Occhio, per cortesia, alla vicenda grillina di Giulia Sarti e ….ai giornaloni

            Non so francamente chi esca peggio -fra i giornali, il Movimento delle cinque stelle e i protagonisti, o attori- dalla vicenda Sarti. Che è il cognome di Giulia, la dimissionaria -si spera- presidente grillina della commissione Giustizia della Camera autosospesasi dal partito, in attesa dell’espulsione, per essere stata praticamente smascherata da un procuratore della Repubblica di Rimini dopo avere falsamente denunciato il suo ex compagno di non versato nella scorsa legislatura più di ventimila euro da lei destinati, secondo gli obblighi contrattuali col partito, ad un fondo di credito per le piccole aziende in difficoltà.

           Scoperta nella sua insolvenza già l’anno scorso, nelle ultime battute della passata legislatura, dalle iene televisive di Mediaset, e a rischio quindi di sanzioni disciplinari ma soprattutto di mancata Bogdan.jpgricandidatura alle elezioni del 4 marzo 2018, la signora riferì al suo fidanzato, o già ex allora, Bogdan Tibusche con chat fortunatamente trattenute dall’interessato di doverlo denunciare di ammanco, o qualcosa del genere, nella gestione del suo conto bancario su suggerimento dei responsabili della comunicazione del Movimento -Rocco Casalino e Ilaria Loquenzi-  per salvarsi dalla fine della carriera politica.

            Il pubblico ministero di Rimini, dove la deputata risiede, ha impiegato -mi permetto di osservare- un anno per venire a capo della vicenda ma alla fine ha ristabilito la verità. Il giovane Tibusche, di origini rumene, si è salvato dal ruolo infame di vittima designata. E la signora Sarti, per quanto onorevole di nome o consuetudine perché deputata, ricandidata e rieletta l’anno scorso, e infine promossa al vertice di una commissione importante come quella della Giustizia, con la maiuscola, è precipitata nei guai. Dal fondo dei quali ha tuttavia cercato di smentireRocco Casalino.jpg ciò che pure aveva comunicato al povero Tibusche, cioè di averlo dovuto denunciare su suggerimento di Casalino, nel frattempo diventato portavoce del presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Ma a Casalino, presumibilmente pago di una simile smentita, che in effetti confermava la sua dichiarata estraneità alla decisione della Sarti di denunciare l’incolpevole collaboratore ed ex compagno, quest’ultimo ha reagito documentando a sua volta di avergli girato l’anno scorso le comunicazioni della deputata. E quindi cercando in qualche modo di ricoinvolgerlo in quella che Emanuele Macaluso ha appena definito sul suo blog “una piccola storia ignobile”.

             Questi sono all’incirca i fatti, ricostruiti dalle informazioni giornalistiche magari parziali o inesatte, per carità, ma stampate su carta o diffuse elettronicamente. Sono fatti “piccoli” pur nell’aspetto “ignobile” avvertito e lamentato da Macaluso, ma ben significativi forse -o senza forse- della natura e/o del clima in cui si vive in un movimento che è diventato l’anno scorso il primo partito italiano e guida il governo in alleanza col “capitano” leghista Matteo Salvini: entrambi ben decisi a governare sino alla conclusione ordinaria della legislatura. E ciò, nonostante le ormai ricorrenti batoste elettorali dei grillini a livello regionale, le difficoltà che cominciano ad incontrare nelle urne anche i leghisti dopo un’ascesa che sembrava irresistibile, l’aggravamento della situazione economica e la pioggia di bocciature e di moniti proveniente dagli organismi europei e mondiali: tutti liquidati sbrigativamente a Palazzo Chigi e dintorni come inattendibili. E magari commissionati per vendetta, come i voti sardi, secondo talune dichiarazioni rilasciate dal vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio, dalle banche e dalle assicurazioni appena sottoposte ad una spremuta fiscale dal governo gialloverde.

           Ebbene, la vicenda Sarti, chiamiamola così, è approdata oggi, giovedì 28 febbraio 2018, con richiami e richiamini di articoli destinati all’interno sulle prime pagine di 7 dei 18 giornali che ho potuto consultare con la rassegna stampa del Senato della Repubblica, più completa e cronologicamente tempestiva di quella della Camera. Ieri le prime pagine, sempre a suon di richiami, erano state ancora di meno: 4 su 18. Più grandi o diffusi sono i giornali, più grande o assordante è stato il silenzio delle loro vetrine.

           Detto questo, debbo però riconoscere al giornale generalmente meglio disposto verso i grillini, che è naturalmenteVauro.jpg Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, di essere stato il più corrosivo nel trattamento della vicenda. Non vi ha aperto, come si dice in gergo tecnico quando si parla dell’argomento principale proposto ai lettori con la titolazione più vistosa, ma il pur un pò ermetico richiamo -parzialmente in rosso- del caso Sarti a metà della prima pagina è sormontato da una vignetta di Vauro Senesi che non fa certo sconti al movimento delle cinque stelle e al suo capo. “Ora basta!”, grida nel titolo lo stesso Vauro spiegando: “In questa vignetta ci sarebbe dovuto essere Luigi Di Maio…..ma non me la sento di infierire”. E ci mette alla fine “una prece!”. E’ stata così servita anche la cosiddetta grande stampa d’informazione.

 

 

 

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La falsa ostentazione muscolare di Di Maio, ma anche di Salvini

           Il paradosso è solo apparente. La debolezza politica del vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio, dopo gli incidenti elettorali in Abruzzo e ancor più in Sardegna, dove il suo movimento è precipitato in meno di un anno da oltre il 42 a sotto il 10 per cento dei voti, sta proprio nella forza ostentata ricordando ai critici e agli avversari, interni ed esterni, la durata quinquennale del proprio mandato di capo delle cinque stelle. Un mandato cui, essendo passato poco meno di un anno e mezzo dall’inizio, ne resterebbero pertanto poco più di tre e mezzo, arrotondati generosamente a quattro. Ma raddoppiabili a dieci nella versione degli amici, sparata addirittura in qualche titolo di prima pagina, per via dei due mandati consentiti ai grillini in carriera.

          Va bene che Di Maio, come lo ha ironicamente rappresentato il vignettista Nico Pillinini sulla Gazzetta del Mezzogiorno, cerca di barcamenarsi fra le tegole lanciategli addosso dagli elettori e le nuove regole che lui vorrebbe introdurre sotto le cinque stelle, ma è francamente eccessivo pretendere che si ignori la natura tutta particolare del suo movimento. Che può esserne stata per un po’ la forza, ma si sta impietosamente rivelando anche la debolezza.vorrebbe Gazzetta.jpg

          Il mandato di Di Maio come capo del movimento delle cinque stelle, per quanto compulsato non ricordo più da quanti iscritti, o simili, sui computer di casa, d’ufficio o di strada,  è revocabile in ogni ora o minuto del giorno dal capo vero, che è rimasto, pur con la maschera di “garante”, “elevato” e non so cos’altro, Beppe Grillo. Dai cui dintorni sono arrivate voci e persino notizie, sinora non smentite, di serie delusioni e preoccupazioni: addirittura di dubbi sul “livello” del personale politico del movimento rispetto alle dimensioni assunte dai problemi di un Paese entrato peraltro in recessione. Che è una cosa seria, per quanto lo stesso Di Maio e ancor più il presidente del Consiglio Giuseppe Conte cerchino di voltare la faccia dall’altra parte, e persino di riproporre le previsioni di un miracolo economico e di un 2019 indimenticabile perché “bellissimo”, anziché bruttissimo.

