Si mette male la partita del nuovo governo per il guardasigilli Bonafede

             Il perimetro delle sub-consultazioni affidate dal presidente della Repubblica al presidente della Camera parla da solo. Si è di molto ridotta la “riconciliazione nazionale” auspicata da qualcuno quando Giuseppe Conte si rassegnò alla verifica di governo reclamata con particolare insistenza dal solito Matteo Renzi, con minore vigore dall’altrettanto solito Nicola Zingaretti, e prese a gestirla con una paura e un’ambiguità tali da lasciare prevedere la crisi a chi ha una certa esperienza della politica.  Da “nazionale” è diventata, o sta diventando se vogliamo cautelarci per la obbiettiva imprevedibilità di tanti protagonisti e attori della crisi, la riconciliazione o salvezza, se preferite, della maggioranza giallorossa realizzatasi a sorpresa nell’estate del 2019.

            Si potrebbe persino tirare un sospiro di sollievo per come si erano messe le cose quando Renzi ritirò la delegazione della sua Italia Viva dal governo e Conte fece l’offeso, evitò  le dimissioni e si propose di “asfaltare” in pochi giorni, come disse il portavoce Rocco Casalino, l’ambizioso sfidante racimolando al Senato per una votazione di fiducia tanti “volenterosi”, “responsabili”, “patrioti” e quant’altro da lasciare all’opposizione e spaccare il gruppo renziano precedentemente decisivo.

             Visto il fallimento della ricerca dei soccorsi, ci sarebbe toccata una riconciliazione ancora più ristretta, e quindi finta. Avremmo dovuto abituarci a vivere ordinariamente, non eccezionalmente come accaduto in altri momenti della storia della Repubblica, con un governo di minoranza perché a maggioranza solo relativa in uno dei rami del Parlamento. Adesso, se gli incontri di Fico si concluderanno positivamente entro martedì, si può almeno contare sul ripristino della maggioranza assoluta. In cui Conte, se riuscirà a fare il davvero il suo terzo governo o Renzi non riuscirà a impedirglielo con altre mosse del cavallo sulla sua scacchiera, dovrà rassegnarsi a un’Italia viva  integra e determinante come prima, se non di più a causa del rischio che alcuni senatori grillini in rivolta non si lascino persuadere alla moderazione e contestino quindi  la fiducia.

            Il ripristino di un po’ d’ordine o di quiete nel Movimento 5 Stelle resta la parte più delicata, anche se meno visibile o meno dichiarata, della missione esplorativa condotta dal presidente non a caso grillino della Camera. Che formalmente ha messo i suoi colleghi di partito -o quasi partito- sullo stesso piano degli altri, ascoltandoli dall’altra parte del tavolo nella sala di Montecitorio adattata agli incontri con le misure anti-Covid. Ma le esplorazioni potrebbero svolgersi più dietro che davanti alle quinte. Negarlo sarebbe solo un inutile esercizio di ipocrisia.

            Certo è che il reggente Vito Crimi già dopo il primo incontro ufficiale con Fico, all’uscita, si è spinto oltre l’apertura a Renzi nelle consultazioni al Quirinale, che pure aveva provocato le reazioni minacciose dei vari Di Battista, Lezzi e Morra sotto le 5 stelle. Egli ha escluso dall’elenco delle questioni, diciamo così, divisive ma indisponibili nelle trattative di governo quella della giustizia. Le ha limitate alla conferma dell’”indiscutibile” Conte a Palazzo Chigi e al rifiuto dei crediti europei noti con la sigla del Mes per il potenziamento del servizio sanitario nazionale. Ebbene, se sulla giustizia si potrà discutere senza preclusioni sarà dura per il pur grillino Alfonso Bonafede ottenere la conferma a guardasigilli.

 

 

 

 

 

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Roberto Fico in campo per esplorare….le surriscaldate cinque stelle grilline

           In condizioni normali una richiesta di esplorazione a consultazioni ancora in corso per la soluzione di una sia pur difficile crisi di governo sarebbe stata rigettata dal presidente della Repubblica anche con stizza, essendo stata praticamente messa in dubbio la sua capacità o, peggio ancora, volontà di approfondire aspetti non chiari o ambigui dei rapporti fra i partiti o al loro interno. Ma questi, ormai si sa bene, non sono tempi normali. Sono tempi anomali, e non solo per le emergenze sanitaria, sociale ed economica sottolineate dallo stesso capo dello Stato annunciando, a conclusione delle consultazioni di rito, una “iniziativa” tradottasi poco dopo nel conferimento di un mandato esplorativo. Che anche lui ritiene evidentemente utile a verificare la praticabilità concreta, e non solo generica o di principio, di una “prospettiva” di governo avvertita in 32 ore di colloqui avuti al Quirinale con i rappresentanti di tutte le forze politiche: un governo -ha precisato- provvisto di un “adeguato sostegno” parlamentare a partire dalla maggioranza uscente, prima che si dissolvesse naturalmente per il disimpegno di Matteo Renzi e della sua Italia Viva.

