Conte immaginato dai suoi sostenitori come vincitore alla roulette europea

            Per una volta Giuseppe Conte è stato, o è apparso, sobrio nel commento di un buon passaggio, obiettivamente, per il suo governo e la convulsa maggioranza giallorossa che lo sostiene. Egli ha definito “il migliore risultato possibile” quello che stava maturando nella maratona del Consiglio Europeo a Bruxelles.

            Il presidente del Consiglio è stato -o è apparso, ripeto, con riserva rispetto a quello che potrà L'assegno di Conte.jpegdire in seguito- più sobrio dei suoi maggiori sostenitori in Italia. Che sulla prima pagina del Fatto Quotidiano, per esempio, il giornale che lo adora di giorno e di notte, è stato rappresentato con un assegnone sotto braccio di ben 209 miliardi di euro: 36 “in più” del previsto o del calcolato, non si è ben capito, prima del vertice.

            Di questi 209 miliardi, comunque non immediatamente disponibili, 82 saranno di sussidi a fondo perduto e 127 di prestiti rimborsabili in Il Fattodieci anni ad un tasso conveniente. La loro erogazione avverrà con procedure e controlli manifesto.jpegmeno rischiosi o minacciosi di quanto avrebbero voluto i cosiddetti “frugali” guidati dal premier olandese Mark Rutte, cui ha alluso il manifesto nel titolo sull’”affondo perduto”.

            Più di Conte, tuttavia, e anche del suo dito puntato contro Rutte quando gli ha detto che stava comportandosi come un cattivo giocatore, interessato più alle vicine elezioni politiche olandesi che al destino di un’Europa solidale ed efficiente, ha contribuito al risultato finale – con i 750 miliardi del “Recovery fund” divisi fra 390 a fondo perduto e 360 di prestiti, per la ripresa dopo la crisi prodotta dall’emergenza virale- la tenuta politica della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente francese Emmanuel Macron. Sul cui cedimento avevano invece scommesso i “frugali”.

            Conte ha già anticipato da Bruxelles che intende investire il risultato indubbiamente buono del Consiglio Europeo sottraendosi in Italia all’assedio del Pd, di Renzi e delle regioni -anche di quelle amministrate da un centrodestra dove prevalgono i cosiddetti sovranisti della Lega di Matteo Salvini e dei fratelli d’Italia di Giorgia Meloni- per l’uso anche dei circa 37 miliardi, peraltro disponibili immediatamente, messi a disposizione  dal cosiddetto fondo salva-Stati, noto ormai con la sigla del Mes, e destinabili solo al potenziamento del sistema sanitario.

            Il rifiuto di questo finanziamento, per quanto rimborsabile ad un tasso vantaggiosissimo, è sostenuto dai grillini. Che ne hanno fatto una questione di principio, o di bandiera, e che il presidente del Consiglio teme notoriamente di sfidare, anche a costo di spaccarli o di perderli, in un passaggio parlamentare reclamato invece dal secondo partito della maggioranza e dai renziani. Che contano anche sulle aperture, anzi sulla disponibilità al sì ripetutamente annunciata dai forzisti di Silvio Berlusconi.

            Di questa partita, diciamo così, supplementare – ma non troppo- non resta che attendere gli sviluppi, insieme ad altri conflitti che stanno maturando trasversalmente, nella maggioranza e nell’opposizione, come quello sulla nuova legge elettorale prevedibilmente proporzionale. Che allontana Renzi dalle altre componenti della maggioranza e lo avvicina a berlusconiani e altre componenti di un potenziale schieramento di centro, tentato dalla prospettiva non solo di salvarsi, ma anche di fare da ago della bilancia nei prossimi scenari politici.  

 

 

 

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Occhetto lamenta i guasti politici di “Mani pulite” dopo averle cavalcate

A distanza di 31 anni dalla caduta del muro di Berlino emblematico del comunismo, e a 28 dal crollo giudiziario della cosiddetta prima Repubblica con l’esplosione di Tangentopoli e le Occhetto e Veltroniindagini note come “Mani pulite”, potrebbe apparire ozioso o quanto meno inattuale fare le pulci, diciamo così, a qualcuno dei protagonisti di allora della politica italiana che riscrive quella storia a modo suo, dimenticando o omettendo passaggi per lui troppo scomodi. E’ appena accaduto all’ultimo segretario del Pci, l’ormai ottantaquattrenne Achille Occhetto, nella lunga e, a dir poco benevola, intervista fattagli per il Corriere della Sera dall’ex compagno di partito e poi primo segretario del Pd Walter Veltroni.

Maggiori problemi, obiettivamente, premono sulla collettività nazionale ed assorbono l’attenzione, le ansie, le paure, più ancora delle speranze del nostro Paese. Che però deve i suoi guai – a cominciare dalla intricatissima e paralizzante situazione politica, fatta di equilibri anomali non estranei alle difficoltà, a dir poco, della partecipazione all’Unione Europea, come ha appena dimostrato il vertice comunitario a Bruxelles-  ai guai della sinistra. Da cui derivò nel 1994 la nascita, per reazione, di un centrodestra non meno anomalo del campo opposto.