          L’altro elemento che rende farlocca la forza ostentata da Di Maio è la sua scommessa implicita, colta nella vignetta di Emilio Giannelli per la prima pagina del Corriere della Sera, sul sostegno dell’altro vice presidente del Consiglio, Matteo Salvini. Che però non è notoriamente un suo collega di movimento, ma il leader di un curioso partito alleato come la Lega, le cui fortune elettorali sono e non possono che continuare ad essere inversamente proporzionali a quelle delle cinque stelle. Diversamente o salta Salvini nella Lega, a dispetto del controllo totale che “il capitano” sembra averne, o salta la Lega con Salvini.

          E’ inutile che Di Maio si faccia illusioni in senso diverso o contrario. Ed è inutile che se ne faccia anche Salvini, se fossero autentiche e non di facciata, o di spettacolo, le sfide che egli va lanciando in questi giorni manifesto.jpge in queste ore a chi gli chiede più prudenza. O più coraggio, secondo i punti di vista. Pure Salvini dopo la sostanziale fermata registrata in Sardegna rispetto all’andamento generale e alle attese, rischia -al pari del capitombolato Di Maio-  di ritrovarsi “senza tetto”, per ripetere quel titolo a doppio senso, e anche più, del sempre brillante manifesto, con quella minuscola elegantemente voluta dai fondatori.

 

 

 

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Salvini soccorre l’amico Di Maio tra le macerie grilline in Sardegna

           Le due immagini speculari del melodramma prodotto dalle elezioni regionali sarde sono quelle del capo -non so ancora per quando- del movimento delle 5 stelle, Luigi Di Maio, che esce impettito da Palazzo Chigi per liquidare come “accozzaglia” il centrodestra uscito vincente dalle urne, e del capo della Lega Matteo Salvini, omologo dello stesso Di Maio alla vice presidenza del Consiglio dei Ministri, che asseconda l’amico.

           Avvolto questa volta in un giubbotto bianco con i quattro mori della bandiera sarda bene in vista e Salvini.jpgsprofondato nella poltrona, o schierato davanti alla telecamera di turno, Salvini si è quasi  scusato con l’amico Di Maio per il colpo che egli contribuito, sia pure modestamente, a infliggergli e lo ha incoraggiato a sorridere dell’accaduto. Rolli.jpgCome se l’amico non fosse neppure scivolato sul latte sparso dai pastori sulle strade sarde, secondo una delle tante vignette -quella di Stefano Rolli-  che hanno cercato di rappresentare sulle prime pagine dei giornali l’esito del voto nell’isola.

            Il governo -ha garantito Salvini all’amico- potrà continuare più o meno tranquillamente ad andare avanti verso l’obiettivo della durata di cinque anni, costi quel che costi al Paese entrato intanto in recessione. E Silvio Berlusconi la smetta di frignare e di chiamarlo al telefono, o di lanciargli messaggi e moniti, perché -gli ricordato esplicitamente il leader leghista al Cavaliere- fu proprio lui l’anno scorso a consentirgli di mettersi in aspettativa dal centrodestra a livello nazionale per “provare” a governare con i grillini.

            C’è un non detto pubblicamente di Salvini a Berlusconi che è questo: perché ti lamenti se sto tagliando Vauro.jpga fette il salame grillino ? Che è poi il ragionamento tradotto dal vignettista del Fatto Quotidiano, Vauro Senesi, nel Salvini che abbraccia Di Maio scuotendolo rovinosamente, gli chiede se regge al gioco e si sente rispondere di sì, nella speranza evidentemente che nessuno nel movimento delle cinque stelle ormai filanti abbia davvero la voglia e la forza di liberarsi di un capo del genere e di interrompere quella danza mortale.

           Ebbene, messo il discorso in questi termini, si potrebbe riconoscere a Salvini doti geniali, e liquidare davvero Berlusconi come uno sprovveduto, un dilettante della politica nonostante i venticinque anni e più trascorsi dal suo esordio. E che esordio, con quella vittoria elettorale nel 1994 sulla “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto e il suo’arrivo bruciante a Palazzo Chigi. Gazzetta.jpgMa in Sardegna è accaduto qualcosa che Salvini ha fatto e fa finta di non vedere. Egli ha smesso, almeno nell’isola, di guadagnare voti ai danni, contemporaneamente, dei suoi alleati a livello nazionale e locale, ai danni cioè dei partiti di Berlusconi e di Di Maio.

          Rispetto alle elezioni politiche di meno di un anno fa Berlusconi, scendendo all’8 per cento ha perso in Sardegna altri 69 mila voti e di Maio addirittura 297 mila, precipitando da oltre il 42 per cento a meno del 10 per cento dei voti. Il partito di Salvini, pur raccogliendo qualcosa meno di un pur ragguardevole 11,5 per cento, ha perso quattromila voti. E li ha persi nonostante, o forse proprio a causa della forte esposizione personale cercata nell’isola sfruttando tutte le occasioni possibili e immaginabili: a cominciare dalla vertenza del latte delle pecore, che non è peraltro riuscito a comporre nonostante disponesse del Ministero dell’Agricoltura retto da un leghista.

           La sovraesposizione di Salvini è stata tale da danneggiare il pur vincente candidato del centrodestra alla manifesto.jpgcarica di governatore, l’ormai ex senatore sardoleghista Christian Solinas. Che non a caso ha festeggiato la vittoria ringraziando i sardi e spendendo per Salvini qualche parola, a volte persino imbarazzata, se richiesto dai giornalisti.

           Ritrovata la sua visibilità sul palco del vincitore, il nuovo governatore della Sardegna sa, fra l’altro, che nella difficile gestione dell’ancor più difficile Sardegna egli dovrà fare i conti non con l’opposizione grillina a brandelli, per quanto esordiente nel Consiglio regionale,  ma con un centrosinistra per niente morto. Che è stato distanziato di ben 14 punti da un centrodestra avvicinatosi al 48 per cento. ma è guidato da un Pd che si è rivelato il primo partito dell’isola, seguito e non preceduto, come sperava Salvini, dalla Lega. E ciò a dispetto della vittoria tennistica di sei a zero vantato dallo stesso Salvini a livello nazionale proprio sul Pd riepilogando le elezioni locali seguite a quelle nazionali dell’anno scorso.

 

 

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Ecco come la politica si è trovata a procedere al passo della magistratura

            Capisco il fastidio, ed anche qualcosa di più, di un magistrato di punta com’è stato per tanti anni Armando Spataro, e che ne ha scritto su Repubblica del 22 febbraio Spataro.jpgdopo averne discusso nella Piazza pulita televisiva di Corrado Formigli, a sentir parlare di “giustizia ad orologeria” ogni qualvolta si incrociano le cronache giudiziarie e quelle politiche. Cioè, ogni qualvolta una iniziativa giudiziaria, dall’apertura di un’indagine a un avviso di garanzia, da un arresto cautelare a un rinvio a giudizio, da una richiesta di autorizzazione a procedere a una sentenza, di qualsiasi grado essa sia, coincide con un passaggio politico. E finisce in qualche modo per condizionarne gli sviluppi, volente o nolente il magistrato di turno, o il giornalista che ne tratta.

In un paese come l’Italia, dove si è praticamente sempre in campagna elettorale e l’instabilità è cronica anche in assenza di una crisi di governo, ma solo aspettandola o prevedendola, magari senza che nessuno manovri davvero per arrivarvi perché spesso i partiti non riescono a fare neppure questo, lasciandosi sorprendere e  precedere dai fatti; in un paese, dicevo, come questo è comprensibile anche che il buon ex procuratore capo della Repubblica di Torino si chieda e chieda all’interlocutore di turno come, quando e chi possa garantire un’azione giudiziaria davvero neutra rispetto al calendario della politica. E’ come pretendere da un autista di non investire nessuno delle centinaia di gratti che gli attraversano la strada, o dai gatti di farla tutti franca.