          Il presidente della Camera Roberto Fico, tornato esploratore come nel 2018, all’inizio di questa legislatura, ha naturalmente accettato di buon grado impegnandosi a riferire entro martedì. E’ un termine persino lungo, visto che le sub-consultazioni di cui è stato incaricato riguardano solo formalmente i partiti e gruppi della maggioranza e i “volenterosi” che si aggiungeranno: non molti come si aspettava il presidente dimissionario del Consiglio Giuseppe, Conte cercando di arruolarli anche di persona a Palazzo Chigi, e soprattutto non tanti per ora da rendere non più determinanti i voti dei renziani al Senato. Solo formalmente, dicevo, perché in realtà i problemi di tenuta emersi durante ma non direttamente dalle consultazioni provengono solo o soprattutto dal Movimento 5 Stelle. Dove il solito  ex deputato Alessandro Di Battista ma anche alcuni parlamentari, fra i quali la senatrice ed ex ministra Barbara Lezzi, hanno contestato il “cambiamento di posizione”, secondo loro, espresso dal reggente scaduto Vito Crimi al presidente della Repubblica garantendo la disponibilità a riprendere l’alleanza con Renzi.

               La non casuale appartenenza -e che appartenenza col suo ruolo istituzionale- al movimento grillino consentirà al presidente della Camera non solo di esplorare bene le 5 stelle ma anche di accompagnare l’esplorazione con un’opera di persuasione e di moderazione degli spiriti, in un clima che è diventato di scissione, per rendere “praticabile”, come ha detto Mattarella, la prospettiva di un terzo governo Conte, se Renzi naturalmente non riserverà altre sorprese.  

               Certo,  dovendosi provvedere a spegnere incendi fra i grillini, convengo che il presidente della Repubblica, al netto degli sgarbi ricevuti con una richiesta scriteriamente pubblicizzata da Renzi, non poteva farlo di persona, nè poteva pensare a un esploratore, o pompiere, paciere e quant’altro più appropriato, nella speranza che abbia, oltre al tempo generosamente assegnatogli, acqua abbastanza a sua disposizione perché il partito di cosiddetta maggioranza relativa di questa diciottesima legislatura non diventi un inferno peggiore di quello che ha cominciato ad essere dalla sconfitta nelle elezioni europee del 2019 e in quelle regionali svoltesi via via in larga parte d’Italia. Ma Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglia si consola titolando sugli “Italovivi in subbuglio”. Ciascuno guarda evidentemente a cosa gli conviene di più reclamizzare.

 

 

 

 

 

 

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Incredibile gaffe di Matteo Renzi al Quirinale nelle consultazioni per la crisi

         Diavolo di un uomo, Matteo Renzi ne ha fatta un’altra delle sue, reduce da una trasferta a Riad che ha acceso la fantasia del manifesto con quel titolo “L’arabo fenice”.  Egli ha offerto il fianco a tutti i suoi avversari, che peraltro non sono pochi e spesso sono persino sorpresi dalla palla che ricevono da lui in questa interminabile partita della crisi di governo formalizzatasi con le tardive dimissioni dal presidente del Consiglio. Che avrebbero potuto bastare al leader di Italia Viva per cantare vittoria. Invece non sono bastate. E non è bastata neppure una telefonata di mezz’ora ricevuta prima di salire al Quirinale per le consultazioni da Giuseppe Conte, che pure si era proposto più o meno pubblicamente di non avere più rapporti con lui per l’asprezza delle critiche ricevute, e dell’accusa di essere ormai un “vulnus” per la democrazia.

             Che cosa ti fa a questo punto Renzi, dopo essersi peraltro vantato della telefonata rivelandola? Va da Sergio Mattarella e gli chiede di non dare l’incarico per la formazione di un nuovo governo a Conte perché prima va verificata con un mandato esplorativo, preferibilmente al presidente grillino della Camera Roberto Fico, la disponibilità degli stessi grillini e del Pd a ricostituire davvero una maggioranza con i renziani. Ma, sant’Iddio, Mattarella stava per consultare proprio la delegazione del Pd guidata dal segretario Nicola Zingaretti in persona e aveva già fissato per oggi la consultazione con la delegazione del Movimento 5 Stelle.

             La richiesta di un esploratore ad hoc, sottintendendo un giudizio quanto meno di insufficienza sulle capacità consultorie di Mattarella, può ben essere considerata una gaffe istituzionale, politica e umana nei riguardi del Capo dello Stato. Che, se non ha reagito mandandolo sull’istante a quel posto, trattenuto forse solo dal ricordo di essere stato politicamente mandato al Quirinale proprio da Renzi nel 2015 col lancio della sua candidatura, anche a costo di rompere il famoso  “patto del Nazareno” con Silvio Berlusconi, ha dimostrato di essere un Giobbe dei nostri tempi.

          Non so che cosa farà il presidente della Repubblica alla conclusione odierna delle consultazioni: se supererà o no la pazienza di Giobbe conferendo un incarico esplorativo a Fico, o a qualcun altro, come già si aspetta qualche giornale, o no. Penso di poter immaginare, avendolo conosciuto e frequentato, cosa avrebbe fatto Sandro Pertini. Che credo sia stato, nonostante il suo cattivo carattere, di cui peraltro si vantava, il più popolare dei presidenti della Repubblica.

          Pertini avrebbe conferito a Conte, smanioso di riceverlo, l’incarico di tentare la soluzione della crisi con la formazione di un nuovo governo. E avrebbe così sfidato Renzi ad assumersi nelle trattative del presidente reincaricato la responsabilità di un veto che non ha avuto il coraggio di porre chiaramente nelle consultazioni al Quirinale. Che non è ancora o soltanto un museo ma la sede della Presidenza della Repubblica, con tanto di bandiere al vento, quando soffia, e di corazzieri splendenti.

