Capisco il fastidio, ed anche qualcosa di più, di un magistrato di punta com’è stato per tanti anni Armando Spataro, e che ne ha scritto su Repubblica del 22 febbraio dopo averne discusso nella Piazza pulita televisiva di Corrado Formigli, a sentir parlare di “giustizia ad orologeria” ogni qualvolta si incrociano le cronache giudiziarie e quelle politiche. Cioè, ogni qualvolta una iniziativa giudiziaria, dall’apertura di un’indagine a un avviso di garanzia, da un arresto cautelare a un rinvio a giudizio, da una richiesta di autorizzazione a procedere a una sentenza, di qualsiasi grado essa sia, coincide con un passaggio politico. E finisce in qualche modo per condizionarne gli sviluppi, volente o nolente il magistrato di turno, o il giornalista che ne tratta.
In un paese come l’Italia, dove si è praticamente sempre in campagna elettorale e l’instabilità è cronica anche in assenza di una crisi di governo, ma solo aspettandola o prevedendola, magari senza che nessuno manovri davvero per arrivarvi perché spesso i partiti non riescono a fare neppure questo, lasciandosi sorprendere e precedere dai fatti; in un paese, dicevo, come questo è comprensibile anche che il buon ex procuratore capo della Repubblica di Torino si chieda e chieda all’interlocutore di turno come, quando e chi possa garantire un’azione giudiziaria davvero neutra rispetto al calendario della politica. E’ come pretendere da un autista di non investire nessuno delle centinaia di gratti che gli attraversano la strada, o dai gatti di farla tutti franca.
Capisco Spataro anche quando oppone dialetticamente, elenco alla mano dei provvedimenti approvati dalle Camere su iniziativa del governo di turno o di singoli parlamentari, all’immagine della “giustizia ad orologeria” quella delle “leggi ad orologeria”. Che partono o arrivano, o partono e arrivano, in tempo per cambiare regole giudiziarie scomode a chi guida la baracca del governo, o piegarle comunque agli interessi della maggioranza del momento. E finiscono magari, queste “leggi ad orologeria”, per essere bocciate dalla Corte Costituzionale, che giustamente non è vincolata -ci mancherebbe altro- ai pareri di legittimità espressi in sede parlamentare durante l’esame delle proposte o dei disegni di legge, e neppure alla firma poi apposta, per la pubblicazione e promulgazione, dal presidente della Repubblica. Che qualche volta, sollecitato al rifiuto dalle opposizioni, ha sentito anche il bisogno di motivare la firma con dichiarazioni o comunicati.
Convengo con Spataro e col suo elenco a condizione però che l’uno e l’altro ricordino o contengano, rispettivamente, anche le leggi “ad orologeria” inversa, maturate e arrivate a destinazione, o dirottate, per assecondare la magistratura, o il suo lavoro di giornata o di stagione.
Penso, per esempio, in ordine rigorosamente di tempo, alla cosiddetta legge Vassalli, dal nome dell’allora ministro della Giustizia. Che nel 1988, pochi mesi dopo un referendum stravinto dai sostenitori della cosiddetta responsabilità civile dei magistrati, ne limitò duramente gli effetti disciplinando la materia in modo tale che le cose tornassero praticamente allo stato di prima, o quasi. Di quella nuova legge, se non ricordo male, fu possibile l’applicazione non più di una decina di volte in una ventina d’anni, tanto bene era stata congegnata per rendere dura la vita a chi avesse voluto usarla.
Penso al decreto legge della primavera del 1993 per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli, faticosamente varato dal primo governo di Giuliano Amato in una lunghissima seduta del Consiglio dei Ministri, più volte interrotta per consultazioni telefoniche e d’altro tipo con gli uffici del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, se non con Scalfaro in persona. Che la respinse al mittente solo dopo una clamorosa protesta dell’allora capo della Procura della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Il quale motivò il suo dissenso, oltre che a difesa del lavoro dei suoi uffici, per smentire che i magistrati impegnati nella famosa inchiesta “Mani pulite” su Tangentopoli avessero in qualche modo contribuito, fra partecipazioni a convegni e conversazioni private, a studiare come uscirne appunto politicamente.
Penso alle modifiche apportate in quello stesso anno all’articolo 68 della Costituzione, con tutte le complesse modalità del caso, per ridurre le immunità parlamentari e rendere più spedito il lavoro della magistratura. Che da allora fu costretta al vecchio istituto della richiesta di autorizzazione a procedere solo per l’arresto, le perquisizioni e le intercettazioni dei deputati o senatori indagati, destinati peraltro a finire lo stesso sotto controllo indiretto, perché chiamati o incontrati da intercettati.