Capisco Spataro anche quando oppone dialetticamente, elenco alla mano dei provvedimenti approvati dalle Camere su iniziativa del governo di turno o di singoli  parlamentari, all’immagine della “giustizia ad orologeria” quella delle “leggi ad orologeria”. Che partono o arrivano, o partono e arrivano, in tempo per cambiare regole giudiziarie scomode a chi guida la baracca del governo, o piegarle comunque agli interessi della maggioranza del momento. E finiscono magari, queste “leggi ad orologeria”, per essere bocciate dalla Corte Costituzionale, che giustamente non è vincolata -ci mancherebbe altro- ai pareri di legittimità espressi in sede parlamentare durante l’esame delle proposte o dei disegni di legge, e neppure alla firma poi apposta, per la pubblicazione e promulgazione, dal presidente della Repubblica. Che qualche volta, sollecitato al rifiuto dalle opposizioni, ha sentito anche il bisogno di motivare la firma con dichiarazioni o comunicati.

Convengo con Spataro e col suo elenco a condizione però che l’uno e l’altro ricordino o contengano, rispettivamente, anche le leggi “ad orologeria” inversa, maturate e arrivate a destinazione, o dirottate, per assecondare la magistratura, o il suo lavoro di giornata o di stagione.

Penso, per esempio, in ordine rigorosamente di tempo, alla cosiddetta legge Vassalli, dal nome dell’allora ministro della Giustizia. Che nel 1988, pochi mesi dopo un referendum stravinto dai Il Dubbio.jpgsostenitori della cosiddetta responsabilità civile dei magistrati, ne limitò duramente gli effetti disciplinando la materia in modo tale che le cose tornassero praticamente allo stato di prima, o quasi. Di quella nuova legge, se non ricordo male, fu possibile l’applicazione non più di una decina di volte in una ventina d’anni, tanto bene era stata congegnata per rendere dura la vita a chi avesse voluto usarla.

Penso al decreto legge della primavera del 1993 per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli, faticosamente varato dal primo governo di Giuliano Amato in una lunghissima seduta del Consiglio dei Ministri, più volte interrotta per consultazioni telefoniche e d’altro tipo con gli uffici del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, se non con Scalfaro in persona. Che la respinse al mittente solo dopo una clamorosa protesta dell’allora capo della Procura della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Il quale motivò il suo dissenso, oltre che a difesa del lavoro dei suoi uffici, per smentire che i magistrati impegnati nella famosa inchiesta “Mani pulite” su Tangentopoli avessero in qualche modo contribuito, fra partecipazioni a convegni e conversazioni private, a studiare come uscirne appunto politicamente.

Penso alle modifiche apportate in quello stesso anno all’articolo 68 della Costituzione, con tutte le complesse modalità del caso, per ridurre le immunità parlamentari e rendere più spedito il lavoro della magistratura. Che da allora fu costretta al vecchio istituto della richiesta di autorizzazione a procedere solo per l’arresto, le perquisizioni e le intercettazioni dei deputati o senatori indagati, destinati peraltro a finire lo stesso sotto controllo indiretto, perché chiamati o incontrati da intercettati.

Si intervenne anche sui regolamenti parlamentari, o sulle prassi, per togliere l’incomodo delle votazioni a scrutinio segreto dopo le sorprese da esse riservate per alcune delle vecchie autorizzazioni a procedere chieste a carico di Bettino Craxi e bocciate  a Montecitorio nella primavera del 1993, col seguito immondo delle monetine lanciate contro il leader socialista all’uscita dall’albergo romano in cui abitava.

Poi sul processo per mafia a Giulio Andreotti si votò, per esempio, nell’aula del Senato alzando la mano. E l’alzò persino Andreotti, dal suo scranno di senatore a vita rimasto segnato dalla storica gobba ricordato di recedente dalla presidente dell’assemblea nel centenario della nascita dell’ex presidente del Consiglio. Egli volle così allontanare da sé il sospetto già di per sé infamante che non fidasse abbastanza della giustizia, e dei suoi gestori, o gestanti.

Penso al decreto legge varato nel 1994 dal primo governo di Silvio Berlusconi per limitare il ricorso alle manette durante le indagini preliminari. Esso fu quella volta regolarmente firmato da Scalfaro, sempre al Quirinale, ma bastò un proclama congiunto dell’allora sostituto Antonio Di Pietro e dei suoi colleghi della Procura di Milano per fare rinsavire, diciamo così, nella Camera.jpgmaggioranza ministri e parlamentari della Lega di Umberto Bossi, che lo lasciarono decadere minacciando la crisi. Ma essa sopraggiunge lo stesso, dopo qualche mese, peraltro in coincidenza con un avviso a comparire notificato all’ancora presidente del Consiglio Berlusconi a mezzo stampa, mentre presiedeva una conferenza internazionale sulla lotta alla criminalità promossa a Napoli dalle Nazioni Unite.

Potrei continuare, e anche a lungo, ma credo che possa bastare e avanzare per chiudere questa parte del discorso  o delle riflessioni sortemi spontanee di fronte a quelle di Spataro, e passare agli effetti politici comunque prodotti con regolarità, direi, dalle iniziative giudiziarie casualmente o appositamente incrociatesi -orologio al polso o no- con l’azione del governo di turno o con lo sviluppo dei rapporti fra e nei partiti. E qui mi permetto di cominciare dalla coda, anziché dalla testa, di salire cioè dai fatti più recenti ai più lontani.

Si può ormai considerare respinta la richiesta del cosiddetto tribunale dei ministri di processare per sequestro aggravato di persona, abuso d’ufficio e non ricordo cos’altro ancora il vice presidente leghista e ministro dell’Interno Matteo Salvini, in riferimento alla gestione degli oltre 170 immigrati soccorsi in alto mare nella scorsa estate dal pattugliatore Diciotti della Guardia Schermata 2019-02-26 alle 06.12.39.jpgCostiera italiana e trattenuti per alcuni giorni a bordo nel porto di Catania, prima di essere sbarcati e distribuiti fra più paesi. Manca solo il bollo finale della votazione nell’aula del Senato, dove ben difficilmente potrebbero cambiare gli schieramenti prevalsi col no nella competente giunta presieduta da Maurizio Gasparri. Ma la richiesta è bastata e avanzata prima a portare il governo sull’orlo della crisi, evitata solo quando gli esponenti grillini, a cominciare dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, si sono assunti la corresponsabilità degli addebiti mossi giudiziariamente a Salvini. E ciò anche a costo di aprire a loro volta, direttamente o indirettamente, una crisi all’interno del movimento delle cinque stelle, non so se più fortunosamente o più fortunatamente risolta dal vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio col ricorso al referendum digitale: quello in cui il no al processo è prevalso col 59 per cento dei voti contro il 41.

Al di là, e persino contro il vantaggio d’immagine anche elettorale attribuito a Salvini per questa vicenda, probabilmente destinato alla certificazione anche nei risultati delle votazioni di fine maggio per il rinnovo del Parlamento europeo, è tuttavia derivata nella maggioranza di governo una riduzione del potere contrattuale del suo partito. Che ha dovuto compensativamente accettare, sia pure tra smentite, precisazioni e quant’altro, il rallentamento, quanto meno, delle decisioni sulla Tav, o sulla versione maschile preferita dai grillini leggendo il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, e sulle cosiddette autonomie differenziate. Che sono poi le autonomie rafforzate delle regioni del Nord, rivendicate dai leghisti e temute da quelle del Sud più rappresentate, nella maggioranza, dai grillini.