             Peccato che l’ex presidente del Consiglio riesca così spesso a condurre male le sue pur giuste battaglie, come accadde nel 2016 con la sua apprezzabile riforma costituzionale personalizzando rovinosamente il referendum confermativo e trasformandolo in un plebiscito sulla sua leadership. Un vero peccato o, se preferite, uno spreco di energie e occasioni.

 

 

 

 

 

 

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La politicizzazione della giustizia è sopravvissuta all’emergenza invocata nel 1992

Anche Rosilde Craxi, la compianta sorella di Bettino e moglie dell’allora sindaco di Milano Paolo Pillitteri, usava commentare l’esplosione di Tangentopoli, nel 1992, vedendo negli eccessi della magistratura, tra retate di arresti e raffiche di avvisi di garanzia spesso destinati neppure a sfociare in rinvii a giudizio, che la politica raccoglieva i frutti dei gravi errori commessi durante gli anni del terrorismo. Allora in effetti la politica spesso non aveva preceduto ma seguito l’azione giudiziaria, alimentando l’impressione che fossimo venuti a capo capo di quella tragica stagione per merito soprattutto dei magistrati. Che avevano lasciato peraltro sul campo, quasi a dimostrazione dell’assunto, più vittime dei politici, anche  se non celebri come le seconde, specie col sequestro e infine l’assassinio di Aldo Moro, nel 1978.

Ne parlai una volta con Bettino nella sua casa di Hammamet e lo trovai agguerrito nella reazione, anche se stava confutando una tesi della sorella, e dandomi l’impressione che ne avesse già discusso direttamente con lei. Egli sostenne, in particolare, che quella del terrorismo fosse stata un’emergenza reale, e terribile, nella quale si poteva in qualche modo considerare inevitabile una reazione giudiziaria più tempestiva di quella politica. Sarebbe stata invece tutta montata, mediaticamente e giudiziariamente, l’emergenza “morale” invocata per giustificare dal 1992 in poi l’applicazione quanto meno anomala dei codici penale e di procedura penale, abusando a tal punto, per esempio, dell’arresto durante le indagini preliminari da fare sbottare anche un ex magistrato come l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, peraltro ministro dell’Interno nei suoi governi, fra il 1983 e il 1987.

In effetti, come ho già ricordato evocando i precedenti della crisi politica in corso, inciampata anch’essa sui temi della giustizia, essendo scoppiata in tempo per evitare uno scabroso dibattito parlamentare sulla relazione annuale del guardasigilli grillino Alfonso Bonafede, nel 1994 il presidente della Repubblica non mosse obbiezione alcuna ad un decreto legge varato dal primo governo di Silvio Berlusconi, ancora fresco di nomina, per dare una stretta alle cosiddette custodie cautelari.

Eppure c’era il sospetto, a torto o a ragione, che quel decreto fosse stato accelerato dal governo per prevenire l’arresto, che era in aria, di Paolo Berlusconi, il fratello del presidente del Consiglio. Scalfaro firmò ugualmente senza battere ciglio, sorprendendo i magistrati di Milano, che poi protestarono minacciando pubblicamente le dimissioni. Ad essi invece il presidente della Repubblica si era accodato -pace all’anima sua- l’anno prima rifiutando la firma ad un decreto legge predisposto dal primo governo di Giuliano Amato per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli: provvedimento che pure era stato concordato col Quirinale, articolo per articolo, o addirittura comma per comma, tra numerose interruzioni di un Consiglio dei Ministri poi raccontato come testimone da Sandro Fontana, il compianto ex direttore del giornale ufficiale della Dc Il Popolo.

In esecuzione del decreto Biondi, dal nome del ministro della Giustizia del primo governo Berlusconi, furono scarcerati  numerosi detenuti, nonostante le proteste dei magistrati della Procura ambrosiana. Ad arenarlo, con la rinuncia alla sua conversione in legge, e a condividere quindi le proteste delle toghe milanesi, provvide invece la Lega di Umberto Bossi. Che ordinò personalmente al pur riluttante ministro dell’Interno Roberto Maroni, peraltro avvocato, di dichiarare di non avere letto o capito bene il decreto prima di firmarlo con il guardasigilli, o addirittura di avere firmato qualcosa di diverso da quello poi visto sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Berlusconi abbozzò, senza peraltro riuscire a sottrarsi ad una crisi che sarebbe scoppiata dopo alcuni mesi, sempre per iniziativa della Lega ma sul tema pensionistico reso incandescente dalle proteste dei sindacati contro una riforma in cantiere.

L’emergenza morale invocata, e condivisa da quasi tutti i giornali, i cui cronisti giudiziari si scambiavano le notizie come in un pool per una rappresentazione univoca delle indagini che asfaltavano i partiti di governo della cosiddetta e morente prima Repubblica, era a dir poco discutibile per il semplice fatto che la politica costava alla luce del sole almeno dalle dieci alle cento volte di più di quanto previsto dalla legge sul finanziamento pubblico dei partiti. All’improvviso si decise di contrastarne durissimamente le dimensioni e i metodi illegali, in una carneficina mediatica dalla quale si salvarono, e neppure del tutto, solo i comunisti o già post-comunisti per la ferrea disciplina, reticenza e complicità cui erano abituati. Ricordo il nome  “Gabbietta” del conto di un celebre raccoglitore di fondi del Pci e poi Pds-ex Pci, che divenne un mito fra i militanti nei congressi e nelle feste dell’Unità. Si chiamava Primo Greganti.