Si intervenne anche sui regolamenti parlamentari, o sulle prassi, per togliere l’incomodo delle votazioni a scrutinio segreto dopo le sorprese da esse riservate per alcune delle vecchie autorizzazioni a procedere chieste a carico di Bettino Craxi e bocciate a Montecitorio nella primavera del 1993, col seguito immondo delle monetine lanciate contro il leader socialista all’uscita dall’albergo romano in cui abitava.
Poi sul processo per mafia a Giulio Andreotti si votò, per esempio, nell’aula del Senato alzando la mano. E l’alzò persino Andreotti, dal suo scranno di senatore a vita rimasto segnato dalla storica gobba ricordato di recedente dalla presidente dell’assemblea nel centenario della nascita dell’ex presidente del Consiglio. Egli volle così allontanare da sé il sospetto già di per sé infamante che non fidasse abbastanza della giustizia, e dei suoi gestori, o gestanti.
Penso al decreto legge varato nel 1994 dal primo governo di Silvio Berlusconi per limitare il ricorso alle manette durante le indagini preliminari. Esso fu quella volta regolarmente firmato da Scalfaro, sempre al Quirinale, ma bastò un proclama congiunto dell’allora sostituto Antonio Di Pietro e dei suoi colleghi della Procura di Milano per fare rinsavire, diciamo così, nella maggioranza ministri e parlamentari della Lega di Umberto Bossi, che lo lasciarono decadere minacciando la crisi. Ma essa sopraggiunge lo stesso, dopo qualche mese, peraltro in coincidenza con un avviso a comparire notificato all’ancora presidente del Consiglio Berlusconi a mezzo stampa, mentre presiedeva una conferenza internazionale sulla lotta alla criminalità promossa a Napoli dalle Nazioni Unite.
Potrei continuare, e anche a lungo, ma credo che possa bastare e avanzare per chiudere questa parte del discorso o delle riflessioni sortemi spontanee di fronte a quelle di Spataro, e passare agli effetti politici comunque prodotti con regolarità, direi, dalle iniziative giudiziarie casualmente o appositamente incrociatesi -orologio al polso o no- con l’azione del governo di turno o con lo sviluppo dei rapporti fra e nei partiti. E qui mi permetto di cominciare dalla coda, anziché dalla testa, di salire cioè dai fatti più recenti ai più lontani.
Si può ormai considerare respinta la richiesta del cosiddetto tribunale dei ministri di processare per sequestro aggravato di persona, abuso d’ufficio e non ricordo cos’altro ancora il vice presidente leghista e ministro dell’Interno Matteo Salvini, in riferimento alla gestione degli oltre 170 immigrati soccorsi in alto mare nella scorsa estate dal pattugliatore Diciotti della Guardia Costiera italiana e trattenuti per alcuni giorni a bordo nel porto di Catania, prima di essere sbarcati e distribuiti fra più paesi. Manca solo il bollo finale della votazione nell’aula del Senato, dove ben difficilmente potrebbero cambiare gli schieramenti prevalsi col no nella competente giunta presieduta da Maurizio Gasparri. Ma la richiesta è bastata e avanzata prima a portare il governo sull’orlo della crisi, evitata solo quando gli esponenti grillini, a cominciare dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, si sono assunti la corresponsabilità degli addebiti mossi giudiziariamente a Salvini. E ciò anche a costo di aprire a loro volta, direttamente o indirettamente, una crisi all’interno del movimento delle cinque stelle, non so se più fortunosamente o più fortunatamente risolta dal vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio col ricorso al referendum digitale: quello in cui il no al processo è prevalso col 59 per cento dei voti contro il 41.
Al di là, e persino contro il vantaggio d’immagine anche elettorale attribuito a Salvini per questa vicenda, probabilmente destinato alla certificazione anche nei risultati delle votazioni di fine maggio per il rinnovo del Parlamento europeo, è tuttavia derivata nella maggioranza di governo una riduzione del potere contrattuale del suo partito. Che ha dovuto compensativamente accettare, sia pure tra smentite, precisazioni e quant’altro, il rallentamento, quanto meno, delle decisioni sulla Tav, o sulla versione maschile preferita dai grillini leggendo il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, e sulle cosiddette autonomie differenziate. Che sono poi le autonomie rafforzate delle regioni del Nord, rivendicate dai leghisti e temute da quelle del Sud più rappresentate, nella maggioranza, dai grillini.