Compensativo, ma di segno opposto, è risultato il rafforzamento della dura gestione salviniana dell’immigrazione, con la chiusura accelerata dei centri di raccolta e la sostanziale dispersione di quanti vi erano contenuti. Non parliamo poi delle complicazioni sociali derivanti dall’applicazione della nuova legge sulla sicurezza: tanto contestata da essere stata impugnata da un bel po’ di regioni davanti alla Corte Costituzionale. E non parliamo neppure delle proteste dei sindaci sostanzialmente capeggiati da quello di Palermo, Leoluca Orlando, che ha autorizzato l’iscrizione all’anagrafe  del suo Comune anche dei titolari dei permessi umanitari scaduti.

Il cosiddetto tribunale catanese dei ministri, cioè il collegio dei tre giudici sorteggiati al posto del giudice delle indagini preliminari a carico dei cittadini comuni, non era certamente tenuto a valutare questi ed altri effetti politici della sua iniziativa, presa peraltro in difformità dall’archiviazione proposta dalla Procura della Repubblica. Ma non sarebbe stata preferibile una maggiore riflessione? Me lo chiedo ricordando anche le raccomandazioni fatte dall’attuale capo dello Stato e dal suo predecessore negli incontri usuali con le matricole, diciamo così, della magistratura ad esercitare le loro delicatissime funzioni non estraneandosi mai dal “contesto” dell’azione giudiziaria.

Inquirenti, divulgatori e quant’altro del cosiddetto affare Consip, affacciatosi sulle prime pagine dei giornali verso la fine del 2016 ma esploso agli inizi del 2017, dopo la bocciatura del referendum sulla riforma costituzionale targata Matteo Renzi, le dimissioni di quest’ultimo da presidente del Consiglio e la sua conferma a segretario del Pd, possono considerarsi estranei o indifferenti alle sue ricadute politiche? Che si tradussero quanto meno nell’indebolimento ulteriore del pur confermato segretario del Pd, oggi alle prese con gli arresti domiciliari dei suoi anziani genitori per altre vicende ancora, ma già allora non più così forte da fare prevalere, nelle riflessioni e valutazioni spettanti al presidente della Repubblica, la sua linea del ricorso anticipato alle urne. Che Renzi reclamava per cercare di investire su quel rilevante 40 per cento finito in minoranza nel referendum costituzionale. Anziché le elezioni anticipate, Renzi ottenne, diciamo così, il logoramento fisiologicamente derivante dall’ultimo anno della legislatura, aggravato nel suo caso dalla scissione del partito promossa da Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani ed altri.

A cose fatte, cioè ad elezioni avvenute alla scadenza ordinaria, il 4 marzo dell’anno scorso, col Pd ridotto a meno del 19 per cento dei voti, i grillini saliti a più del 32 e i leghisti disposti a dare loro una mano al governo col permesso di un alleato come Silvio Berlusconi, stressato politicamente dal sorpasso di Salvini e non certo invogliato da un ricorso anticipato alle urne, Renzi non riuscì a trattenere per sé la voglia di spalmare sulla sua ferita almeno l’unguento di una recriminazione contro Mattarella. E ancor più contro il suo successore a Palazzo Chigi Paolo Gentiloni, dal quale l’ancora segretario del Pd si era aspettato inutilmente una mano per accelerare la fine della diciassettesima legislatura.

Effetto collaterale, a dir poco, di una iniziativa giudiziaria -quella dell’arresto della moglie dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella- fu nel 2008 la caduta del secondo ed ultimo governo di centrosinistra di Romano Prodi. La cui crisi si trascinò appresso le Camere elette solo due anni prima e consentì il ritorno di Berlusconi col suo centrodestra a Palazzo Chigi, Monti e Berlusconi.jpgnonostante il 30 per cento e più riscosso nelle urne dal Pd fondato l’anno prima con vocazione cosiddetta maggioritaria da Walter Veltroni. Ma anche Berlusconi incrociò, anzi tornò ad  incrociare sulla sua strada  un bel po’ di guai giudiziari che ne aggravarono quanto meno le difficoltà politiche, sino al collasso dell’autunno 2011 e all’arrivo del governo tecnico di Mario Monti.

Saranno stati tutti casi, tutte coincidenze, tutte fatalità. Ma è curioso che la strada della politica italiana sia così affollata di uffici giudiziari e di botteghe di orologiai.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Col voto sardo la seconda caduta di Di Maio dal balcone di Palazzo Chigi

           Dopo tutto il latte versato sulle strade dai pastori, corteggiati dividendosi fra il Viminale e le piazze dell’isola, il leader leghista, vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno ha raccolto latte versato.jpgnelle urne sarde un risultato di cui può consolarsi solo confrontandolo con quello da vero disastro politico del suo omologo grillino Luigi Di Maio. Che, superando il fiasco abruzzese del 10 febbraio, ha visto precipitare il suo movimento pentastellato sotto il 10 per cento, da oltre il 42 raccolto nello stesso territorio nelle elezioni politiche di meno di un anno fa, il 4 marzo del 2018.

          C’è qualcuno, fra i grillini, che ha trovato il modo, ma soprattutto la faccia, di festeggiare lo stesso vantandosi dell’arrivo comunque garantito al MoVimento -come lo scrivono sui manifesti e Il  Fatto.jpgsulle carte intestate- nel Consiglio regionale per la prima volta nella storia dell’autonomia speciale della Sardegna. Chi si accontenta gode, naturalmente. Ma il nuovo “crollo”, certificato anche con tanto di titolone in prima pagina dall’insospettabile Fatto Quotidiano, col realistico richiamo ai voti raccolti nella stessa regione meno -ripeto- di un anno fa, equivale ad una nuova caduta di Luigi Di Maio dal balcone di Palazzo Chigi. Dove il vice presidente grillino del Consiglio, senza bisogno di sfuggire al controllo del presidente Di Maio sul balcone.jpgGiuseppe Conte, che lo aveva lasciato fare condividendone l’entusiasmo, si affacciò una sera dell’autunno scorso per annunciare e festeggiare addirittura la sconfitta della povertà con la decisione appena presa -e poi ritrattata- di sfidare l’Unione Europea e le sue regole portando  il deficit al 2,4 per cento del prodotto interno lordo. E ciò per finanziare il cosiddetto reddito di cittadinanza e la pensione accessibile con 62 anni di età e 38 di contributi.

           Di quella foto storicamente improvvida Di Maio e il suo partito -pardon, MoVimento- stanno ora impietosamente raccogliendo i frutti. Ai pastori, e non solo, abruzzesi e sardi seguiranno probabilmente il 24 marzo i pastori della Basilicata. Poi potrebbe cadere sui grillini -con i tempi della recessione che corrono, nonostante le ostinate previsioni ottimistiche di Conte, e le delusioni o preoccupazioni che crescono fra gli elettori pentastellati dell’anno scorso- il temporale delle elezioni europee e di quelle regionali piemontesi di fine maggio.

