Quell’incontro tanto lungo quanto galeotto di Conte alla Camera con Fico

           Significheranno pure qualcosa i 75 minuti trascorsi dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte col presidente della Camera Roberto Fico, contro i dieci o poco più bastati per l’incontro con la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati per le visite informative di rito in apertura finalmente formale della crisi. Il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli.

             Conte ha avuto al Senato, non alla Camera, i problemi che alla fine lo hanno costretto a desistere dai tentativi di superare la crisi senza neppure aprirla, sostituendo nella maggioranza i parlamentari determinanti di Matteo Renzi, passati dalla fiducia all’astensione critica, con altri “volenterosi” provenienti dall’opposizione di centrodestra o ex grillini. E’ alla presidente del Senato pertanto che il presidente dimissionario del Consiglio avrebbe dovuto sottrarre più tempo per informarsi, ad esempio, del nuovo gruppo dei “responsabili” in cantiere, e da lui prospettato a Mattarella per accreditare la propria candidatura al reincarico per un governo che ha già chiamato di “salvezza nazionale”. O, se avesse voluto profittare polemicamente dell’occasione, per chiedere alla sua interlocutrice se fosse soddisfatta delle sue dimissioni, dopo tutte le urticanti uscite della signora contro di lui. Che sono state solitamente incassate da Conte in un silenzio compensato dagli attacchi dei suoi sostenitori per la neutralità violata dalla presidente forzista del Senato.

            Dal presidente grillino della Camera invece Conte ha avuto sempre dichiarazioni e altri messaggi di incoraggiamento, o di comprensione per le circostanze eccezionali che lo hanno costretto con una certa frequenza a ricorrere troppo spesso, per esempio, ai decreti legge o, peggio ancora, ai decreti del presidente del Consiglio dei Ministri che disciplinano materie delicatissime senza passare per il vaglio parlamentare.

            Non credo che i 75 minuti trascorsi con Fico siano serviti a Conte per ringraziarlo delle carinerie ricevute: a cominciare dalla prima risalente al 2018, quando al termine di un’esplorazione affidatagli al Quirinale il presidente della Camera riferì incoraggiando il presidente della Repubblica verso la formazione di un governo grillo-leghista, a maggioranza gialloverde. Che toccò appunto a Conte dirigere, sia pure sotto il controllo stretto dei vice presidenti Luigi Di Maio e Matteo Salvini.

            La lunghezza del colloquio di Conte con Fico si spiega solo con la necessità più che comprensibile di raccogliere notizie attendibili su quel magma che è diventato il movimento 5 Stelle, dove il presidente della Camera non è certamente l’ultima ruota del carro. Egli è probabilmente informato dei tormenti politici, delle tensioni e di quant’altro dei grillini più del reggente Vito Crimi e dell’ex capo Di Maio. Del cui congiunto “Conte o elezioni anticipate” il presidente del Consiglio temo che non si fidi troppo. Egli sa bene di essere “nelle mani” non solo di Renzi, come ha titolato Repubblica, e dei “pugnalatori” del Pd, come ha titolato Il Fatto Quotidiano con le foto del ministro Lorenzo Guerini e del capogruppo del Senato Andrea Marcucci, ma anche dei grillini, appunto. Che pure con lui, come su tante altre cose, non sono più quelli di prima, specie se il sostegno al presidente dimissionario del Consiglio dovesse davvero costare lo scioglimento delle Camere dove essi siedono ancora in tanti. 

 

 

 

 

 

 

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Lo zampino della giustizia, alla fine, anche in questa crisi di governo

La crisi di governo appena consegnata nelle mani del capo dello Stato è stata di una tale anomalia nella sua gestazione che è francamente difficile trovarne una simile nella lunga storia, ormai, della Repubblica. Quella che forse gli assomiglia in qualche modo di più riguardò il primo governo  pentapartito di Bettino Craxi, nel 1986. Essa maturò nella convinzione pubblicamente espressa dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita che il leader socialista fosse “inaffidabile”: la stessa cosa detta questa volta da Conte e dai suoi sostenitori su Matteo Renzi per la rottura ostinatamente cercata col presidente del Consiglio.

Craxi reagì con ostinazione, pure lui, alla smania di De Mita di sloggiarlo da Palazzo Chigi essendo già durato quasi tre anni, ben oltre le abitudini della Dc e dei suoi uomini. Figuriamoci la sofferenza nei riguardi di un non democristiano.

