Luigi Di Maio “imbalsamato” per intestargli anche altre sconfitte

            La conferma digitale di Luigi Di Maio alla guida di quello che, per quanto ridotto nelle urne di domenica scorsa al 17 per cento dei voti, resta nel Parlamento nazionale, col 32 per cento conquistato l’anno scorso, il primo movimento o partito italiano, è purtroppo diventata sulle prima pagine dei giornali una notizia minore.

            Ciò è avvenuto per l’esito scontato di un “plebiscito” cui era stato ridotto per le solite modalità adottate dal proprietario della piattaforma e per la reinvestitura fornita da Beppe Grillo: il “garante”, l’”elevato”, il Migliore”, al maiuscolo come si scriveva in adorazione di Palmiro Togliatti nel Pci. Hanno inoltre contribuito al declassamento della notizia il falso caso della uscita dal governo del leghista Edoardo Rixi, francamente e politicamente inevitabile dopo la condanna per peculato e falso, sia pure in primo grado, e i clamorosi sviluppi dell’inchiesta giudiziaria su quello che si profila come il mercato non solo correntizio delle nomine nei tribunali affidate alla competenza del Consiglio Superiore della Magistratura.

             E’ stato quanto meno curioso il pur ridotto ma trionfalistico annuncio sul Fatto Quotidiano dell’80 perIlFatto.jpg cento dei voti raccolti da Di Maio, liquidato non più tardi del giorno prima sullo stesso, insospettabile giornale diretto da Marco Travaglio, e con la penna o il Gazzetta.jpgcomputer del medesimo Travaglio, come “un pugile suonato” dopo “il KO” elettorale di domenica, eppure sottoposto a “un imbarazzante plebiscito con un solo candidato”. Che è stato giustamente tradotto con una vignetta giornalistica sulla Gazzetta del Mezzogiorno in una scelta elettronica fra la conferma del capo del movimento e l’esclusione delle sue dimissioni.

             “Sei milioni di voti persi non si cancellano con qualche migliaio di clic”, aveva scritto alla vigilia del “plebiscito” Travaglio.jpgTravaglio, prima ancora di sapere che i voti sarebbero stati 56 mila, non si sa però, per i misteri della piattaforma intestata all’incolpevole Jean-Jacque Rousseau, morto undici anni prima della Rivoluzione francese del 1789, su quanti avrebbero avuto diritto a partecipare alla consultazione. Pertanto quell’80 per cento applicato come una coccarda sul calzoncino del “pugile suonato” ha un valore alquanto relativo e indefinito.

              In realtà, senza volere mancare di riguardo personale al vice presidente grillino del Consiglio e pluriministro, anche l’immagine impietosa del “pugile suonato” usata dal suo estimatore politico Travaglio, fiducioso che con qualche “segnale chiaro” i pentastellati possano recuperare almeno una parte dei voti rovinosamente perduti domenica; in realtà, dicevo, il povero Luigi Di Maio è stato in qualche modo imbalsamato con quel falso plebiscito.

            Volenti, e persino nolenti, i compagni del giovane capo del movimento lo hanno lasciato al suo posto condannandolo a intestarsi anche la prossima sconfitta. Che coi tempi che corrono, fra conti in rosso e sovrappeso politico di un Matteo Salvini ancora più difficilmente contenibile, soccorso persino dalle sezioni unite della Corte di Cassazione nella sua ultima offensiva popolare contro la droga, mi sembra francamente scontata. E ciò specie se la situazione dovesse precipitare verso elezioni anticipate in autunno per l’impossibilità del presidente del Consiglio di gestire il governo e del presidente della Repubblica di trovare, una volta scoppiata la  crisi, una soluzione diversa dallo scioglimento delle Camere ormai delegittimate -diciamo la verità, al di là delle disquisizioni accademiche di segno contrario- dai risultati delle elezioni europee, piemontesi e amministrative di domenica scorsa. 

 

 

 

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Dieci ore di clic su Di Maio, meno di una per ciascuno dei 15 punti persi nelle urne

            Questa volta Emilio Giannelli ha peccato un po’ di ingenuità, o di esagerazione, come preferite, proponendo sulla prima pagina del Corriere della Sera uno spericolato Luigi Di Maio che si rovescia nel vuoto, tra le nuvole, dal trampolino della piattaforma Rousseau, dopo essere sfuggito ad una votazione vera e stringente  nei gruppi parlamentari delle cinque stelle abbastanza polemici per i 15 punti elettorali su 32 perduti in un anno dal movimento sotto la sua guida.

