppo. Più che le identità, si sono avvicinate, incontrare e unite le convenienze di potere, a cominciare da quella di tenere in vita ad ogni costo le Camere elette due anni fa, delegittimate l’anno dopo dai risultati del voto europeo e in via di ulteriore o definitiva delegittimazione col referendum del 20 settembre sulla riduzione -che appare scontata- del numero dei seggi parlamentari: da 630 a 400 quelli di Montecitorio e da 315 a 200 quelli elettivi del Senato.

Poi ci vorrà molta buona volontà, e disinvoltura, ammesso e non concesso che la maggioranza e il secondo governo Conte riusciranno ad arrivarvi, a sostenere nel 2022 l’opportunità che siano queste Camere, appunto, nella vecchia composizione politica e numerica, ad eleggere il successore di Sergio Mattarella al Quirinale. Dove il nuovo presidente della Repubblica rimarrà sino al 2029, scavallando le elezioni politiche ordinarie del 2023 e del 2028. Credo che queste date solo ad elencarle siano più che sufficienti a darvi l’idea della temeraria prova nella quale il mio amico Mauro vede impegnata la maggioranza attuale delle “identità parallele”, propostasi addirittura di eleggere il capo dello Stato.

Con qualche ottimismo mi si potrebbe obbiettare che la crisi d’identità del maggiore partito o movimento dell’attuale Parlamento sarà o potrà essere risolta dagli “Stati Generali”, come i grillini chiamano quelli che per le altre forse politiche sono i congressi. Ma, appunto, ci vuole ottimismo, molto ottimismo. Già programmati per lo scorso mese di marzo, dopo la rinuncia Di Maiodi Luigi Di Maio alla carica di “capo” e la sua rimozione dalla guida della “delegazione” al governo, gli “Stati Generali” pentastellati sono stati rinviati all’autunno prossimo col pretesto dell’epidemia virale: pretesto, perché nel Movimento delle 5 Stelle confronti e decisioni sono digitali, per cui potrebbero bastare e avanzare i computer, fortunatamente immuni da coronavirus. Ma già la scadenza autunnale, coincidendo peraltro con le elezioni regionali e comunali, e il referendum confermativo della riduzione del numero dei seggi parlamentari, è stata messa in discussione. E sembra destinata a un rinvio.

D’altronde, di rinvii più che di decisioni sono costretti a vivere ormai ordinariamente la maggioranza e il governo, in Parlamento e fuori, per schivare gli ostacoli, per esempio, della riforma della giustizia, delle procedure per la definizione dei piani necessari all’accesso ai futuri finanziamenti europei per la ripresa, del ricorso al finanziamento già disponibile del potenziamento del sistema sanitario e via discorrendo. Di rinvio in rinvio, se ne perderà il conto.

 

 

 

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Nel Paese, o nella stagione, delle fughe e dei rinvii contando sul generale Agosto

            Qui scappano tutti: i migranti dai centri di accoglienza e di quarantena, inseguiti ora anche dai militari chiamati dalla ministra dell’Interno; totolo QNl’orso M 49, chiamato anche Papillon, tra la simpatia forse anche di chi gli dà la caccia nel Trentino con l’aiuto del radiocollare applicatogli L'orso Papillon.jpega suo tempo, e la maggioranza di governo che rinvia a settembre un numero crescente di appuntamenti col Parlamento, stremata dalle prove cui non ha potuto proprio sottrarsi in questa fine di luglio per rinviare al 15 ottobre la imminente scadenza dello stato di emergenza virale e per sforare subito di altri 25 miliardi di euro il deficit di bilancio.

           Ci sarebbe, in verità, anche la votazione, programmata in questi giorni al Senato, sull’autorizzazione a procedere contro l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini per sequestro di migranti sulla nave Open Arms nell’estate scorsa, ma mi rifiuto per ragioni di principio, o di ingenuità, di La sabbia di Salvini.jpegconsiderare pure questa un’incombenza della maggioranza, per quanto rivendicata da quella attuale, dovendo essa considerarsi invece estranea. Tutti dovrebbero essere considerati liberi, in passaggi del genere, da vincoli di gruppo o di partito. Invece i renziani, tentati già nella competente giunta dalla pur ovvia libertà di coscienza, sono oggi guardati a vista come possibili traditori dai loro alleati nella coalizione giallorossa.