Una conferma involontaria alla interpretazione o rappresentazione di Craxi del marasma politico scatenato dalle iniziative giudiziarie nel 1992 e anni successivi,  è venuta dopo la morte del leader socialista, di cui è ricorso in questi giorni il ventunesimo anniversario, da una fonte insospettabile: l’ultimo segretario del Pci e primo del Pds-ex Pci Achille Occhetto. Il quale, evocando qualche tempo fa la fatica da lui fatta per salvare il suo partito dal crollo del muro di Berlino, si è lasciata scappare una confessione tanto onesta quanto tragica per capire e valutare quegli anni.

In particolare, Occhetto riconoscendo che si pose allora il problema assai difficile di ridisegnare la sinistra con un Craxi inviso a gran parte della base comunista -anche perché con stile che apparve a molti di annessione il segretario del Psi festeggiò la caduta del muro di Berlino con l’esposizione della bandiera dell’”Unità socialista” alle finestre della sede nazionale del suo partito- ammise che il colpo di grazia a quell’impresa venne dalla pur “meritoria” e “obbligata” azione giudiziaria chiamata “Mani pulite”. Che si estese rapidamente da Milano ad altre Procure, con eccessi lamentati di recente persino da Antonio Di Pietro, il magistrato simbolo di quell’inchiesta.

Costretti dalla popolarità di quell’azione- ma anche, direi, dalla direzione prevalentemente a senso unico delle indagini- a sostenere e persino inseguire i magistrati, i comunisti finirono per avvelenare i pozzi anche della sinistra italiana da ridisegnare. Negare a questo punto la politicità dell’azione della magistratura dopo l’emergenza reale del terrorismo, non sfruttabile a fini di una parte politica o dell’altra, e datarne l’inizio nel 1992, mi sembra francamente impossibile, pur con tutta la buona volontà e buona fede che ci può mettere un contestatore, in toga o in penna che sia.

Il guaio è che la politicizzazione della giustizia è dannatamente continuata ben oltre la fine e sepoltura della prima Repubblica. La stiamo ancora vivendo.

 

 

 

 

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La crisi partorisce parlamentari in affitto, prestito e comodato d’uso…

           Come per riscattare il suo partito dal sospetto di fare il doppio gioco da una parte chiedendo al capo dello Stato il reincarico del presidente del Consiglio dimissionario per un governo più solido e dall’altra sostenendo il recupero di Matteo Renzi, che tornerebbe a destabilizzare la maggioranza per la sua natura di scorpione sulla rana della celebre favola, Nicola Zingaretti ha prestato la senatrice di cui avevano bisogno i “volenterosi” ed “europeisti” per costituire a Palazzo Madama  il nuovo gruppo voluto da Giuseppe Conte. Che aspira a diventare così numeroso da rendere non più determinanti i parlamentari renziani.

        La senatrice prestata da Zingaretti a Conte è la triestina Tatjana Roic. Che si è improvvidamente vantata del suo patriottismo politico, diciamo così, parlando di un “sacrificio” compiuto per “il bene del Paese” e assicurando che la sua “casa” continuerà ad essere il Pd. Dove quindi conta di tornare dalla trasferta non appena saranno arrivati al nuovo gruppo i senatori mancati sinora.

        La franchezza della Roic, che ha raccontato anche date e modalità della missione affidatale dal partito, è stata pari allo sgomento che deve provare adesso lo stesso Zingaretti. Il quale rischia di passare non dico alla storia, addirittura, ma alle cronache parlamentari sì per l’introduzione dell’affitto o del comodato d’uso dei rappresentanti del popolo. Costoro, oltre ad essere da tempo nominati, adesso possono essere anche prestati da una parte all’altra. Ormai c’è una sconcertante gara a demolire la credibilità dell’istituto parlamentare.

      A questo punto temo che Silvio Berlusconi farà sempre più fatica a smentire i maliziosi che gli hanno già attribuito una spintarella d’incoraggiamento, sotto sotto, alla sua ex segretaria di fiducia Mariarosaria Rossi: la senatrice unitasi alla maggioranza nell’ultima votazione di fiducia a Conte e affrettatasi naturalmente ad arruolarsi nel nuovo gruppo degli europeisti del Maie-Centro Democratico, contribuendo con la Roic a farlo nascere in tempo per esordire al Quirinale nelle consultazioni per la soluzione della crisi. E al tempo stesso riuscendo ad impedire di fatto, e a grande sorpresa, l’adesione della senatrice Alessandrina Lonardo, la moglie di Clemente Mastella che pretendeva il nome del movimento di famiglia “Noi campani” nella intestazione del nuovo gruppo.

            Persino il navigatissimo Eugenio Scalfari in un intervento eccezionalmente feriale su Repubblica ha dato ormai a Conte ben poche possibilità di rimanere a Palazzo Chigi. E intrufolandosi a suo modo nelle consultazioni di Sergio Mattarella ha proposto una sua soluzione alla crisi che Marco Travaglio ha definito sul Fatto Quotidiano “la più demenziale del mondo” per la piega che sta prendendo, ben diversa dalle sue indicazioni, speranze, direttive ai grillini e quant’altro. In particolare, Scalfari per sottrarre la crisi alle “carezze e ceffoni” di Renzi ha proposto al presidente della Repubblica di richiamare da Bruxelles Paolo Gentiloni, ora commissario europeo all’Economia, e restituirgli il palazzo consegnato a Conte nel 2018.