            Di Maio, al contrario, va sul sicuro. La rete di salvataggio giustamente attribuitagli dal manifesto manifesto.jpgcol titolo di copertina, diciamo così, è stata stesa in persona da Beppe Grillo, dopo 48 ore di preghiera all’ascolto di Radio Maria a suo modo, imprecando contro “l’Italia peggiore” -ha scritto nel suo blog- espressasi nelle urne Grillo.jpgdomenica scorsa a favore di “un personaggio unicamente virtuale” come Matteo Salvini. Che il comico genovese, fondatore, garante e non so cos’altro del movimento presente in Parlamento con i gruppi più numerosi, come se fosse stata migliore l’Italia che glieli aveva mandati il 4 marzo 2018, ha già altre volte liquidato come il frutto di una imperdonabile dimenticanza o imprevidenza della mamma senza pillola.

            Con questo bagaglio di cultura, di acume, di ironia e chissà di cos’altro si sia messo in testa di avere, Grillo ha chiesto al suo popolo di smetterla di piangersi addosso, o di arrabbiarsi, e di confermare Di Maio al posto dove quegli sprovveduti dei parlamentari hanno mostrato di non volerlo più prendendo sul serio il loro mandato.

            Anche Davide Casaleggio naturalmente si è mobilitato per la conferma del “coraggioso” Di Maio, per cui sarebbe troppo clamoroso, e francamente irrealistico, scommettere su Di Maio.jpgsorprese dalle dieci ore di clic disposte per confermare lo sconfitto alla guida del partito: dieci ore di votazioni elettroniche, meno di una per ciascuno dei 15 punti, ripeto, che il vice presidente del Consiglio, ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro ha perso per strada, a livello prima locale e infine nazionale. E ciò, nonostante l’ambizione di limitare le perdite liquidando nell’ultimo tratto della campagna elettorale come “stronzate”, letteralmente, tutte le cose che andava dicendo nelle piazze, interviste e sortite il suo pur alleato Salvini. Che ora lo ripaga con quello che è in qualche modo il bacio della morte, cioè consolandolo delle perdite, attaccando chi lo contesta o ambisce a succedergli prima o poi alla guida del movimento e quindi accreditandolo come gli avversari lo dipingono: il grillino più conveniente per i leghisti.

            Più che sopra un tappeto volante, Grillo e Casaleggio hanno tuttavia  messo o lasciato Di Maio su una graticola, sotto cui arde il fuoco del malcontento interno al partito; della maggiore Rolli.jpgforza acquisita nella maggioranza gialloverde da Salvini;  del caos crescente in Forza Italia, dove Berlusconi potrebbe non riuscire a logorare il leader leghista che in fondo dà fastidio anche a lui, e infine della crisi economica. Che si trascina appresso i problemi dei rapporti con l’Europa, dove i risultati elettorali non sono esattamente quelli che servivano a Salvini per Gazzetta.jpgrimettere in discussione regole e quant’altro. Eppure il suo luogotenente a Palazzo Chigi, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti, ha detto che la lettera appena arrivata dalla Commissione uscente di Bruxelles per chiederci spiegazioni urgenti sul debito pubblico, cresciuto più delle previsioni e degli impegni assunti, potrebbe essere l’occasione dell’apertura di “un confronto sulla congruità dei vincoli stabiliti rispetto alla situazione concreta”.

            Questa storia dei conti e delle complicazioni possibili nei rapporti con l’Europa è particolarmente avvertita al Quirinale, dove Sergio Mattarella ha voluto parlare col presidente del Consiglio Giuseppe Conte, reduce da  incontri separati con i suoi due vice, ricevendo Repubblica.jpguna rappresentazione fiduciosa ma non del tutto convincente delle prospettive del governo. Se non l’allarme riferito da Repubblica nel suo vistoso titolo diBreda.jpg prima pagina, quanto meno un senso di forte preoccupazione del capo dello Stato si avverte nella cronaca quirinalizia solitamente affidabile del Corriere della Sera, dove si sono spinti a prospettare un pensierino, diciamo così, di Mattarella per elezioni anticipate a settembre. Sarà quel che lo stesso Mattarella vorrà o potrà fare.