            All’abitudine ormai del governo di rinviare anziché risolvere i problemi, di procrastinare le scelte a causa dei contrasti interni, il Corriere della Sera ha dedicato un editoriale critico Edtoriale Corriere.jpegdi Massimo Franco. La cui coda è stata la più velenosa di tutti i passaggi precedenti perché ha colto, diciamo così, in flagranza di contraddizione il presidente del Consiglio in persona, talmente “narciso della popolarità” guadagnatasi nella gestione dell’emergenza virale, nel vertice europeo di Bruxelles e nei sondaggi da non volerla mettere alla prova  con decisioni che potrebbero comprometterla. Ma non è per niente detto che proprio i rinvii alla fine la compromettano in modo irreparabile col classico incidente di percorso. Il mitico generale Agosto, che una volta tutto preveniva e risolveva, si fece già sorprendere l’anno scorso con l’esplosione della maggioranza gialloverde.

 

 

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La campagna elettorale che c’è ma qualcuno finge di non vedere

            Maturata in aprile, la storia pasticciata del “governatore” lombardo, e leghista, Attilio Fontana e della fornitura di camici e set sanitari finita improvvidamente -va detto- ad un’azienda del cognato partecipata dalla moglie dello stesso Fontana, si trascinava da maggio. E il giornale di Marco Travaglio –Il Fatto Quotidiano- ha tutte le ragioni, per carità, di vantarsi di averla scoperta, poco importa se a caso o meno, guadagnandosi l’attenzione di una Fontana.jpegtrasmissione televisiva della Rai e poi della Procura di Milano. Disgraziatamente, non so francamente se più per Fontana, per il suo partito, per gli inquirenti e per i giornalisti arrivati prima di loro sulla polpetta, chiamiamola così, gli sviluppi dell’indagine sono esplosi in questa  fine di luglio col coinvolgimento diretto del “governatore”. Le virgolette sono d’obbligo perché i costituzionalisti storcono il muso quando si chiama così, all’americana, il presidente di una giunta regionale in uno Stato che non è federale come la Repubblica d’oltre Oceano.

            Che cosa ha di strano -potrebbe chiedermi qualcuno- questa fine di luglio? Lo ha chiesto, per esempio, incredulo ai suoi lettori proprio Travaglio commentando a suo modo, cioè assai negativamente, le proteste dei leghisti, a cominciare dal loro capo Matteo Salvini, e dei loro alleati del centrodestra, ritrovatosi improvvisamente compatto in un passaggio di questa Travaglio ed elezioni settembretorrida estate politica, contro la cosiddetta “giustizia ad orologeria”. La cui campana batte i colpi in coincidenza con una crisi, o minaccia di crisi, o una formazione di governo, o una campagna elettorale. Il direttore del Fatto Quotidiano ha sfidato, diciamo così, Salvini a “spiegare quali sarebbero gli eventi elettorali influenzati dall’indagine” su Fontana, “visto che siamo a fine luglio”, appunto.

            Stento a credere, francamente, che Travaglio sia l’unico giornalista, o direttore di giornale, a non essersi accorto che in Italia da almeno il 17 luglio, quando è stato pubblicato il decreto per il rinnovo autunnale -il 20 e il 21 settembre- delle amministrazioni regionali e comunali già scadute e prorogate nella scorsa primavera per l’emergenza virale, è in corso ormai una gigantesca campagna elettorale. In cui ci sono partiti, di opposizione ma anche di governo, che rischiano pure l’osso del collo. E’ peraltro una campagna elettorale abbinata per ragioni di risparmio a quella, abbastanza in sordina, per il referendum nazionale confermativo della riforma costituzionale che riduce di 230 seggi la Camera e di 115 il Senato da eleggere la prossima volta.