            Avremmo così un magico ritorno alla legislatura scorsa, quando sottraendosi alle spinte dell’amico Renzi, ristrettosi nei panni di segretario del Pd dopo la sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale firmata come presidente del Consiglio, il conte -stavolta al minuscolo- Gentiloni spalleggiò Mattarella nel rifiuto delle elezioni anticipate. Che avrebbero scongiurato la cocente sconfitta elettorale dell’anno successivo al Pd rimasto a Renzi dopo la scissione dei Bersani, D’Alema, Speranza e compagni.

 

 

 

 

 

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Quell’incontro tanto lungo quanto galeotto di Conte alla Camera con Fico

           Significheranno pure qualcosa i 75 minuti trascorsi dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte col presidente della Camera Roberto Fico, contro i dieci o poco più bastati per l’incontro con la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati per le visite informative di rito in apertura finalmente formale della crisi. Il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli.

             Conte ha avuto al Senato, non alla Camera, i problemi che alla fine lo hanno costretto a desistere dai tentativi di superare la crisi senza neppure aprirla, sostituendo nella maggioranza i parlamentari determinanti di Matteo Renzi, passati dalla fiducia all’astensione critica, con altri “volenterosi” provenienti dall’opposizione di centrodestra o ex grillini. E’ alla presidente del Senato pertanto che il presidente dimissionario del Consiglio avrebbe dovuto sottrarre più tempo per informarsi, ad esempio, del nuovo gruppo dei “responsabili” in cantiere, e da lui prospettato a Mattarella per accreditare la propria candidatura al reincarico per un governo che ha già chiamato di “salvezza nazionale”. O, se avesse voluto profittare polemicamente dell’occasione, per chiedere alla sua interlocutrice se fosse soddisfatta delle sue dimissioni, dopo tutte le urticanti uscite della signora contro di lui. Che sono state solitamente incassate da Conte in un silenzio compensato dagli attacchi dei suoi sostenitori per la neutralità violata dalla presidente forzista del Senato.

            Dal presidente grillino della Camera invece Conte ha avuto sempre dichiarazioni e altri messaggi di incoraggiamento, o di comprensione per le circostanze eccezionali che lo hanno costretto con una certa frequenza a ricorrere troppo spesso, per esempio, ai decreti legge o, peggio ancora, ai decreti del presidente del Consiglio dei Ministri che disciplinano materie delicatissime senza passare per il vaglio parlamentare.

            Non credo che i 75 minuti trascorsi con Fico siano serviti a Conte per ringraziarlo delle carinerie ricevute: a cominciare dalla prima risalente al 2018, quando al termine di un’esplorazione affidatagli al Quirinale il presidente della Camera riferì incoraggiando il presidente della Repubblica verso la formazione di un governo grillo-leghista, a maggioranza gialloverde. Che toccò appunto a Conte dirigere, sia pure sotto il controllo stretto dei vice presidenti Luigi Di Maio e Matteo Salvini.

            La lunghezza del colloquio di Conte con Fico si spiega solo con la necessità più che comprensibile di raccogliere notizie attendibili su quel magma che è diventato il movimento 5 Stelle, dove il presidente della Camera non è certamente l’ultima ruota del carro. Egli è probabilmente informato dei tormenti politici, delle tensioni e di quant’altro dei grillini più del reggente Vito Crimi e dell’ex capo Di Maio. Del cui congiunto “Conte o elezioni anticipate” il presidente del Consiglio temo che non si fidi troppo. Egli sa bene di essere “nelle mani” non solo di Renzi, come ha titolato Repubblica, e dei “pugnalatori” del Pd, come ha titolato Il Fatto Quotidiano con le foto del ministro Lorenzo Guerini e del capogruppo del Senato Andrea Marcucci, ma anche dei grillini, appunto. Che pure con lui, come su tante altre cose, non sono più quelli di prima, specie se il sostegno al presidente dimissionario del Consiglio dovesse davvero costare lo scioglimento delle Camere dove essi siedono ancora in tanti. 

 

 

 

 

 

 

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Lo zampino della giustizia, alla fine, anche in questa crisi di governo

La crisi di governo appena consegnata nelle mani del capo dello Stato è stata di una tale anomalia nella sua gestazione che è francamente difficile trovarne una simile nella lunga storia, ormai, della Repubblica. Quella che forse gli assomiglia in qualche modo di più riguardò il primo governo  pentapartito di Bettino Craxi, nel 1986. Essa maturò nella convinzione pubblicamente espressa dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita che il leader socialista fosse “inaffidabile”: la stessa cosa detta questa volta da Conte e dai suoi sostenitori su Matteo Renzi per la rottura ostinatamente cercata col presidente del Consiglio.

Craxi reagì con ostinazione, pure lui, alla smania di De Mita di sloggiarlo da Palazzo Chigi essendo già durato quasi tre anni, ben oltre le abitudini della Dc e dei suoi uomini. Figuriamoci la sofferenza nei riguardi di un non democristiano.

La resa dei conti fra Craxi e De Mita fu alla fine rinviata per il rifiuto di Giulio Andreotti di succedere al leader socialista in quella occasione, come avrebbe voluto il segretario della Dc. La crisi riscoppiò otto mesi dopo, il 9 aprile 1987, scegliendo tuttavia De Mita come ragione principale non più o non tanto la rivendicazione di Palazzo Chigi, che sapeva troppo di potere, quanto il rapporto con la magistratura. La miccia fu insomma il tema della giustizia contro cui ha finito per sbattere in questi giorni anche Conte per via della relazione annuale del guardasigilli Alfonso Bonafede al Parlamento. Su cui ora, per la sopraggiunta crisi, mancheranno il temuto dibattito e le ancor più temute votazioni fra Camera e Senato.

