La maggioranza scivola sulla buccia di banana di Pietro Grasso al Senato

             Il ristabilimento di un minimo di rapporti normali fra il Parlamento e il Governo, praticamente imposto dalla presidente del Senato in occasione della proroga dello stato di emergenza virale solo sino al 15 ottobre, e con tanto di autorizzazione preventiva delle Camere, ha messo in evidenza ancora più di prima il carattere quanto meno anomalo, e politicamente assai debole, di una maggioranza che vive più di divisioni che di condivisioni, più di contrasti che di concordia.

            Proprio al Senato il governo ha portato a casa con la dovuta maggioranza assoluta dei voti dei componenti dell’assemblea il cosiddetto sforamento di bilancio per altri 25 miliardi di euro, ma fra le proteste e le delusioni neppure tanto nascoste dei grillini per una risoluzione, di cui evidentemente non si erano accorti, che apre all’uso dei fondi comunitari già disponibili per il potenziamento del sistema sanitario. Sono i soldi in prestito del meccanismo europeo di stabilità -Mes- che il Movimento 5 Stelle considera, al pari dei leghisti e dei fratelli d’Italia sui banchi dell’opposizione di centrodestra, una trappola bestiale per l’Italia, per quanto a tasso vicino allo zero.

            Sempre al Senato, nella stessa giornata, la maggioranza non ha retto all’accordo sulla rispartizione, a metà legislatura, delle presidenze delle commissioni, per cui quelle dell’Agricoltura e della Giustizia sono rimaste agli odiati leghisti. Particolarmente cocente, sul piano personale e politico, per i suoi precedenti professionali e parlamentari, è stata la sconfitta dell’ex presidente dell’assemblea Pietro Grasso nella corsa alla guida della commissione Giustizia.

            Dev’essere apparso quanto meno anacronistico a buona parte della stessa maggioranza che a quel posto dovesse andare non solo e non tanto un ex magistrato quanto un ex presidente Il Fatto.jpegdel Senato che in quella veste qualche anno fa negò -per esempio- la concessione di una sala di Palazzo Madama, o dell’attiguo Palazzo Giustiniani, alla presentazione di un libro contenente le lettere inviate dal compianto Enzo Tortora alla sua compagna durante la detenzione per presunto spaccio di droga e associazione camorristica. Eppure quella del celebre conduttore televisivo, e poi parlamentare del partito radicale di Marco Pannella, è la storia emblematica di una giustizia amministrata nel peggiore dei modi, inseguendo e coltivando pentiti inattendibili e premiando nelle carriere magistrati rivelatisi così chiaramente e scandalosamente non all’altezza dei loro compiti, giustamente sconfessati alla fine della lunga vicenda processuale costata comunque a Tortora  la salute.

            Candidare Grasso, della sinistra dei “liberi e uguali”, alla presidenza della Commissione Giustizia del Senato  ha avuto ad un certo punto il sapore, per i suoi avversari e concorrenti politici, di una provocazione  con effetti che non era certamente difficile prevedere. Ma non per questo egli si asterrà oggi -c’è da scommettervi- dal fare la sua parte nell’aula di Salvini.jpegPalazzo Madama per cercare di mandare sotto processo l’ex ministro dell’Interno e tuttora leader leghista Matteo Salvini per sequestro di persona nella vicenda della nave “Open Arms”. Dalla quale il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si limitò l’anno scorso,  durante la crisi di governo, ad ordinare lo sbarco dei minori, consentendo quindi il trattenimento a bordo degli altri, in attesa di una loro distribuzione fra più paesi europei, e tuttavia negando a Salvini la copertura del governo nella diatriba giudiziaria che ne è derivata.

 

 

 

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Come la presidente del Senato ha restituito la centralità alle Camere

Oltre e più ancora della partita all’interno della maggioranza sulla durata della proroga dello stato di emergenza virale, retrocessa dall’originario 31 dicembre al 15 ottobre per le resistenze combinate del Pd di Nicola Zingaretti e dell’Italia Viva di Matteo Renzi, si è giocata al Senato – e ripetuta poi alla Camera- una partita istituzionale che porta il nome, e il polso, della presidente dell’assemblea Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e ancor più i suoi sostenitori più accaniti sul fronte giornalistico hanno compiuto l’errore di sottovalutare.