            All’esito delle elezioni amministrative di settembre è appesa la sorte stessa del governo, specie se il Pd dovesse uscirne male pagando i condizionamenti grillini subiti dall’anno scorso. L’ultimo dei quali si è appena tradotto nella “morbosa attenzione” contestata personalmente dal presidente del Consiglio al Pd per prestiti agevolati europei immediatamente disponibili -diversamente dagli altri fondi appena varati al vertice di Bruxelles- e destinati al potenziamento del servizio sanitario messo a dura prova dall’emergenza virale, peraltro ancora incombente.

            Le regioni di cui a settembre saranno rinnovati i Consigli sono ben sette: Valle d’Aosta, Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia. I Comuni sono più di mille, di cui 14 capoluoghi di provincia e 4 di regione. Ne risparmio l’elenco dettagliato a chi legge a causa dello spazio che ho autonomamente assegnato ai miei graffi quotidiani per ragioni, diciamo così, di gusto, o di igiene mentale.

 

 

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Un Conte alla berlina delle vignette pur dopo il successo al vertice di Bruxelles

            Questa è un’altra domenica in cui sui quotidiani l’ironia è più efficace di quella che chiamiamo serietà. I vignettisti hanno battuto in prontezza ed efficacia i sapientoni alle prese con le  note politiche, i commenti e persino gli editoriali caduti dall’alto sui lettori.

            Emilio Giannelli, per esempio, sulla prima pagina del Corriere della Sera ha impietosamente tradotto come meglio non si poteva, adeguandolo all’emergenza virale, quell’”attenzione morbosa” per il cosiddetto Mes, cioè per i vantaggiosi e immediati crediti dell’Europa per il potenziamento del sistema sanitario, rimproverata al Pd e dintorni dal presidente del Consiglio dopo avere strappato al vertice europeo di Bruxelles il cosiddetto “Recovery fund”, disponibile non prima dell’anno prossimo. I piddini e i renziani, favorevoli al Mes, come i forzisti di Berlusconi fuori dalla maggioranza, pronti a votare sì -ha appena ribadito Berlusconi in persona, pur precisando di non voler con ciò accordare la fiducia al governo Conte- sono diventati nelle parole messe da Giannelli in bocca al presidente del Consiglio “positivi asintomatici” di qualcosa di simile al coronavirus.

            Già ieri, a dire il vero, senza ricorrere a un vignettista ma sul serio, non per scherzare, il solito continianissimo Fatto Quotidiano di Marco Travaglio aveva tradotto il pensiero del presidente del Consiglio, sensibilissimo agli umori, anzi ai malumori Il Fatto sul Mes grillini, dando dei “MEStatori” ai sostenitori del credito europeo di circa 37 miliardi di euro immediatamente disponibili -ripeto- per il boccheggiante sistema sanitario italiano.

            Nella lista dei “MESstatori” di felice conio giornalistico, lo amnmetto, Travaglio aveva messo, con tanto di cilindro in testa, il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, pur fresco di una dichiarazione nella quale aveva cercato di ridimensionare il suo sì al Mes, e il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Non sapeva ancora il direttore del Fatto, mentre approvava il fotomontaggio,  che stava unendosi al gruppo il ministro della Salute Roberto Speranza, della sinistra dei liberi e uguali, convinto dell’urgenza di almeno 20 dei 37 miliardi europei disponibili per i nostri ospedali e simili.

            Oggi, sempre al Fatto, sono tornati alla carica contro il Pd attribuendo alla sua “morbosa attenzione” per il Mes- Conte dixit- lo stop subìto nell’ultimo sondaggio di Pagnoncelli. Che, in verità, ha attribuito Fatto su Pd .jpegal partito di Zingaretti da giugno a luglio una discesa dal 20,4 al 19,6 per cento dei voti tendenziali, probabilmente più per la tolleranza avuta verso il no dei grillini al Mes che per il tentativo di far loro cambiare idea.