 

 

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Tutti i guai di Luigi Di Maio sotto le cinque stelle e dintorni

            In attesa della resa dei conti fra Matteo Salvini e i grillini, come viene generalmente chiamata la trattativa fra il leader leghista e i suoi soci di maggioranza sull’agenda del governo gialloverde dopo i risultati delle elezioni europee, ma anche piemontesi e amministrative di domenica scorsa, risoltesi in un successo del Carroccio superiore alle previsioni forse dello stesso Salvini, c’è da seguire la resa dei conti sotto le cinque stelle. Che è probabilmentemanifesto.jpg destinata a non esaurirsi nell’assemblea congiunta dei gruppi parlamentari già annunciata e rinviata perché si è diffusa la voce, se non la notizia, della tentazione di Luigi Di Maio di sottoporre la sua pericolante leadership a un referendum, gestito naturalmente dalla piattaforma Rousseau. O, come dicono più concretamente altri, da Davide Casaleggio, magari nella versione della “Casaleggio dissociati” beffeggiata sulla prima pagina del solito, irriverente manifesto.

            Di Maio, ripreso impietosamente dai fotografi alquanto preoccupato dopo una conferenza stampa in cui i microfoni erano stati decisamente più numerosi degli argomenti a sua disposizione per difendersi non tanto dalle domande dei giornalisti presenti ma dagli attacchi che cominciavano a piovergli addosso dall’interno del movimento, rischia di pagare tutti in una volta gli errori commessi nell’anno e poco più di governo. In testa ai quali c’è, francamente, una sopravvalutazione delle proprie capacità fisiche, oltre che politiche, di recitare tante parti in commedia: capo del partito, o comunque voglia chiamarsi quello che ha diretto;  semicapo o vice capo del governo, con l’abitudine però di parlare in prima persona sovrapponendosi all’omologo leghista Salvini e al presidente del Consiglio Giuseppe Conte; capo dell’importante Ministero dello Sviluppo Economico, dati permettendo sulle condizioni e prospettive economiche, appunto, del Paese; capo del non meno importante Ministero del Lavoro, specie in un momento come questo, in cui esso manca e andrebbe creato più concretamente di quanto si possa fare con le parole, specie quando queste alimentano non la fiducia ma la diffidenza dei mercati e, più in particolare, degli investitori.

            La presunzione di poter fare bene tutte queste cose insieme è stata tale che viene francamente il sospetto che lo abbiano deliberatamente mandato al massacro quelli che glielo hanno voluto permettere, riparando le proprie responsabilità dietro cariche e funzioni di cosiddetta garanzia o patronaggio. Ora i nodi sono venuti al pettine anche per loro, che fingono, almeno per il momento, di stare alla finestra, magari pensando, o illudendosi, di poter continuare dietro le quinte a tenere i fili, anche della rivolta.

            Eppure solo qualche giorno prima delle elezioni, nell’anticamera di uno dei tanti salotti o arene televisive cui ha partecipato baldanzosamente, nonostante l’ età e le  condizioni di convalescente dopo un intervento chirurgico di non poco conto, un uomo esperto del ramo, diciamo così, come Silvio Berlusconi incrociando il giovane Di Maio si è complimentato per le sue forti doti di “comunicatore”. Mancava poco che non gli dicesse, come gli capitò qualche anno fa con una giovane parlamentare del proprio partito in un ristorante mettendola a confronto con la moglie, che l’avrebbe assunto se non fosse già impegnato con altri comunicatori in Forza Italia.

            Le cronache hanno riferito di un Di Maio tanto sorpreso dal complimento di Berlusconi, da lui peraltro trattato abitualmente come il peggiore prodotto politico del Paese, cui non rispondere neppure al telefono, da non avere saputo trovare neppure una battuta per ringraziarlo, o schermirsi. E di essersene poi rammaricato, consolato però dalla fidanzata che gli stava accanto ed aveva avvertito forse il rischio di una trappola o autorete, se la battuta non fosse stata indovinata.

            A dispetto del giudizio, ripeto, di un professionista della comunicazione come il Cavaliere, a meno di un suo perfido sfottò, Luigi Di Maio ha chiaramente sbagliato campagna elettorale, visti i risultati, e se non vuole ammettere di avere sbagliato, ancora più a monte, le scelte di governo e di partito.Gazzetta.jpg Ed ora anche lui, così giovane, è chiamato a contare gli emuli di Bruto coi loro pugnali.  Spero che non si monti la testa e non si paragoni a Cesare, distraendosi da quello schiacciasassi di Salvini che intanto procede su di lui, dopo averne subito attacchi, allusioni, derisioni, minacce e quant’altro.