            Le difficoltà dei grillini tuttavia non possono bastare a compensare quelle che Salvini, nonostante tutto, cioè nonostante il quasi 12 per cento raccolto in un’isola estranea al radicamento tradizionale della Lega, ha dovuto registrare per il suo partito nell’isola dove pure si era tanto speso in campagna elettorale. Il suo candidato Christian Solinas alla guida della Sardegna -suo più ancora Zedda e Solinas.jpgdel centrodestra, avendolo voluto praticamente imporre dopo averlo fatto eleggere senatore per il Carroccio- ha raccolto circa il 4 per cento in meno consensi della sua coalizione, diversamente da candidato del centrosinistra Massimo Zedda, il giovane sindaco di Cagliari indipendente di sinistra. Che ha preso 36 mila voti in più della propria coalizione, pari a circa il 3 per cento.  Per un pò, dalle “intenzioni”  di voto o dal voto annunciato ai sondaggisti dagli elettori alla chiusura dei seggi, si era pensato addirittura che Zedda potesse battere Solinas portandosi appresso un premio di maggioranza decisivo.

             Salvini farebbe male a sottovalutare le difficoltà incontrate da Solinas, cui lui si era sovrapposto nella campagna elettorale sino a  farne “l’uomo invisibile”. Così ad un certo punto si era autodefinito lo stesso interessato con apparente ironia, quasi a spiegare la brutta aria che avvertiva attorno alla propria corsa. E che aveva ispirato forse a Stefano Rolli nel giorno del voto una vignetta sul Secolo XIX abrasiva sui sospetti di Salvini di fronte ai quattro mori della storica bandiera sarda.

              Non hanno giovato al candidato pur vittorioso del centrodestra neppure i limiti posti alla coalizione dal leader leghista, sottolineandone insistentemente il carattere locale e mostrando più interesse alla difesa dell’alleanza del Carroccio per il governo nazionale con i grillini che al cambiamento degli equilibri concordati a Roma con Di Maio dopo le elezioni politiche dell’anno scorso.

              La doppiezza qualche volta può premiare in politica, per carità. Ma non sempre. E comunque non alla lunga perché all’elettore, inteso in senso lato, non sfuggono i prezzi che inevitabilmente le si debbono pagare, ricorrendo ai compromessi sino alla pratica governativa del galleggiamento, del rinvio, del correre a rimorchio delle crisi anziché prevenirle.

               Dimostrano tutto questo, tanto per non andare lontano, le vicende della Tav, delle autonomie differenziate e della cosiddetta manovra economica e finanziaria correttiva, smentita con una ostinazione pari solo alla crescente evidenza della sua inevitabilità. In un clima del genere rischiano di non essere credibili neppure le smentite opposte continuamente dallo stesso Salvini, dal suo omologo Di Maio e dal loro presidente Conte alla prospettiva, avvertita o denunciata dalle opposizioni, di un’imposta patrimoniale. Che non sarebbe peraltro l’unica, perché di imposte patrimoniali ormai croniche gli italiani ne pagano già: per esempio, sulle seconde case, più diffuse di quanto non si creda, sulle auto e persino sui redditi, con la progressività della relativa imposta.

 

 

 

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Giuseppe Conte avverte Fitch: in Italia cadono gli alberi, non il governo

            In partenza per l’Africa, non per Putigliano, la cittadina della sua regione a una quarantina di chilometri Conte 1.jpgda Bari, dove si svolge la festa in maschere più lunga d’Europa, con una sfilata di carri che non hanno nulla da invidiare a quelli pur più famosi di Viareggio, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte in una intervista al Corriere della Sera ha opposto il suo ormai stoico ottimismo anche alle previsioni di Fitch. Che naturalmente è la notissima agenzia americana di rating appena espressasi con preoccupazione sull’Italia, pur lasciando invariata la valutazione del suo debito pubblico, perché avverte non il rischio ma la certezza di elezioni anticipate in questo 2019, pur “bellissimo” secondo recenti promesse, o addirittura garanzie, dello stesso Conte.

             Ma che caduta e caduta. In Italia cadono gli alberi per il vento, che certamente non soffia da Palazzo Chigi e fa parecchi Caduta d'alberi.jpgdanni. Cade la produzione industriale. Cade il pil. Cade nei sondaggi e nelle elezioni non proprio localissime, come sono quelle regionali, il principale partito della maggioranza parlamentare e della coalizione gialloverde improvvisata, pur con tanto di contratto, dopo le elezioni politiche del 4 marzo dell’anno scorso, ma non cade né cadrà il governo. Parola, appunto, di Conte. E alla faccia degli americani di Fitch e di tutti i menagrami d’Italia che scommettono sulla crisi ignorando forse la forza di quel motto, riproposto ai suoi tempi da Giulio Andreotti, secondo cui anche ai governi, e ai governati, conviene continuare a campare piuttosto che tirare le cuoia.

              Agli incauti osservatori che stanno lì a misurare ogni giorno, o a ogni ora e frazione, l’andamento di quel maledetto mister Spread scoperto da molti italiani solo nell’estate del 2011, quando salì di tanto Conti 2.jpgda travolgere l’ultimo governo “eletto” direttamente dal popolo, come Silvio Berlusconi ama ancora definirlo con generoso rimpianto, Conte ha opposto un’analisi più psichica che politica, più dietrologica o persino golpistica che economica, con quegli “impulsi esterni” che gonfiano, all’occorrenza, la “bolla mediatica” delle differenze dei costi del nostro ingente debito pubblico rispetto a quello tedesco, cui gli investitori finanziari hanno la maledetta abitudine di paragonarlo. Beh, insomma, il presidente del Consiglio cerca di fare al meglio il mestiere che si è dato di “avvocato del popolo”, inteso però come avvocato pietoso, che assiste il suo cliente cercando in tutti i modi di rasserenarlo, di fargli credere che la causa è vinta in partenza. E se poi sarà perduta, la colpa sarà solo dei giudici, da apostrofare come il tifoso fa allo stadio con l’arbitro che ha negato il rigore alla sua squadra.

              Uno sguardo sulla situazione politica italiana lo ha allungato, nel suo appuntamento domenicale con i lettori della Repubblica di carta da lui fondata,  anche Eugenio Scalfari, dopo l’ormai abituale e lungo interessamento alle parole, ai gesti e all’azione di Papa Francesco.Scalfari.jpg Ebbene, nell’esercizio psichico, filosofico e culturale dei paragoni e, più in particolare, delle assonanze che lo appassiona da una vita Scalfari ci ha offerto quello fra Silvio Berlusconi e non Gabriele D’Annunzio, come sembrava tentato in un primo momento, ma Beppe Grillo. Che in comune avrebbero il populismo. Ma a sorpresa, nonostante i risultati elettorali dei rispettivi partiti, quello di Berlusconi batterebbe il populismo del comico genovese.

             Chissà se i due prima o dopo non smettano d’insultarsi da Arcore e da Genova e non si accordino, alla faccia di capitan Salvini. Avrà forse voglia di chiederselo prima o dopo Scalfari. Che di paradossi nella sua lunga vita ne ha ormai visti, vissuti e a volte anche provocato tanti da non potersi o doversi meravigliare davvero di nulla.

 

 

 

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Quella voglia insana di festeggiare i bagni penali di Roberto Formigoni

             Senza voler togliere nulla alle ordinarie cronache politiche -dalla grazia concessa al governo gialloverde dall’agenzia americana Fitch, lasciando invariato il rating del debito pubblico, alle polemiche sullo stop, rinvio e quant’altro della Tav, dall’ostinata fiducia di Giuseppe Conte nella ripresa economica nella seconda metà dell’anno all’irruzione di Luigi Di Maio quasi sulla soglia delle urne regionali sarde per contestare il credito cercato dall’amico e alleato di governo Matteo Salvini presso i pastori impegnati nella vertenza del latte-  mi sembra degno di maggiore considerazione l’ulteriore capacità di abbassare il livello civile, o di alzare quello incivile, dimostrato sotto le cinque stelle e dintorni di fronte alla vicenda dell’ex governatore della regione Lombardia Roberto Formigoni. Che, condannato in via definitiva a 5 anni e 10 mesi di carcere per corruzione, si è permesso -diciamo così- di consegnarsi spontaneamente al penitenziario di Bollate, preferendolo a quello milanese di San Vittore o altri, dove l’ormai ex “Celeste” temeva di finire attendendo a casa la pattuglia dei Carabinieri incaricata di tradurlo in prigione.