Adesso è la prescrizione il tema principale dello scontro, fra la versione breve voluta da Bonafede e in vigore ormai da più di un anno, conteggiabile sino al primo grado di giudizio, oltre il quale essa scompare, e la compensazione, quanto meno, reclamata dai garantisti  con la definizione di tempi certi che rendano effettivamente “ragionevole” la durata dei processi assicurata nell’articolo 111 della Costituzione. Allora lo scontro si consumò rovinosamente sul referendum già indetto per la responsabilità civile dei magistrati, promosso dai radicali, sostenuto dai socialisti e contrastato dal sindacato delle toghe e da tutte le sue sostanziali appendici politiche.

Piuttosto che fare svolgere quel referendum ad esito scontato a favore dei promotori, la Dc di De Mita, con l’aiuto del Pci dietro le quinte, preferì ricorrere alle elezioni anticipate per rinviarlo, sia pure all’autunno dello stesso anno. Ma il tempo bastò ed avanzò perché partiti e correnti favorevoli ai magistrati si accordassero per neutralizzare la prova referendaria con una legge che poi continuasse, nella pratica, a mettere in sicurezza le toghe dal rischio di rispondere davvero dei loro errori, di tasca propria e non dello Stato.

E’ opinione largamente diffusa che chissà quante crisi siano scoppiate sui temi della giustizia, come apparve, per esempio, con la caduta del secondo governo Prodi, e lo scioglimento anticipato delle Camere nel 2008, dopo le dimissioni del guardasigilli Clemente Mastella per protesta contro l’arresto della moglie, sottoposta a indagini che sarebbero costate la sopravvivenza del partito di famiglia. Ma è lo stesso Mastella a negare tuttora questa rappresentazione dei fatti attribuendo quella caduta di Prodi alla estrema sinistra rappresentata dal senatore Franco Turigliatto.

In realtà, la magistratura ha ghigliottinato sì una Repubblica intera, la prima, ma mai nel vero senso della parola un governo, se non forse nel 1993 il primo di Giuliano Amato. Che fu delegittimato politicamente affondandone con minacciate dimissioni nella Procura di Milano la cosiddetta “uscita da Tangentopoli”, tentata con un decreto legge cui l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro negò la firma. Essa piuttosto -sempre la magistratura- è riuscita dopo a  fare  ancora di più e di peggio condizionando gli sviluppi degli equilibri  politici con l’indebolimento di protagonisti, leader e attori e il conseguente rafforzamento degli avversari di turno.

La stessa caduta del primo governo di Silvio Berlusconi, dopo poco più di sei mesi dalla nascita, avvenne nel 1994 per l’indebolimento procurato al presidente del Consiglio dal famoso avviso a comparire della Procura di Milano per corruzione quando già Umberto Bossi aveva  però azionato il congegno della crisi sul tema delle pensioni. Ma ancor prima -va detto- lo stesso Bossi aveva obbligato il Cavaliere di Arcore a subire lo stop imposto dai magistrati milanesi al decreto legge, pur già regolarmente firmato da Scalfaro, per la restrizione del ricorso alle manette nelle indagini preliminari.

Molti anni dopo, nel 2011, sarebbe arrivata la tempesta giudiziaria sulle feste di Berlusconi ma il suo ultimo governo era già agli sgoccioli politici per un’altra tempesta: quella finanziaria proveniente dagli Stati Uniti e abbattutasi su tutta l’Europa. Che avrebbe portato a Palazzo Chigi Mario Monti.

 

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Finito il sequestro della crisi di governo, riconsegnata al capo dello Stato

            Il sequestro della crisi di governo da parte del presidente del Consiglio, se Dio vuole, è finito con quella che Domani, il nuovo quotidiano di Carlo De Benedetti, ha definito “la resa di Conte”. Che non è negata neppure dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, sostenitore dell’avvocato pugliese anche nella resistenza alle dimissioni dopo aver perduto un pezzo della maggioranza, quello renziano, e nel tentativo di sostituirlo rapidamente con un gruppo numericamente adeguato di “volenterosi” provenienti dall’opposizione, prevalentemente di centrodestra.

            Travaglio è stato, dal suo punto di vista, addirittura catastrofico nella valutazione dello scenario di una crisi finalmente formalizzata. Egli ha indicato già col titolo di prima pagina il finale della partita: il ritorno “a casa” di Conte e l’ascesa al Quirinale, magari dopo un turno anticipato di elezioni politiche e la vittoria del centrodestra, dell’odiato B inteso naturalmente come Silvio Berlusconi. Cui Matteo Salvini avrebbe già “prenotato” la poltrona oggi di Sergio Mattarella.