            Sulla prima pagina di Repubblica Francesco Tullio Altan ha impietosamente rappresentato Altan su Repubblica.jpegun Conte più indeciso che Casellati a Conte.jpegdeciso a tutto dietro il paravento della “task force” annunciata per la gestione dei crediti europei di là da venire. Che in ogni caso -ha ricordato la presidente del Senato in una intervista Scalfari.jpegal Messaggero– non potrà togliere “l’ultima parole alle Camere”. Lo stesso Eugenio Scalfari, d’altronde, nel suo consueto appuntamento festivo con i lettori ha scritto un po’ Titolo Scalfari .jpegtroppo acrobaticamente di una debolezza di Conte che sarebbe anche la sua forza. Ma forza di che?, mi chiedo leggendo l’editoriale in cui vengono associati all’”autocontraddittorietà” del presidente del Consiglio “molti suoi ministri e quasi tutti i partiti che giocano sul tabellone italo-europeo”: un tabellone un po’ di cartapesta.

 

Dietro la fretta di Nicola Zingaretti di avere una nuova legge elettorale

            E’ beata ingenuità quella che sta consentendo da un bel po’ di giorni a giornalisti, osservatori e politici di attribuire l’agitazione del segretario del Pd Nicola Zingaretti sul tema dell’ennesima riforma elettorale solo o prevalentemente ad una insofferenza per l’abitudine di Matteo Renzi di cambiare opinione.

            In particolare, il senatore di Scandicci dopo avere spinto quasi un anno fa il tentennante Pd a fare il governo con i grillini accettando anche la riforma sino ad allora contrastata per ridurre i seggi parlamentari, riconobbe l’urgenza di una nuova legge elettorale  interamente proporzionale, con una soglia del 5 per cento dei voti per l’accesso alle Camere. Ma ora, stranamente Renzi.jpegdopo avere verificato in tutti i sondaggi di essere col suo nuovo partito sotto quella soglia, egli non riconosce più questa urgenza e ha stoppato alla Camera, dove pure i suoi voti non sono decisivi per la tenuta della maggioranza, il tentativo del Pd di portare in aula e approvare entro l’estate la riforma elettorale, almeno nel suo primo passaggio parlamentare. L’urgenza spetterebbe a ben altro, con la sopraggiunta emergenza virale e l’uso dei soccorsi finanziari europei, sia pure non immediati.

            Per ritorsione Zingaretti ha minacciato di riprendersi libertà d’azione e trattare una riforma elettorale con altri, a cominciare dai leghisti di Matteo Salvini, i più minacciati da un ritorno al proporzionale, dando per scontato -chissà perché- la disponibilità tutta da verificare dei grillini a seguirlo in questa inversione di rotta. E’ evidente la debolezza logica dello scenario minacciato dal segretario del Pd, la cui irritazione o frenesia, come preferite, nasce pertanto da ben altro che dalla volubilità di Renzi.

            La fretta di Zingaretti deriva dall’interesse politico ch’egli evidentemente avverte -diversamente da Renzi, ma a questo punto anche dai grillini- a rendere eleggibile  il più presto possibile con nuove regole il Parlamento che uscirà disegnato in autunno dal referendum confermativo della riforma costituzionale pentastellata: un Parlamento fatto di 400 deputati e 200 senatori, contro i 630 e i 315 uscenti, da cui resterebbe fuori la rappresentanza di intere regioni con le regole oggi in vigore. Il problema, non confessato dal segretario del Pd ma visibile in filigrana, è di precedere la scadenza del 4 agosto dell’anno prossimo, quando comincerà l’ultimo semestre di carica del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e lo scioglimento anticipato delle Camere gli sarà precluso.

             Zingaretti insomma, specie ora che stando al governo si hanno o si avranno da spendere gli aiuti concordati nel Consiglio Europeo di Bruxelles, è interessato ad anticipare la fine di una legislatura appesa alla preponderante Conte e sempre più confusa presenza dei grillini.  Immagino già gli scongiuri di Giuseppe Conte, che rimanendo a Palazzo Chigi sino a febbraio del 2022 potrebbe partecipare da una posizione di vantaggio  alla gara per la successione a Mattarella.