 

 

 

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Lo sgambetto di Berlusconi indebolisce Salvini nelle trattative con i grillini

Scusatemi la franchezza, l’impertinenza, la supponenza o qualsiasi cosa vi possa apparire, con la quale non riesco a riconoscermi in molte delle analisi dei risultati delle tanto attese votazioni italiane per l’elezione del Parlamento europeo, e dei loro possibili riflessi sul governo gialloverde. Che fu formato l’anno scorso, dopo l’avvio della diciottesima legislature, in un clima di sostanziale emergenza, in qualche modo paragonabile a quella del 1976, quando il rinnovo anticipato delle Camere produsse quelli che Aldo Moro chiamò “due vincitori”: la sua Dc e il Pci di Enrico Berlinguer, sprovvisti entrambi dei numeri parlamentari per fare l’uno a meno dell’altro, per quanto si fossero presentati alternativi agli elettori.

Nacque allora il governo monocolore democristiano di Giulio Andreotti sostenuto prima dall’astensione e poi dal voto di fiducia del Pci all’insegna della “solidarietà nazionale”. L’anno scorso invece nacque un governo di grillini, senza i numeri per fare da soli, e di leghisti, autorizzati all’esperimento dall’alleato nelle urne Silvio Berlusconi per evitare un turno inedito di elezioni anticipate d’estate. Esso era temuto dal Cavaliere non solo e non tanto per gli abituali elettori di centrodestra in vacanza, e perciò destinati a disertare le urne, quanto per il rischio che il sorpasso della Lega su Forza Italia si ripetesse in dimensioni maggiori, e la leadership conquistatasi in quel versante da Matteo Salvini diventasse più forte, non occasionale come il Cavaliere sperava.

Ma Salvini, anziché logorarsi nella improvvisata e anomala coalizione da contratto con i grillini, come forse anche Berlusconi in cuor suo aveva motivo di ritenere, ha continuato a crescere in tutte le elezioni parziali o locali succedutesi a quelle politiche dell’anno scorso. Ciò deve avere spazientito, allarmato e quant’altro il Cavaliere. Che, lungi dall’essere quel dilettante che gli avversari hanno dipinto per anni, e lui stesso perfidamente lascia credere esondando nelle sue performance televisive contro le regole della continenza oppostegli dai conduttori con un misto di rassegnazione e di riguardo, ha impresso nelle ultime battute alla campagna elettorale per le europee una svolta sfuggita incredibilmente a fior di analisti.

In particolare, Berlusconi ha rimesso in discussione, proprio mentre i rapporti fra Salvini e Di Maio nel governo e nella maggioranza peggioravano a vista d’occhio, la leadership leghista del centrodestra prospettando esplicitamente una candidatura a Palazzo Chigi del fidato e fedele Antonio Tajani. Della cui elezione alla presidenza del Parlamento Europeo nel 2017, pur essendo avvenuta grazie ad una maggioranza di centrodestra, con i conservatori al posto dei socialisti accanto ai popolari della cancelliera tedesca Angela Merkel, l’allora eurodeputato Salvini non fu proprio entusiasta. E un po’ di acredine politica fra i due è rimasta.

Ora che Salvini -uscito sicuramente vincente dalle elezioni europee, nonostante i tentativi grillini di fermarne l’avanzata sollevando contro il suo partito la vecchia questione morale sullo sfondo delle solite inchieste giudiziarie-  si è proposto di investire il suo successo per cercare più di rivitalizzare che di far cadere il governo, si è creata una situazione a dir poco paradossale.

A ridurre la capacità negoziale del vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno può essere più della resistenza oggettivamente sfibrata di un movimento delle 5 stelle sorpassato dal Pd di Nicola Zingaretti, il timore del leader del Carroccio di mettere nel conto di una rottura con Di Maio il ritorno in un centrodestra di cui dovrebbe riguadagnarsi -chissà a che prezzo- la leadership, nonostante il 34 per cento e più di voti, contro meno del 9 di Forza Italia. E’ un po’ come quando la Dc -deve essersi detto qualche amico di “capitan” Salvini- con molto più del 30 per cento dei voti doveva fare buon viso al cattivo o scomodo gioco di un Giovanni Spadolini o di un Bettino Craxi a Palazzo Chigi.  Curioso, vero?