            Per quanto, in verità, il blog ufficiale del movimento grillino abbia ammesso, o avvertito il suo pubblico, Vauro su Formigoni.jpgche “non c’è nulla da esultare” che “in un Paese normale” un condannato per corruzione finisca in carcere, il solito Fatto Quotidiano di Marco Travaglio -e chi sennò?, verrebbe voglia di chiedere- ha ritenuto ancora più normale, e dovuto, sbeffeggiare il detenuto in prima pagina con una vignetta che lo raffigura in tenuta da bagno davanti a due guardie penitenziarie che lo deridono per la natura ormai penale dello stabilimento dove si è presentato.

           Questo, per quanto firmato da un vignettista professionale come Vauro, non è proprio umorismo. O almeno non mi sembra. E’ altro, specie perché accompagnato da un editoriale nel quale se ne scrivono di tutti i colori praticamente contro chi non ha esultato per il verdetto giudiziario. La cui esecuzione risulterà ancora più stringente, a dispetto dei quasi 72 anni compiuti da Formigoni, grazie alla recentissima legge nota come “spazzacorrotti”: quella con la supposta, incorporata, della sostanziale abolizione, dall’anno prossimo, della odiatissima prescrizione. Di cui Formigoni ha potuto usufruire, sia pure solo in parte, vedendosi ridurre di quasi due anni la pena rimediata nella sentenza d’appello. Se la Cassazione avesse atteso ancora qualche mese prima di pronunciarsi in via definitiva, la prescrizione sarebbe scattata del tutto, in estate.   

           Un’applicazione retroattiva della cosiddetta “spazzacorrotti”, che non permette gli arresti domiciliari e altro ancora ai condannati per corruzione, è già stata lamentata dai legali dell’ex governatore della Lombardia. Che  si sono riservati di promuovere le azioni necessarie a tentare di portare la questione all’esame della Corte Costituzionale.

          Si ripete un po’, a suo modo, la storia della cosiddetta legge Severino, applicata in modo retroattivo a Silvio Berlusconi nel 2013 per espellerlo dal Senato dopo una condanna definitiva per frode fiscale, risalente però a molti, anzi moltissimi anni prima di quelle disposizioni comportanti la decadenza da parlamentare. E anche quella condanna definitiva intervenne mentre si avvicinavano i tempi o termini della prescrizione.

           A corredo, diciamo così, della vignetta e dell’editoriale di prima pagina il giornale di Travaglio, non ancora ripresosi -temo- dalla delusione procuratagli dal popolo grillino nel referendum digitale che ha fatto vincere Schermata 2019-02-23 alle 06.49.02.jpgil no al processo a Salvini per la vicenda Diciotti col risultato di 59 a 41 punti, ha pubblicato come una lista di ricercati mediatici quella degli esponenti politici e dei giornalisti persino di sinistra, come Gad Lerner, solidali con Formigoni, o comunque non abbastanza soddisfatti di vederlo o saperlo ristretto a Bollate. Vedrete che prima o dopo a qualcuno verrà l’idea di predisporre una Guantanamo mediterranea, o europea di stampo sovranista o populista dopo le elezioni di fine maggio, per rinchiudervi i corrotti che si ostinano anche in carcere a considerarsi e a dirsi innocenti, con la solidarietà, la comprensione, la compiacenza e quant’altro di gente provvisoriamente libera.

 

 

 

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La maggioranza gialloverde costretta a vivere di rinvii fino a maggio, se basterà

            Certo, le coincidenze o le date sono quanto meno galeotte. Quei cartelli levati dai deputati del Pd nell’aula di Montecitorio contro uno scambio fra il “#salvasalvini” e il “#boccialatav” mentre comparivano sul cartellone elettronico dell’aula i risultati della votazione sulla mozione della maggioranza gialloverde riguardante la controversa linea ferroviaria ad alta velocità per Rinvio Tav.jpgle merci fra Torino e Lione, qualche ragione potevano averla. O mostrare di averla, perché una forzatura c’era di sicuro in quella protesta. La Tav, versione femminile e più diffusa di quella maschile raccomandata sul Fatto Quotidiano da Marco Travaglio, può essersi avvicinata con quella mozione  parlamentare alla bocciatura ma non  ne ha varcato la soglia. E’ stato deliberato soltanto un rinvio: Anzi, un ulteriore rinvio, ufficialmente giustificato, dopo la diffusione dei famosi e contestatissimi calcoli di costi e benefici, dai contatti internazionali tra Francia, Italia e Commissione di Bruxelles sulla grande opera finanziata anche dall’Unione Europea, ma in realtà motivato -sempre, quel rinvio-  dai non ancora ben definiti rapporti di forza fra i due partiti del governo italiano.

           All’indomani delle elezioni europee di fine maggio, probabilmente abbinate peraltro a quelle regionali in Piemonte, che è un po’ la culla della Tav,  leghisti e grillini si misureranno finalmente Rollijpg.jpgsu basi più certe dei sondaggi e dei risultati delle elezioni parziali svoltesi in questi ultimi tempi e ancora in programma prima di maggio. Essi valuteranno innanzitutto se davvero potranno continuare a governare insieme, con i leghisti presumibilmente diventati più forti dei grillini, e come eventualmente continuare: cercando ancora compromessi o distribuendosi equamente rinunce e conferme, lasciando invariato il contratto dell’anno scorso o aggiornandolo con i tanti temi o cambiati lungo la strada, da allora, o sopraggiunti.

           In attesa dello snodo di maggio, e di giugno, non potendosi ragionevolmente chiarire il quadro politico nei pochi giorni finali di maggio, la maggioranza gialloverde è condannata a vivere quindi di rinvii. Ciò vale per la Tav, come si è appena visto, per le cosiddette autonomie differenziate, che sono poi quelle rafforzate reclamate dalle regioni del Nord, più care alla Lega, e temute Giannelli.jpgda quelle del Sud, più care ai grillini ma da qualche tempo contese elettoralmente e politicamente anche dal partito di Salvini. E vale soprattutto per quello che il governo cerca in questi giorni di esorcizzare come un fantasma ma cui non potrà sottrarsi per gli inesorabili sviluppi della crisi economica: la cosiddetta manovra correttiva di bilancio.

            Ci sarà solo da vedere di quanto risulterà peggiorata la situazione finanziaria, e di riflesso quella politica, per le scelte che ne deriveranno, al termine del percorso più o meno obbligato dei rinvii. Di fronte ai quali trattengono un po’ il Conte.jpgrespiro, diciamo così, il presidente della Repubblica al Quirinale e il presidente del Consiglio a Palazzo Chigi. Del quale ultimo ha appena colto segni di stanchezza, per non dire di più, riferendone sul Corriere della Sera, Marco Galluzzo.

           Chissà se di questi problemi, oltre che di quelli interni al loro movimento dopo il passaggio soffertissimo del no al processo a Salvini per l’affare Diciotti, peraltro non ancora del tutto chiuso al Senato, hanno trovato il tempo, la voglia e l’interesse di occuparsi a pranzo i vertici veri del movimento delle 5 stelle. Che, a cominciare da Beppe Grillo, hanno mangiato e discusso affacciati sulle rovine, fortunatamente per ora, dei soli Fori Imperiali dell’antica Roma.   