Quando comparvero le prime indiscrezioni sulla volontà di Conte di prorogare di ben cinque mesi lo stato di emergenza proclamato sino al 31 luglio all’esplosione dell’epidemia virale anche in Italia, la Casellati alzò subito la voce reclamando un passaggio per fare uscire il Parlamento dalla clandestinità, o quasi, in cui era stato ridotto dalla gestione tutta governativa dell’eccezionalità della situazione.

La seconda carica dello Stato, presumibilmente convinta di esprimere umori e sentimenti condivisi dalla prima, cioè dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, denunciò lo stato di “invisibili della Carta” costituzionale in cui si trovavano ormai da troppo tempo i parlamentari, pur costretti ad una serie smisurata di votazioni di fiducia per la “conversione” dei decreti legge sfornati dal governo fra un decreto e l’altro del presidente del Consiglio dei Ministri, che neppure passavano per le commissioni e le aule del Parlamento.

La sortita della presidente del Senato fu derisa dal Fatto Quotidiano, che l’accusò -testualmente- di essersi “sparata sui piedi” per avere scambiato le comunicazioni già in programma del ministro della Sanità in quei giorni sulla proroga di alcune misure che stavano per scadere con quelle che il presidente del Consiglio si sarebbe già proposto di fare più in là per spiegare le ragioni della proroga, più in generale, dello stato di emergenza proclamato a fine gennaio. Per tutta risposta la presidente del Senato fece votare l’assemblea anche sulle comunicazioni brevi, diciamo così, del ministro della Salute Roberto Speranza.

Passato qualche giorno, senza lasciarsi impressionare più di tanto dal cesarismo scolpito sul nome di Conte dai sostenitori al termine del lungo e travagliato Consiglio Europeo sul “Recovery fund”, come se l’accordo a Bruxelles fosse stato solo merito del presidente del Consiglio italiano e non Giuseppe Conte.jpegsoprattutto della presidente di turno dell’Unione e cancelliera tedesca Angela Merkel, la presidente del Senato rinfrescò moniti e memoria con una intervista al Messaggero. Il cui titolo, proiettato sui passaggi successivi a quel vertice, compreso quello relativo alla proroga dello stato di emergenza, non poteva essere più netto e chiaro: “Il premier non faccia da solo. L’ultima parola è delle Camere”.

Il plurale s’intendeva naturalmente come atto di riguardo al Parlamento nella sua interezza, e quindi anche al presidente di Montecitorio: il grillino Roberto Fico. Che, volente o nolente, viene spesso messo dal suo partito nelle stesse difficoltà in cui un suo predecessore, Gianfranco Fini, metteva -sino alla rottura definitiva- il suo partito o schieramento di appartenenza o provenienza ai tempi dell’ultimo governo di Silvio Berlusconi. Alludo naturalmente al Pdl, dove erano confluite Forza Italia e Alleanza Nazionale, già Movimento Sociale.

Con la proroga, unica e ultima, dello stato di emergenza virale al 15 ottobre, peraltro accompagnata dalla preminenza restituita ai decreti legge rispetto agli abusati decreti del presidente del Consiglio dei Ministri, la presidente del Senato può ben ritenere di avere consentito, anzi determinato, un riallineamento dei rapporti fra il Parlamento e il Governo, o viceversa, con tutte le maiuscole del caso. E’ stata in qualche modo restituita la visibilità agli “invisibili” dei mesi passati.

Chiamatela pure ironicamente “Queen Elisabeth”, signori sostenitori ad oltranza del presidente del Consiglio e di quel “narcisismo della popolarità” stigmatizzato sul Corriere della Sera dal pur cauto Massimo Franco, ma la presidente del Senato ha giocato e vinto in questi giorni una partita mica da poco sullo scenario istituzionale e persino politico.

Dovrebbe tenerne conto anche il leader leghista ed ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, le cui recenti esibizioni senza mascherina di protezione per sé e per gli altri, all’insegna di un “negazionismo” dell’emergenza virale che ha allarmato anche Andrea Bocelli dopo avervi partecipato con l’immancabile Vittorio Sgarbi e altri, la presidente del Senato ha affidato all’esame degli onorevoli questori di Palazzo Madama.

Non rischierà processi almeno per questo, si spera, bastando e avanzando quelli che si è già procurato o sta ancora procurandosi per sequestro di persone quando era al Viminale, ma è forse il caso che anche Salvini si dia una regolata in questi tempi di pericolo o rischio non ancora cessato da coronavirus.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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