            A questa catastrofe in prospettiva, sempre dal suo punto di vista, Travaglio ne ha descritto un’altra di accompagnamento, nell’editoriale su “Conte alla rovescia”, scrivendo che “i poteri marci, con giornaloni e onorevoli burattini al seguito, non potevano perdere l’ultima occasione di mettere le zampe sui 209 miliardi del Recovery fund”. E ciò avverrebbe “piazzando a Palazzo Chigi l’ennesimo prestanome”. Così tutti i possibili successori di Conte, non potendosi ritenere scontato -come vedremo- un suo reincarico, sono bollati: marionette dei “poteri marci” che gli amati grillini non sono evidentemente riusciti a rottamare nei quasi tre anni della legislatura di cui ancora si considerano “la colonna”, come si è appena vantato il reggente Vito Crimi reclamando un nuovo governo di Conte. Che tuttavia, a leggere Il Foglio di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa, non si fida più neppure del Movimento 5 Stelle. La cui situazione interna in effetti è a dir poco caotica, temendo tutti a morte quelle elezioni anticipate che invece reclamano come minaccia per chi contesta il loro ruolo ancora centrale nel Parlamento eletto nel 2018.

            Ora che la crisi ha preso finalmente la strada giusta per essere gestita dal titolare voluto dalla Costituzione, che è il capo dello Stato, si può forse sperare che non sia terminato solo il sequestro, come dicevo, ma anche l’avvelenamento dei rapporti politici verificatosi con quelle che Claudio Tito su Repubblica ha definito “grandi manovre” di Conte tradottesi in “piccoli numeri”. Che peraltro si sono rivelati insufficienti a garantire il primo appuntamento che il governo, scampato alla sfiducia pochi giorni fa al Senato, aveva col Parlamento tra domani e dopodomani: il voto sulla relazione  annuale del guardasigilli e capo della delegazione grillina Alfonso Bonafede relativa allo stato della giustizia in Italia.

            Ora dei numeri si occuperà realisticamente il presidente della Repubblica, a proposito del quale il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda ha scritto, fra l’altro, che “non è scontato” il conferimento del “nuovo incarico” che si aspetta Conte. Cui potrebbe mancare addirittura la designazione dei pochi “volenterosi” raccolti durante il sequestro della crisi o rimasti sospesi per aria.

 

 

 

 

 

 

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Da Agnelli a Conte: la staffetta repubblicana dei due Avvocati

C’era una volta, ai tempi della cosiddetta e tarda prima Repubblica, diciamo fra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso, “l’Avvocato”, con la maiuscola persino a parlarne, accentuando la voce sulla prima vocale. Era naturalmente Gianni Agnelli, compiaciutissimo di una professione attribuitagli coram populo ma mai davvero esercitata. Erano compiaciuti, in fondo, anche gli avvocati patrocinanti in ogni grado della giurisdizione di una colleganza inventata mediaticamente perché procurava vantaggi pure a loro.  “L’Avvocato” padrone della Fiat dava solidità anche alla professione forense, oltre alle macchine, ai guadagni e al potere che la sua azienda produceva e diffondeva.

Era diventato, “l’Avvocato”, anche un modello di vita per tanti che neppure lo conoscevano ma ne imitavano l’orologio sopra il polsino della camicia, il foulard preferito alla cravatta, le scarpe a stivaletto pur a lui imposte dai postumi di un incidente giovanile d’auto e, più in generale, quella specie di distacco che  ostentava parlando di tutto e di tutti dall’alto in basso. Egli era riuscito a fare breccia persino nella sinistra con la teorizzazione degli interessi della sua Fiat coincidenti con quelli generali del Paese, per cui doveva essere conveniente a tutti assecondarli: oggi con un incentivo, domani con una sovrattassa sulle auto della concorrenza, quando a Torino, per esempio, non erano ancora bene attrezzati per il deasel, e doman l’altro con qualche strada o autostrada preferita ad una scuola o ad un ospedale.

Anche i rapporti  di Agnelli con la politica sapevano di basso visto dall’alto. Chiunque andasse a proporgli di fondare un partito contando sulla sua popolarità internazionale, fosse pure un professore universitario titolato come capitò a Giuliano Urbani nel 1993, fra i marosi di Tangentopoli, veniva dirottato cortesemente verso altri: nel caso di Urbani verso Silvio Berlusconi. In compenso egli autorizzava i fratelli a giocare in partiti diversi: la sorella Susanna, per esempio, nel Pri e il fratello Umberto nella Dc.

Una solta volta “l’Avvocato” sembrò cedere ad una tentazione ai confini, diciamo così, della politica. Fu quando Giulio Andreotti, desideroso di accreditare il più possibile all’estero la “solidarietà nazionale” col Pci, che ne appoggiava i governi monocolori, pensò di farlo ambasciatore dell’Italia negli Stati Uniti. Il “divo” dovette rinunciarvi molto a malincuore non per le resistenze del nominando ma per le barricate metaforicamente allestite dai diplomatici di carriera.

Ora, nei nostri tempi di emergenze diverse da quelle gestite da Andreotti, con la pandemia al posto del terrorismo, “l’Avvocato”, sempre con la prima vocale maiuscola e pronunciata con una certa enfasi, è un altro: Giuseppe Conte. Ma è un avvocato vero, con tanto di studio e di cause sostenute nei tribunali fra una lezione universitaria e l’altra di diritto.

Conte è un avvocato prestato dai grillini nel 2018 alla politica cominciando dal posto quasi più in alto di tutti, ad eccezione del Quirinale: la Presidenza del Consiglio, a Palazzo Chigi. Dove egli ha fatto rapida esperienza, diventando politicamente addirittura “un figlio ’entrocchia”, come lo ha recentemente definito con simpatia, non con malanimo, un politico navigato come l’ex o post democristiano Clemente Mastella. Che con l’ex collega di partito Bruno Tabacci, il post-comunista Goffredo Bettini ed altri ancora rimasti prudentemente dietro le quinte cercano di aiutarlo nella fatica di Sisifo di arruolare “volenterosi” di varia provenienza con i quali sostituire nella maggioranza di governo i renziani che ne sono usciti.