 

 

 

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Un Cavaliere davvero inedito, che si contiene parlando dei grillini

Di Silvio Berlusconi nel salotto televisivo di Lilli Gruber, l’altra sera, non mi ha sorpreso tanto la notizia, da lui stesso rilevata, della telefonata di solidarietà fatta a Matteo Renzi dopo gli richiamo Dubbio.jpgarresti domiciliari dei genitori. E neppure il prudente silenzio del pur grato Renzi, riferito sempre da Berlusconi, ai rimproveri fatti alla sinistra e a lui personalmente per la mancata riforma della giustizia. Che, inutilmente sollecitata dal Cavaliere sin dal suo esordio politico, e  non riuscita neppure a lui, in verità, avrebbe rimediato ai guasti nei rapporti fra la magistratura e la politica risalenti forse già agli anni precedenti “Mani pulite”, ma di sicuro aggravatisi dopo quella falsa epopea.

No. Di Berlusconi mi ha in qualche modo sorpreso di più la prudenza opposta alla smania, diciamo così, della conduttrice televisiva, spalleggiata da Massimo Giannini di Repubblica, di fargli esprimere giudizi pesanti sugli esponenti principali delle 5 stelle, oltre che sul loro movimento nel complesso. Che non gode notoriamente degli apprezzamenti dell’ex presidente del Consiglio, tornato anche con la Gruber a sostenere con sorriso ironico che gli italiani dovrebbero “vergognarsi” non solo di non avere mai dato alla sua Forza Italia i voti necessari a farla governare da sola, o con alleati davvero compiacenti, ma anche o ancor più di averne dati tanti, di voti, ai grillini: sino a mandarli al governo. E per giunta -aggiungerei- facendo loro prendere in prestito come alleato il leader leghista Matteo Salvini, da lui peraltro autorizzato l’anno scorso all’avventura gialloverde per evitare che si andasse anticipatamente alle urne -ha raccontato lo stesso Berlusconi- il 27 luglio. Che era, in verità una data improbabile, capitando di venerdì e non di domenica, ma aveva sicuramente l’inconveniente, anche se spostata di qualche giorno, di non favorire l’affluenza alle urne, con “i nostri elettori in ferie”, ha detto l’ex presidente del Consiglio. In ferie -aggiungerei ancora- ma già abituatisi il 4 marzo, nelle elezioni ordinarie, a preferire nel centrodestra la Lega a Forza Italia.

Pur incalzato, come dicevo, dalla Gruber e dall’altro ospite, Berlusconi ha detto di non poter giudicare i maggiori esponenti grillini, a cominciare dallo stesso Grillo, per non conoscerli personalmente, o non conoscerli abbastanza. Del presidente del Consiglio Giuseppe Conte egli ha voluto limitarsi a dire – cosa per Berlusconi già importante- che veste bene e sa essere galante con le signore nel rito del baciamani.

A Giannini, che gli rimproverava di non aver voluto salutare Conte nel ricevimento di fine anno al Quirinale, Berlusconi ha opposto la casualità del presunto incidente. “Era alle mie spalle e non l’ho visto”, si è giustificato.

Scusate la mia malizia, o la propensione che condivido con l’amico Carlo Fusi a praticare qualche volta anche un po’ di “fantapolitica”, come lui stesso l’ha definita ieri commentando sul Dubbio col consueto acume la situazione politica, ma mi è parso di capire che Berlusconi non abbia trovato nessun disagio -proprio nessuno- a fare schierare i suoi senatori nella giunta delle immunità insieme con i grillini nella bocciatura della richiesta del cosiddetto tribunale dei ministri di Catania di processare Salvini addirittura per sequestro aggravato di persona nella vicenda della nave Diciotti nel porto di Catania, durante l’estate scorsa. Eppure di quella vicenda lo stesso Berlusconi ha mostrato di non avere condiviso tutti gli aspetti, al pari di noi qui, al Dubbio, come ha spiegato più volte ai lettori il direttore Piero Sansonetti facendo distinzione tra azione politica, e di governo, criticabile quanto si vuole, e azione giudiziaria, necessariamente contenibile nella legge.

Berlusconi non ha trattenuto i suoi parlamentari, e non li tratterrà sicuramente neppure in aula al Senato, quando si arriverà al voto davvero conclusivo, neppure dopo l’ultima “provocazione”, diciamo così, del vice presidente del Consiglio grillino Luigi Di Maio. Che ha difeso l’alleanza con Salvini come “argine” disperato, o quasi, all’arrivo del Cavaliere di Arcore al Ministero degli Esteri, che in effetti gli piacerebbe molto, o al Ministero dell’Economia, che gli piacerebbe forse di meno ma dove potrebbe ugualmente mettere a profitto la sua esperienza imprenditoriale e i suoi rapporti internazionali. Alla guida di un eventuale governo di centrodestra Di Maio ha giustamente immaginato, e immagina, il suo amico e attuale omologo Matteo, cioè Salvini, con un ministro sicuramente ingombrante come l’aspirante, per ora, solo all’Europarlamento, essendo Berlusconi tornato alla piena praticabilità politica dopo la condanna definitiva del 2013 per frode fiscale: una condanna di cui il presidente di Forza Italia attende ancora l’annullamento, o qualcosa del genere, in sede comunitaria.

Si deve peraltro al tanto bistrattato centralismo democratico di togliattiana memoria -bistrattato da altri ma da me rimpianto di fronte agli spettacoli offerti dai partiti della cosiddetta seconda e terza, incipiente Repubblica- se i voti dei forzisti nella giunta del Senato non sono stati determinanti ai fini del risultato contro il processo a Salvini. E non lo saranno forse neppure in aula a Palazzo Madama, se i parlamentari grillini  si lasceranno vincolare alla disciplina, o qualcosa del genere, dopo il referendum digitale svoltosi all’interno del loro movimento sull’affare del pattugliatore della Guardia Costiera e dello “sbarco ritardato” dei migranti che erano stati salvati dal naufragio in alto mare: “sbarco ritardato”, ripeto, nella ricostruzione dei fatti offerta ai votanti a 5 stelle e non sequestro aggravato di persone. Come invece era nell’accusa nemmeno della Procura della Repubblica di Catania ma del collegio dei tre giudici a sorte che compongono il cosiddetto tribunale etneo dei ministri. Essi sono in realtà solo un collegio di giudici delle indagini preliminari. I veri e propri giudici, abilitati a condannare o assolvere l’imputato Salvini, sarebbero stati altri, sempre della magistratura ordinaria, e sempre a Catania.

Si sono espressi sul conto del referendum digitale grillino, gestito dalla cosiddetta piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio e amici, molti dubbi persino nel movimento delle 5 stelle, ad opera di quelli rimasti in minoranza o che non sono neppure riusciti a votare per disguidi elettronici. Lo stesso Grillo, prima ancora di essere rimbrottato dal suo pubblico nel teatro romano, dove ha dato il suo spettacolo “Insomnia” elogiando la presenza in platea di Marco Travaglio, e ringraziandolo delle “bellissime cose” scritte vanamente sul suo Fatto Quotidiano a favore del processo a Salvini, aveva tenuto a ridire sulle modalità del referendum, compreso il quesito formulato per far votare sì o no.