A questo scenario è stato opposto il 40 per cento di cui ormai Salvini disporrebbe con la sorella dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, e che gli restituirebbe nel negoziato con i grillini la forza paradossalmente strerilizzatagli da Berlusconi. Ma la legge elettorale per il rinnovo delle Camere non è la stessa per il rinnovo del Parlamento europeo. Quel 40 per cento  dovrebbe fare i conti con i collegi uninominali  della Camera e del Senato, i negoziati conseguenti nella coalizione, le soglie  e altre cose che rendono aleatorie persino le tavole pitagoriche. Vi sembrerà incredibile, ma è così. Nessuno d’altronde si occupa più del pasticcio della legge elettorale prodotta in Italia dalle forbici della Corte Costituzionale e dai rammendi  parlamentari.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

La Lega spiazzata dagli avversari che ne cantano la vittoria elettorale

            Ripetuto anche a livello locale -dal Piemonte, dove ha fatto conquistare la regione al centrodestra, a Lampedusa, dalla fascia ormai ex rossa dell’Emilia-Romagna, dove è diventato il primo partito come nel resto del Nord, a Capalbio, la ex Atene della sinistra scic, e via saltando da Capalbio.jpgun punto all’altro dell’Italia- il successo elettorale della Lega sembra avere dato la testa più ai giornali che l’avevano più o meno duramente avversata nella campagna elettorale che al suo leader Matteo Salvini. Di cui titoli e vignette -a cominciare da quella di Emilio Giannelli sul Corriere della Sera, che lo rappresenta come Superman che svetta mentre Luigi Di Maio precipita- danno l’immagine del padrone ormai di tutto: dall’”agenda” MESSAGGERO.jpgdel governo alle chiavi di casa nostra, non bastandogli più le coste così a lungo difese dall’assalto dei migranti, i nuovi pirati, e dalle “interferenze” dei magistrati ancora convinti, secondo il capo leghista, di poter fare politica con le loro ordinanze e sentenze senza farsi prima eleggere dai cittadini.

            Vi è qualcosa di obiettivamente esagerato in questa rappresentazione dei risultati elettorali di domenica: sia nel successo innegabile, per carità, di Salvini, sia nell’insuccesso, anch’esso innegabile, dei grillini, scavalcati nelle loro sedute o riunioni di analisi dal Fatto Quotidiano con quel titolo di prima pagina Il Fatto.jpgche li spinge all’opposizione: cioè al suicidio, più rapido di quella lunga morte scelta l’anno scorso alleandosi per il governo con i leghisti, anziché spingere -si deve presumere, stando al ragionamento di Marco Travaglio- per le elezioni anticipate. Con le quali essi avrebbero potuto tentare di passare dal 32 al 40 per cento, anziché precipitare al 17, com’è avvenuto dopo poco più di un anno di inebriante potere, alla media non so di quante nomine al giorno e di quanti annunci di conquiste di casematte e cose del genere.

            Lo spettacolo dell’informazione politica è sempre o generalmente desolante nei passaggi cruciali del nostro Paese, come si vide già ai tempi di “Mani pulite” e di tutto ciò che ne conseguì:  sempreGazzetta.jpg o generalmente sopra le righe, per moltiplicare sia il successo del vincitore sia l’insuccesso dello sconfitto di turno. E non è solo questione di volere saltare sul classico carro del trionfatore, ma anche di masochismo.

            I grillini e i loro sostenitori residui, verrebbe voglia di dire, continuano a sottovalutare il soccorso che può venire loro dagli ostacoli procurati nel centrodestra da Silvio Berlusconi in persona a Salvini contestandogli la leadership di quel campo, a vantaggio per ora dell’ormai ex presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani, forse in attesa che diventi ex anche il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi. Che d’altronde è stato già indicato dal Cavaliere nella campagna elettorale come una preziosa riserva della Repubblica  fra le proteste di Giorgia Meloni, probabilmente cresciuta di voti proprio per quelle sue reazioni.

            Salvini potrà anche avere già dato “i 30 giorni a Di Maio”, e a Giuseppe Conte, annunciati in primaRepubblica.jpg pagina da Repubblica;  può avere anche incassato “un voto della Madonna”, sparato Il Foglio.jpgin rosso sulla prima pagina dal Foglio che lo soprannomina “il Truce” con quella sinistra rima col Duce; può anche fare da ministro ormai dell’Intero, rolli.jpganziché dell’Interno, un mazzo così a chi gli capita a tiro;  può anche divertirsi a leggere persino sul Giornale della famiglia di Berlusconi il sorpasso eseguito sul CavaliereIl Giornale.jpg anche nei voti di preferenza nella scalata al seggio di Strasburgo, cui peraltro dovrà rinunciare per una incompatibilità che curiosamente non scatta nel momento della candidatura, con quanto poco rispetto per gli elettori è evidente; ma quando verrà l’ora di decidere davvero sulle sorti del governo gialloverde, cioè ogni volta che i grillini dovessero davvero resistergli come un “argine”, ribadito da Di Maio e dallo stesso Salvini liquidato come un’espressione “emotiva”, il leader leghista si chiederà che cosa davvero lo aspetti ad Arcore e dintorni. E forse si guarderà bene dall’avvicinarvisi.