           Del presidente del Consiglio è appena tornato a tessere elogi sperticati, in una intervista alla Goffredo Bettini.jpegStampa, l’uomo considerato più vicino Schermata 2020-07-25 alle 07.16.16 2.jpega Zingaretti, che è Goffredo Bettini, convinto che Conte “guiderà l’Italia sino alla fine della legislatura”. Peccato, per Conte, che Bettini abbia dimenticato, diciamo così, di aggiungere l’aggettivo “ordinaria” alla fine di questa legislatura. Che pertanto potrebbe anche avere un epilogo anticipato.

 

 

 

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Conte è tornato al punto di partenza, prima del successo a Bruxelles

            Oddio, si era capito subito che, tornato a Roma, Giuseppe Conte avrebbe dovuto faticare a gestire il successo personale e politico ottenuto al lungo Consiglio Europeo più ancora di quanto avesse dovuto fare a Bruxelles per conseguirlo grazie all’appoggio della cancelliera tedesca Angela Merkel. Ma non si poteva immaginare che le difficoltà sarebbero state tante e così rapidamente esplose, per cui la situazione del presidente del Consiglio è tornata ad essere debole come prima.

            Nel Parlamento europeo chiamato a pronunciarsi sulla conclusione del vertice e sul varo del cosiddetto “Recovery fund”, che farà affluire 209 miliardi di euro di soccorsi all’Italia, i grillini hanno ricevuto da Roma l’ordine di votare con i leghisti per un emendamento alla risoluzione contrario all’uso anche del cosiddetto fondo salva-Stati per il potenziamento del sistema sanitario. L’emendamento è stato bocciato, sfortunatamente per i grillini. Che ora si trovano a fronteggiare a Roma l’iniziativa rafforzata del Pd per l’uso di quel prestito di 37 miliardi che il ministro Gualtieri.jpegdell’Economia Roberto Gualtieri, del Pd, ha indicato come necessario per “ragioni di cassa” anche ai fini dello sforamento al bilancio per 25 miliardi appena proposto dal governo alle Camere. E che al Senato non potrà materialmente passare senza l’appoggio almeno della componente berlusconiana dell’opposizione di centrodestra. Il Pd insomma continua a rivolgere ai 37 miliardi del Mes, acronimo del meccanismo europeo di stabilità, quell’”attenzione morbosa” lamentata da un Conte che ha paura di scontrarsi col movimento grazie al quale si trova a Palazzo Chigi.

            L’allineamento ritrovato nel Parlamento europeo fra grillini e leghisti smentisce clamorosamente l’analisi fatta dal ministro pentastellato degli Esteri Luigi Di Maio a commento dei risultati ottenuti a Bruxelles da Conte. Che avrebbe raccolto i frutti della svolta impressa URSULA ALL'ITALIAl’anno scorso proprio dai grillini, e proprio al Parlamento europeo, partecipando alla maggioranza formatasi attorno alla nuova presidente della Commissione di Bruxelles, la tedesca Ursula von der Leyen. Che, dal canto suo, si è fatta appena sentire con una intervista nella quale ha ammonito che “ora tocca all’Italia” saper usare la “solidarietà” finanziaria ottenuta dall’Unione, anche col prestito per il sistema sanitario.

             Con quell’analisi dei risultati del Consiglio Europeo Di Maio si è praticamente data la zappa sui piedi, una Di Maio.jpegvolta che gli europarlamentari grillini si sono ritrovati con i leghisti fuori o contro la “maggioranza Ursula”, come usa chiamarla l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, contento peraltro di potervi includere Berlusconi anche per le prospettive romane.

            Gli altri nodi che si stanno stringendo al collo di Conte in Italia riguardano la cosiddetta regìa per l’uso dei fondi europei per la ripresa, nella quale il presidente grillino della Camera Roberto Fico ha chiesto di coinvolgere il Parlamento, senza lasciarsi precedere stavolta dalla presidente del Senato, e la nuova legge elettorale. Che per la dissociazione dei renziani non approderà più Foglio su Zingaretti.jpegnell’aula di Montecitorio né il 27 luglio né il 4 agosto, quando avrebbe voluto il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Al quale rimane solo la soddisfazione di un bel titolo in rosso del Foglio a sostegno  generoso e forse un pò intempestivo della sua “miracolosa” leadership.

 

 

 

 

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