Eppure, scusate anche qui non la mia malizia ma la mia ingenuità, o dabbenaggine, preferisco un pur claudicante referendum digitale ad una direttiva dall’alto adottata in un partito, o in qualcosa che gli assomiglia, col metodo dell’”algoritmo”. Il movimento sarà uscito “diviso” -come anche, per ammissione di un titolo di prima pagina, il pubblico del Fatto Quotidiano- fra un 59 per cento di contrari al processo a Salvini e un 41 per cento rimasto convinto che alla magistratura spetti la precedenza pure quando non gliela concede la Costituzione con l’articolo 96 sui cosiddetti reati ministeriali, ma è rimasto  vivo. Altro che morto, suicida, ammazzato o quant’altro, come immaginato dal giornale di Travaglio con quella vignetta su Di Maio che gli scava la fossa davanti alla lapide in un cimitero.

Più o prima ancora della lapide mortuaria del movimento grillino immaginata dal vignettista di Travaglio, e dei sommovimenti di terra addebitabili alle scadenze elettorali da qui a fine maggio, credo che incombano ormai sulla situazione politica  gli sviluppi della crisi economica. E la conseguente prospettiva, sempre sempre meno convintamente smentita o esclusa nel governo e dintorni, di una cosiddetta manovra correttiva. Che non sarebbe certamente fatta di cioccolatini, anche se furbescamente rinviata a dopo tutti gli appuntamenti in programma con le urne primaverili, regionali ed europee.

Quando non ci si potrà più sottrarre a questo indigesto passaggio, diventerà forse meno forte la tentazione ora crescente delle elezioni anticipate, specie dopo l’apertura fatta in questa direzione dal segretario ormai in pectore del Pd Nicola Zingaretti. Con le dimensioni più chiare ed ammesse della stagnazione ormai in corso potrebbe risultare comoda a Salvini, e di riflesso anche al pur refrattario Di Maio, una mano o manina di Berlusconi in un clima di emergenza, o di qualcosa che potrebbe assomigliarle. E che potrebbe estendere, anziché ridurre, il malessere fra i grillini.

Rilevo anche il non casuale voto dei forzisti già espresso a favore del progetto di riforma costituzionale dei grillini per la riduzione del numero dei parlamentari, osteggiato invece dal Pd perché insufficiente, da solo, a garantire maggiore efficienza a un Parlamento ancora troppo bicamerale, e ben più modificato dalla riforma targata Renzi ma bocciata, col concorso del movimento delle 5 stelle, nel referendum del 2016.

In politica, disse il buon Carlo Donat-Cattin correggendo un “mai” sfuggitogli o attribuitogli a proposito di un’intesa di governo con i comunisti di Enrico Berlinguer, “non bisogna mai dire mai”.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Berlusconi chiama Renzi, che gradisce. Da cosa può nascere cosa….

          Diffusa dallo stesso Silvio Berlusconi nel salotto televisivo di Lilli Gruber, a la 7, la telefonata di gradita solidarietà del capo di Forza Italia a Matteo Renzi per gli arresti domiciliari dei genitori deve avere rovinato la cena al direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio. Che, già innervosito e insospettito di suo per gli attestati di solidarietà a Renzi giunti da un po’ tutti gli esponenti del Pd, pur divisi come al solito nella campagna in corso per le primarie congressuali del 3 marzo, ha sentito puzza di bruciato. E non ha speso una parola di apprezzamento -dico una- per l’allineamento dei senatori del Pd, nella giunta delle immunità, alla posizione raccomandata inutilmente dal Fatto Quotidiano agli esponenti grillini di votare a favore del processo al ministro leghista dell’Interno Matteo Salvini sull’affare Diciotti. In cui il cosiddetto tribunale dei ministri di Catania, peraltro difformemente dalla Procura della Repubblica, aveva ravvisato i reati di sequestro aggravato di persone, abuso d’ufficio e non ricordo cos’altro.

            Rassegnato, come da un titolo di prima pagina, a registrare “la divisione” anche dei suoi lettori, elettoriFatto.jpg e militanti pentastellati sulla richiesta di processare Salvini, e vendicatosi, a suo modo, continuando a sbertucciare il vice presidente grillino del Consiglio Luigi di Maio con vignette abrasive, il direttore del Fatto Quotidiano è tornatoIl Fatto.jpg a puntare i suoi riflettori, e strali, contro il falso giustizialismo, secondo lui, del Pd. Che vota in Parlamento, per carità, a favore dei magistrati e contro l’imputato di turno, ma in cuor suo sarebbe rimasto, diciamo così, “nazarenico”: inteso come condizionato ancora da un ricordo quasi nostalgico di quell’anno e poco più -fra dicembre del 2013 e gennaio 2015- di accordo sul terreno delle riforme fra l’allora segretario del Pd, e poi anche presidente del Consiglio, e l’uomo di Arcore pur condannato in via definitiva per frode fiscale ed estromesso perciò dal Senato.

            La rottura fra i due, come si ricorderà, sfociata poi nella contrapposizione referendaria sulla riforma costituzionale perduta rovinosamente da Renzi, si consumò sulla scelta del successore a Giorgio Napolitano al Quirinale. Dove Berlusconi avrebbe voluto Giuliano Amato, sostenuto dietro le quinte nel Pd anche da Massimo D’Alema, ma Renzi, probabilmente proprio per lo zampino dalemiano, preferì mandare Sergio Mattarella, pentendosene forse l’anno dopo: quando il nuovo capo dello Stato, d’intesa col successore di Renzi a Palazzo Chigi, Paolo Gentiloni, gli rifiutò le elezioni anticipate reclamate dall’ancora segretario piddino per cercare di tradurre in voti il 40 per cento col quale era stato sconfitto nel referendum costituzionale, e risparmiarsi comunque l’ultimo e solitamente peggiore anno della legislatura. Non a caso le elezioni ordinarie del 2018 si risolsero per il Pd renziano, nel frattempo spaccatosi con la scissione di D’Alema e compagni, in un’autentica debacle. E nella vittoria, sia pure su fronti contrapposti, di grillini e leghisti poi accordatisi per un governo -quello ancora in carica- nominato da Mattarella pur di risparmiarsi un passaggio tecnico verso elezioni anticipate.

            Credo proprio di non essermi inventato o di non avere forzato nulla, ma di avere raccontato fatti realmente avvenuti. E accettati a malincuore, credo, anche da Travaglio. Che avrebbe preferito l’anno scorso la formazione di un governo fra le 5 stelle e un Pd abbastanza indebolito e scioccato da Renzi per diventare, nelle attese del direttore del Fatto Quotidiano, un alleato docile dei grillini: non irruente, invasivo, presenzialista, irriguardoso verso i magistrati e soprattutto in buona salute elettorale come Matteo Salvini.

            Al Pd come forno di riserva delle 5 stelle Travaglio ha continuato a pensare, specie di fronte alle misure forse impreviste dei guadagni elettorali della Lega. Ma il combinato disposto, diciamo così, dell’affare Diciotti e degli arresti domiciliari dei genitori di Renzi gli hanno scombussolato il quadro e le aspettative. Non solo i grillini gli sono sfuggiti tanto di mano da votare -al pari dei senatori di Berlusconi- contro il processo a Salvini da lui reclamato con forza ancora maggiore, se possibile, del Libero.jpgtribunale dei ministri di Catania, ma il Pd solidarizza con le ultime proteste di Renzi contro i magistrati pur avendo votato doverosamente -secondo l’ottica di Travaglio- per il processo al leader leghista: un processo funzionale a quel primato della magistratura sulla politica affermatosi una trentina d’anni fa con “Mani pulite” e dintorni. Forse anche di questo hanno parlato nella loro telefonata Berlusconi e Renzi, facendo venire i brividi a Travaglio e dintorni, compreso forse Di Maio in attesa delle amarezze elettorali sarde di domenica prossima vaticinategli dal quotidiano Libero con quel copricapo da pastore.

 

 

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