Come ad Agnelli, anche a lui è toccato di dovere cambiare soci, che in politica si chiamano alleati, per superare impreviste difficoltà. Agnelli imbarcò e tenne nella Fiat addirittura i libici al comando di Gheddafi, usandone i soldi, come Conte ha imbarcato nella sua maggioranza prima la Lega di Matteo Salvini e poi il Pd di Nicola Zingaretti e ancora di Matteo Renzi, messosi poi in proprio nella maggioranza con Italia viva.

Diversamente da Agnelli, però, Conte non sembra proprio pregiudizialmente chiuso alle sollecitazioni di allestire un proprio partito contando sulla popolarità guadagnatasi da presidente del Consiglio. Ne sono circolati in questi giorni persino i nomi possibili: da Insieme a Italia ‘23, che indica l’anno della conclusione ordinaria della legislatura, anche se ogni tanto i giornali gli attribuiscono, a torto o a ragione, la conversione alle elezioni anticipate, almeno come deterrente contro chi lo vorrebbe detronizzare cavalcando ogni occasione a portata di mano, o di piede: prima la votazione di fiducia al Senato, risicata ma comunque ottenuta, e ora quella, sempre nel periglioso Senato, sulla relazione annuale del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Al quale peraltro Conte deve in qualche modo l’approccio col mondo grillino già nella scorsa legislatura, quando in vista delle elezioni entrò nella lista di un potenziale governo monocolore pentastellato come semplice ministro della Pubblica Amministrazione.

 

 

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Anche i grillini a pezzi, oltre al Pd, per la gestione della crisi-non crisi di Conte

             Volente o nolente, non so se per avere sopravvalutato se stesso o per avere sottovalutato le difficoltà degli alleati rimastigli formalmente accanto dopo la rottura con Matteo Renzi, un pò cercata e non solo subìta, Giuseppe Conte ha ridotto “a pezzi” anche i grillini, oltre al Pd segnalato ieri in un titolo di prima pagina dal pur amichevole Fatto Quotidiano. Che oggi titola sul presidente del Consiglio a 48 ore forse da una crisi questa volta formale, con tanto di dimissioni e passaggio della parola e delle decisioni al capo dello Stato lasciato da troppo tempo alla finestra. E attribuisce sempre a Conte ciò che ieri contestava invece al vice segretario del Pd Andrea Orlando: la richiesta al guardasigilli e capo della delegazione pentastellata al governo, Alfonso Bonafede, di un aiuto. Che consisterebbe nella presentazione imminente alle Camere di una relazione sullo stato della giustizia che tenga conto della fragilità, a dir poco, della maggioranza e conceda qualcosa ai garantisti che da più di un anno aspettano una compensazione della prescrizione breve, ora prevista sino al primo grado di giudizio.

            In particolare, ciò che i garantisti ancora presenti nella maggioranza, cioè buona parte del Pd, quelli usciti sinora astenendosi, cioè i renziani, e quelli dell’opposizione corteggiati faticosamente per prenderne il posto da “volenterosi” vogliono che finalmente il guardasigilli garantisca davvero, e non più a parole, la determinazione precisa della “ragionevole durata” dei processi stabilita genericamente nella Costituzione. Se il termine fosse, nel complesso di tutti i gradi di giudizio, cinque anni le tensioni potrebbero ridursi. Ma bisognerebbe intendersi bene anche su cosa accadrebbe, e con chi potersela prendere, se i magistrati non riuscissero a rispettare una simile scadenza.

            Bonafede, già salvatosi una volta dalla sfiducia individuale promossa contro di lui in Parlamento dal centrodestra con la sostanziale condivisione dei renziani sino al ripensamento dell’ultimo istante, gode dell’appoggio e dell’abbraccio dell’ex capo del movimento grillino Luigi Di Maio, almeno in una foto d’archivio riproposta sulla sua postazione telematica dal ministro degli Esteri.  Che continua anche a rilasciare dichiarazioni sull’alternativa fra Conte e Bonafede da una parte e le elezioni anticipate dall’altra senza però convincere molti dei grillini. Alcuni dei quali sono usciti anche allo scoperto, ben consapevoli della possibile decimazione del Movimento 5 Stelle e perciò sensibili a maggiore realismo e responsabilità, anche riaprendo a Renzi. Se n’è reso conto lo stesso Bonafede, di cui Il Messaggero ha riferito in prima pagina, con buone informazioni, il rifiuto o la paura di diventare il capro espiatorio di questa curiosa crisi non crisi gestita con ostinazione da Conte. Che pure deve a lui l’adozione grillina che l’ha portato a Palazzo Chigi.

            La politica, come hanno imparato anche quelli che vi sono arrivati di recente scalandone con troppa rapidità e generosità elettorale i gradini, non ha notoriamente fra le sue regole la gratitudine. Forse è esagerata la brutale definizione di “sangue e merda” datane una volta da uno dei protagonisti dell’epoca tarda della cosiddetta prima Repubblica, l’allora ministro socialista Rino Formica, ma certo la politica non è un pranzo di gala. E di sangue ne ha visto scorrere davvero: quello, per esempio, di Aldo Moro nel 1978, dopo lo sterminio della scorta. Il delitto fu firmato dalle brigate rosse, ma non senza complici politici.  

 

 

 

 

 

 

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