A sentire Occhetto, o a risentirlo, i guai della sinistra italiana derivano dal solito Bettino Craxi. Che, caduto il muro di Berlino, prima cercò di annettersi l’orfano Pci con una “unità socialista” affissa sui muri o stampata sulle bandiere del Psi, alle finestre della sede di via del Corso, con la smania del conquistatore. E poi, per amore di potere e paura di rompere con la Dc, coprendosi Craxi e Occhetto.jpegdietro gli umori e le avidità dei suoi compagni di partito, avrebbe lasciato cadere l’offerta fattagli proprio da Occhetto di rifondare la sinistra, o unirla, in un bagno di opposizione che sarebbe stato di breve durata.  Prima o dopo essa avrebbe espresso, secondo Occhetto, tale e tanta “energia” da eliminare il vantaggio numerico di cui lo scudo crociato avrebbe potuto ancora disporre recuperando i vecchi alleati di centro, dopo le elezioni del 1992,  e spostandosi a destra.

“Forse hai ragione”, ha raccontato Occhetto riferendo della risposta ricevuta da Craxi in un incontro apertosi in modo già assai poco promettente, parlando “dell’odio che ormai c’era tra i popoli socialista e comunista”. Ma a quel riconoscimento della ragione del suo interlocutore Craxi avrebbe aggiunto, riferendosi al proprio partito: “Questi che mi stanno intorno, se vado anche solo un giorno all’opposizione, mi fanno fuori”: forse persino Claudio Martelli, col quale lo stesso Occhetto ha raccontato, o confermato, di avere instaurato allora un rapporto diretto, persino comiziando insieme in una piazza al Nord. Ma Martelli si era spinto -anche se l’ex segretario del Pci non lo ha ricordato- a offrirsi in qualche modo al presidente della Repubblica in carica in quel momento, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, per la guida, o la partecipazione ad un governo con la Dc guidato da Enzo Scotti, in grado di guadagnarsi la benevola astensione o attenzione del Pds-ex Pci.

Credo sinceramente a quel “forse hai ragione” di Craxi raccontato da Occhetto perché posso testimoniare personalmente l’apertura, del resto fatta persino in pubblico, del leader socialista nella direzione voluta dal suo dirimpettaio di sinistra. “Insieme al governo o all’opposizione”, disse in una dichiarazione Craxi parlando del Pci dopo le elezioni del 1992 vinte, ma su misura, dal vecchio centrosinistra allargato nel cosiddetto “pentapartito” ai liberali. Proprio a me – che gli feci notare in una telefonata, dopo avere raccolto le preoccupazioni del nostro comune amico e segretario della Dc Arnaldo Forlani, il curioso “ritorno” di quella sua enunciazione alla linea del predecessore alla guida del Psi Francesco De Martino appiattita sui comunisti- Craxi rispose o spiegò, come preferite: “E’ un passaggio tecnico che debbo concedere a Occhetto per la modestia del risultato elettorale, ma sarà inutile. A liquidare il problema saranno gli stessi comunisti o post-comunisti, come preferiscono essere chiamati”. Non aveva torto.

In effetti, dopo qualche giorno, quando si era appena aperta una riunione della direzione socialista in cui si doveva mettere a punto la linea del Psi per l’avvio della nuova legislatura, arrivò dalla direzione del Pci, riunita anch’essa, una pregiudiziale “di carattere morale” Martelli e Craxi.jpegsollevata contro Craxi e il suo partito da Occhetto. Era una pregiudiziale ostativa sia di una maggioranza sia di un’opposizione comune. Di fronte a quella specie di schiaffo Martelli sbiancò. Craxi invece sorrise per la conferma che aveva appena ricevuto delle sue convinzioni sul conto dei fratelli o compagni-coltelli della sinistra.

Lo stesso Occhetto, d’altronde, nell’intervista a Veltroni, guardatosi bene dal contrastarne in qualche modo il racconto, ha riconosciuto che la caduta del comunismo avrebbe potuto provocare ben altri sviluppi nella sinistra italiana se non ci fosse stata la “sovrapposizione” -l’ha chiamata  così, precisando di non voler con ciò fare polemica con i magistrati- di “Mani pulite”. Che fece “sfuggire il controllo del processo alla politica”, intendendosi ovviamente per processo l’evoluzione dei rapporti nella sinistra.

Ma a cavalcare le inchieste giudiziarie sul diffusissimo fenomeno del finanziamento illegale dei partiti,  pur di  demolire i socialisti e spingere Craxi all’esilio -o latitanza, come preferiscono ancora chiamarla i suoi avversari anche dopo la morte- fu dalle sue parti proprio Occhetto. Che a questo punto, francamente, non può lamentarsene, e neppure dare l’impressione di farlo, senza offendere insieme la verità e l’intelligenza comune.

Ora l’ultimo segretario del Pci si goda pure i risultati dei suoi errori: dalla sconfitta elettorale, politica e personale, del 1994 ad opera di Berlusconi alla convivenza spesso subalterna di quel che è rimasto della sinistra con i grillini. Che Massimo D’Alema considera, come i leghisti degli anni di Bossi, una costola della sinistra malmessa, come si vede, da parecchio tempo.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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