 

 

 

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Anche il santino scalfariano di Berlinguer “liberale” può avere aiutato il Pd nelle urne

C’è voluta una settimana, ma alla fine con l’autorevolezza della sua lunga cultura e militanza marxista Rossana Rossanda ha contestato sabato scorso sul manifesto, rigorosamente al minuscolo nella elegante grafica della testata orgogliosamente comunista, il santino “liberale” di Enrico Berlinguer composto da Eugenio Scalfaro su Repubblica nell’ultima domenica della campagna elettorale, il 19 maggio.

“Mi permetto di osservare -ha scritto Rossanda parlando del segretario del Pci morto ne1984- che egli non avrebbe accettato la definizione di “liberale” che ne dà Scalfari”, spintosi ad associarlo ai fratelli Rosselli di Giustizia e Libertà, a Francesco De Sanctis, Benedetto Croce e Ugo La Malfa.

La parola “liberale”, secondo la Rossanda, “ha un significato molto preciso nel secolo scorso e non è così che Berlinguer si sarebbe definito”, essendo consistita la sua “diversità” nella condizione di “comunista di un tipo particolare”.

Al massimo, sempre secondo la Rossanda, che avanza il benevolo sospetto che Scalfari potesse  alludervi nel suo “ricordo molto amichevole” e liberale, appunto, dello scomparso leader comunista, Berlinguer coltivò “la speranza di poter modificare in modo non oppressivo le regole della vita interna del partito”.

Ma se questa fu davvero la speranza di Berlinguer, “non gli fu possibile” realizzarla “per l’avversione della maggior parte del partito”, ha ricordato la Rossanda senza bisogno di rifare esplicitamente, perché notissima, la storia della “radiazione” dal Pci, nell’autunno del 1969, dei dissidenti proprio del gruppo costituitosi attorno all’allora mensile manifesto: lei in testa con Aldo Natoli, Luigi Pintor, Lucio Magri. Cui si unirono poi Luciana Castellina, Valentino Parlato e a altri.

Le 50 mila copie vendute dal primo numero della rivista furono per i dirigenti del Pci, e le loro abitudini, una provocazione intollerabile. Occorreva che i dissidenti, polemici sui rapporti rossanda.jpginterni e su quelli con l’Unione Sovietica e gli altri paesi dell’est, specie dopo le tragedie, fra l’altro, dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, abiurassero da soli dando quella che proprio Berlinguer definì con loro “una prova di fedeltà”. Mancata la quale, il malandato segretario del partito Luigi Longo, cui lo stesso Berlinguer era stato affiancato per succedergli nel 1972, avviò la procedura della radiazione. Che fu completata dal Comitato Centrale, su relazione di Alessandro Natta, con i voti contrari dei soli Cesare Luparini, Lucio Lombardo Radice e Fabio Mussi. Neppure, o soprattutto, come preferite, Pietro Ingrao volle sostenere i dissidenti, pentendosene anni dopo ma sentendosi allora “tradito” addirittura da loro.

Iscritto d’ufficio Berlinguer ai liberali per poterlo evocare a ridosso delle elezioni europee del 26 maggio come “padre o nonno” del Pd, Scalfari può tuttavia vantarsi di avere in qualche modo contribuito a procurargli nelle urne una parte dei guadagni vissuti giustamente dal segretario Nicola Zingaretti come una ripresa importante, dopo la debacle renziana dell’anno scorso.

 

 

 

Pubblicato su  Il Dubbio

Notte generosa per Salvini e avara per Di Maio, decisi però a restare insieme

            I risultati italiani delle elezioni europee sono stati nella notte ancora più generosi per la Lega , e più avari per il movimento grillino, di quelli rimbalzati con le prime proiezioni nei salotti delle maratone televisive fermatesi in tempo per lasciare dormire un po’ gli spettatori.