La resa dei conti fra Craxi e De Mita fu alla fine rinviata per il rifiuto di Giulio Andreotti di succedere al leader socialista in quella occasione, come avrebbe voluto il segretario della Dc. La crisi riscoppiò otto mesi dopo, il 9 aprile 1987, scegliendo tuttavia De Mita come ragione principale non più o non tanto la rivendicazione di Palazzo Chigi, che sapeva troppo di potere, quanto il rapporto con la magistratura. La miccia fu insomma il tema della giustizia contro cui ha finito per sbattere in questi giorni anche Conte per via della relazione annuale del guardasigilli Alfonso Bonafede al Parlamento. Su cui ora, per la sopraggiunta crisi, mancheranno il temuto dibattito e le ancor più temute votazioni fra Camera e Senato.

Adesso è la prescrizione il tema principale dello scontro, fra la versione breve voluta da Bonafede e in vigore ormai da più di un anno, conteggiabile sino al primo grado di giudizio, oltre il quale essa scompare, e la compensazione, quanto meno, reclamata dai garantisti  con la definizione di tempi certi che rendano effettivamente “ragionevole” la durata dei processi assicurata nell’articolo 111 della Costituzione. Allora lo scontro si consumò rovinosamente sul referendum già indetto per la responsabilità civile dei magistrati, promosso dai radicali, sostenuto dai socialisti e contrastato dal sindacato delle toghe e da tutte le sue sostanziali appendici politiche.

Piuttosto che fare svolgere quel referendum ad esito scontato a favore dei promotori, la Dc di De Mita, con l’aiuto del Pci dietro le quinte, preferì ricorrere alle elezioni anticipate per rinviarlo, sia pure all’autunno dello stesso anno. Ma il tempo bastò ed avanzò perché partiti e correnti favorevoli ai magistrati si accordassero per neutralizzare la prova referendaria con una legge che poi continuasse, nella pratica, a mettere in sicurezza le toghe dal rischio di rispondere davvero dei loro errori, di tasca propria e non dello Stato.

E’ opinione largamente diffusa che chissà quante crisi siano scoppiate sui temi della giustizia, come apparve, per esempio, con la caduta del secondo governo Prodi, e lo scioglimento anticipato delle Camere nel 2008, dopo le dimissioni del guardasigilli Clemente Mastella per protesta contro l’arresto della moglie, sottoposta a indagini che sarebbero costate la sopravvivenza del partito di famiglia. Ma è lo stesso Mastella a negare tuttora questa rappresentazione dei fatti attribuendo quella caduta di Prodi alla estrema sinistra rappresentata dal senatore Franco Turigliatto.

In realtà, la magistratura ha ghigliottinato sì una Repubblica intera, la prima, ma mai nel vero senso della parola un governo, se non forse nel 1993 il primo di Giuliano Amato. Che fu delegittimato politicamente affondandone con minacciate dimissioni nella Procura di Milano la cosiddetta “uscita da Tangentopoli”, tentata con un decreto legge cui l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro negò la firma. Essa piuttosto -sempre la magistratura- è riuscita dopo a  fare  ancora di più e di peggio condizionando gli sviluppi degli equilibri  politici con l’indebolimento di protagonisti, leader e attori e il conseguente rafforzamento degli avversari di turno.

La stessa caduta del primo governo di Silvio Berlusconi, dopo poco più di sei mesi dalla nascita, avvenne nel 1994 per l’indebolimento procurato al presidente del Consiglio dal famoso avviso a comparire della Procura di Milano per corruzione quando già Umberto Bossi aveva  però azionato il congegno della crisi sul tema delle pensioni. Ma ancor prima -va detto- lo stesso Bossi aveva obbligato il Cavaliere di Arcore a subire lo stop imposto dai magistrati milanesi al decreto legge, pur già regolarmente firmato da Scalfaro, per la restrizione del ricorso alle manette nelle indagini preliminari.

Molti anni dopo, nel 2011, sarebbe arrivata la tempesta giudiziaria sulle feste di Berlusconi ma il suo ultimo governo era già agli sgoccioli politici per un’altra tempesta: quella finanziaria proveniente dagli Stati Uniti e abbattutasi su tutta l’Europa. Che avrebbe portato a Palazzo Chigi Mario Monti.

 

 

 

 

 

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