Compensativo, ma di segno opposto, è risultato il rafforzamento della dura gestione salviniana dell’immigrazione, con la chiusura accelerata dei centri di raccolta e la sostanziale dispersione di quanti vi erano contenuti. Non parliamo poi delle complicazioni sociali derivanti dall’applicazione della nuova legge sulla sicurezza: tanto contestata da essere stata impugnata da un bel po’ di regioni davanti alla Corte Costituzionale. E non parliamo neppure delle proteste dei sindaci sostanzialmente capeggiati da quello di Palermo, Leoluca Orlando, che ha autorizzato l’iscrizione all’anagrafe del suo Comune anche dei titolari dei permessi umanitari scaduti.
Il cosiddetto tribunale catanese dei ministri, cioè il collegio dei tre giudici sorteggiati al posto del giudice delle indagini preliminari a carico dei cittadini comuni, non era certamente tenuto a valutare questi ed altri effetti politici della sua iniziativa, presa peraltro in difformità dall’archiviazione proposta dalla Procura della Repubblica. Ma non sarebbe stata preferibile una maggiore riflessione? Me lo chiedo ricordando anche le raccomandazioni fatte dall’attuale capo dello Stato e dal suo predecessore negli incontri usuali con le matricole, diciamo così, della magistratura ad esercitare le loro delicatissime funzioni non estraneandosi mai dal “contesto” dell’azione giudiziaria.
Inquirenti, divulgatori e quant’altro del cosiddetto affare Consip, affacciatosi sulle prime pagine dei giornali verso la fine del 2016 ma esploso agli inizi del 2017, dopo la bocciatura del referendum sulla riforma costituzionale targata Matteo Renzi, le dimissioni di quest’ultimo da presidente del Consiglio e la sua conferma a segretario del Pd, possono considerarsi estranei o indifferenti alle sue ricadute politiche? Che si tradussero quanto meno nell’indebolimento ulteriore del pur confermato segretario del Pd, oggi alle prese con gli arresti domiciliari dei suoi anziani genitori per altre vicende ancora, ma già allora non più così forte da fare prevalere, nelle riflessioni e valutazioni spettanti al presidente della Repubblica, la sua linea del ricorso anticipato alle urne. Che Renzi reclamava per cercare di investire su quel rilevante 40 per cento finito in minoranza nel referendum costituzionale. Anziché le elezioni anticipate, Renzi ottenne, diciamo così, il logoramento fisiologicamente derivante dall’ultimo anno della legislatura, aggravato nel suo caso dalla scissione del partito promossa da Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani ed altri.
A cose fatte, cioè ad elezioni avvenute alla scadenza ordinaria, il 4 marzo dell’anno scorso, col Pd ridotto a meno del 19 per cento dei voti, i grillini saliti a più del 32 e i leghisti disposti a dare loro una mano al governo col permesso di un alleato come Silvio Berlusconi, stressato politicamente dal sorpasso di Salvini e non certo invogliato da un ricorso anticipato alle urne, Renzi non riuscì a trattenere per sé la voglia di spalmare sulla sua ferita almeno l’unguento di una recriminazione contro Mattarella. E ancor più contro il suo successore a Palazzo Chigi Paolo Gentiloni, dal quale l’ancora segretario del Pd si era aspettato inutilmente una mano per accelerare la fine della diciassettesima legislatura.
Effetto collaterale, a dir poco, di una iniziativa giudiziaria -quella dell’arresto della moglie dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella- fu nel 2008 la caduta del secondo ed ultimo governo di centrosinistra di Romano Prodi. La cui crisi si trascinò appresso le Camere elette solo due anni prima e consentì il ritorno di Berlusconi col suo centrodestra a Palazzo Chigi, nonostante il 30 per cento e più riscosso nelle urne dal Pd fondato l’anno prima con vocazione cosiddetta maggioritaria da Walter Veltroni. Ma anche Berlusconi incrociò, anzi tornò ad incrociare sulla sua strada un bel po’ di guai giudiziari che ne aggravarono quanto meno le difficoltà politiche, sino al collasso dell’autunno 2011 e all’arrivo del governo tecnico di Mario Monti.
Saranno stati tutti casi, tutte coincidenze, tutte fatalità. Ma è curioso che la strada della politica italiana sia così affollata di uffici giudiziari e di botteghe di orologiai.
Pubblicato su Il Dubbio