            Con tutte le 61.576 sezioni scrutinate il Carroccio di Matteo Salvini è salito al 34,33 per cento, dal 17,4 delle elezioni politiche dell’anno scorso, e il movimento pentastellato di Luigi Di Maio è precipitato al 17,07, dal 32,3 di un anno fa. Il Pd di Nicola Zingaretti ha conquistato più saldamente il secondo posto nella graduatoria elettorale col 22,69 per cento, rispetto al 18,8 stentatamente definitivi europee.jpgconquistato l’anno scorso da Matteo Renzi, partito addirittura da oltre il 40 per cento delle precedenti elezioni europee. Che gli avevano dato un po’ alla testa rendendolo troppo baldanzoso, alla maniera della Dc fanfaniana degli anni Cinquanta del secolo passato. La Forza Italia dell’ostinato Silvio Berlusconi è scesa all’8,79 per cento, dal 14 dell’anno scorso, evitando il sorpasso, che sarebbe stato obiettivamente umiliante, dei Fratelli d’Italia di Libero.jpgGiorgia Meloni, saliti al 6,46 dal 4,44 dell’anno passato. Merita infine di essere segnalata la mancata soglia del 4 per cento, sia pure di poco, della lista +Europa di Emma Bonino, che avrebbe forse fatto meglio ad associarsi a Carlo Calenda per gonfiare di più le vele del Pd.

            Il governo gialloverde di Giuseppe Conte certamente soffre di risultati del genere, in cui la vittoria di Salvini contrasta con la frustrazione di Di Maio, penosamente consolatosi con gli elettori grillini dell’anno scorso, secondo lui,manifesto.jpg rimasti più a casa che passati alle liste concorrenti o avversarie. L’aspetto penoso di questa consolazione deriva dalla derisione riservata l’anno passato dallo stesso Di Maio alle analoghe spiegazioni che i dirigenti del Pd davano delle loro perdite.

            La sofferenza del governo Conte non si tradurrà tuttavia in una crisi, nonostante l’addio annunciato sulla prima pagina del Giornale della famiglia Berlusconi. E ciò per il timore o la scarsa Il Giornale.jpgconvenienza di una crisi fatta avvertire da Salvini con l’iniziativa assunta dal Cavaliere, nelle ultime battute della campagna elettorale, di rimettere in discussione la leadership del centrodestra riconosciuta ai leghisti dopo il sorpasso dell’anno scorso su Forza Italia.

            Non deve pertanto stupire la convergenza, circa le prospettive del governo di fronte ai risultati di questo turno di elezioni europee, fra Salvini e Di Maio. Il primo infatti ha annunciato, e promesso Salvini 1 .jpgai grillini, che non chiederà “mezza poltrona” in più nella compagine ministeriale, e tanto meno perseguirà “un regolamento di conti nella maggioranza”. Il secondo, richiesto dal Corriere della SeraDi Maio .jpg di una previsione sul futuro del governo, anche alla luce delle difficoltà che lui stesso potrà incontrare nel proprio movimento, di cui non è riuscito a frenare la caduta neppure con i fuochi accesi nell’ultimo tratto della campagna elettorale, ha testualmente risposto: “Certo che va avanti”.

            Così è se vi pare, pirandellianamente parlando e commentando lo scenario determinato dal combinato disposto dei risultati elettorali e della svolta -non mi stanco di ripetere- impressa alle cose prima del voto da un Berlusconi che ha rivelato di essere, in fondo, condizionato più dall’ossessione che dal rimpianto di Salvini. Che lui stesso peraltro incoraggiò un anno fa ad accordarsi con i grillini per evitare un turno di elezioni anticipate destinato a confermare e forse anche ad aumentare ulteriormente il fresco sorpasso leghista su Forza Italia, coi relativi effetti sulla consistenza dei rispettivi gruppi parlamentari.

 

 

 

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Ma che incertezza e incertezza. Il governo è ormai al sicuro dalle urne

            Altro che “governo alla prova”, come ha titolato il Corriere della Sera, o “Italia a rischio”, secondo Corriere.jpgLa Stampa, o “governo appeso al voto europeo”, secondo Il Messaggero, e varianti di questo tipo escogitate La Stampa.jpgdai giornali per creare o mantenere un clima di suspense attorno ai 51 milioni di elettori chiamati alle urne nella penisola tricolore. Se vi erano incertezze -e ve ne sono state per un po’- sulla Messaggero.jpgsorte della maggioranza gialloverde per i contrasti che l’hanno divisa nella lunga campagna elettorale, e che non cesseranno certamente dopo i risultati della notte, sono state spazzate via nelle ultime battute dalla svolta impressa da Silvio Berlusconi, e incredibilmente sottovalutata dalla maggior parte dell’informazione.

            Nel momento in cui il leader a vita di Forza Italia, rimesso a nuovo dai chirurghi dell’ospedale milanese San Raffaele, dove ogni tanto l’ormai anziano Cavaliere si ricovera per uscirne però più baldanzoso di prima, ha rimesso in discussione la leadership leghista del centrodestra, da lui riconosciuta già con una certa sofferenza dopo il modesto sorpasso sugli azzurri effettuato nelle elezioni politiche dell’anno scorso, il governo in carica è stato messo letteralmente in sicurezza. Matteo Salvini non ha alternative alla prosecuzione della sua pur agitata e spesso anche scomposta alleanza con Luigi Di Maio.

            Si è tornati, contro ogni apparenza, al murale romano, ma anche di qualche altra città, dei due vice presidenti del Consiglio avvinghiati, nonostante tutto, in un abbraccio e persino in un bacio sulla bocca. La coppia troverà un nuovo assestamento, aggiornato in qualche modo ai risultati elettorali, che hanno comunque per i grillini il vantaggio di lasciare inalterati i rapporti di forza in Parlamento, e nel governo. Lo ricorda insistentemente Di Maio parlando della “maggioranza assoluta” di cui dispone il suo movimento nel Consiglio dei Ministri, e di quella relativa nelle Camere.

            La scelta di Berlusconi, che ha indicato per Palazzo Chigi prima l’inconsapevole Mario Draghi e poi l’ubbidiente Antonio Tajani,  non è stata casuale o incidentale. Gli aspetti dilettantistici delle sue sortite, fra logorroici monologhi televisivi che mandano in brodo di giuggiole il suo imitatore Maurizio Crozza, non debbono trarre in inganno. Salvini è diventato troppo forte e ingombrante anche per l’ex presidente del Consiglio, che finge di volerlo riportare a casa nel centrodestra ma, contestandogli appunto la leadership, lo incolla invece ai grillini scommettendo sul suo logoramento e su tempi migliori per il rientro.

            Ha ragione pertanto Eugenio Scalfari quando, pur non soffermandosi su questa svolta impressa dal Cavaliere alla campagna elettorale, e sperando dal canto suo che si logorino anche i grillini a vantaggio del Pd generato, secondo lui, dalla buonanima di Enrico Berlinguer, scrive su Repubblica nella sua omelia domenicale, e oggi anche elettorale, che “sono a prova Altan.jpgdi bomba i due alleati” Salvini e Di Maio, o viceversa se preferite l’ordine alfabetico. Tanto, in attesa della rinascita, resurrezione e quant’altro del Pd, Scalfari può consolarsi con la vignetta dell’amico Francesco Tullio Altan, sempre su Repubblica, dedicata all’Europa che “è sempre l’Europa, come la mamma”, per quanti fastidi e persino dolori possano procurarle i cosiddetti sovranisti, populisti e simili, di varia nazionalità, e non solo italiana.

            Anche sul Corriere della Sera, d’altronde, l’incertezza sul governo “alla prova” mostrata nel titolo è in qualche modo contraddetta o comunque attenuata dall’editorialista Antonio Polito quando scrive, sì, di Salvini e Di Maio come di“due pugili sfiancati dalla lotta, avvelenati dalla reciproca insofferenza e ormai senza più buoni motivi e buone idee per stare insieme”, ma “ciò nonostante, costretti a restare sullo stesso ring per mancanza di alternative”.

            Gli unici effetti, pratici e visibili, di questa gigantesca tornata elettorale saranno pertanto quelli amministrativi, nei 3780 Comuni timbro.jpge rotti in cui di cui si rinnovano i Consigli e si eleggono direttamente i sindaci. Accontentiamocene. Sono d’altronde parecchi. E possono aiutarci a capire lo stesso gli umori del Paese, persino più del voto europeo.  

 

 

 

 

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Le lacrime che nessuno verserà in Italia lunedì, a risultati elettorali noti

             Tranquilli. Per quanto malmessa per la gestione della Brexit, che è costata la carica alla prima ministra Theresa May in lacrime, la Gran Bretagna continuerà a dare lezioni di trasparenza politica, almeno all’Italia. Dove lunedì, a risultati elettorali prevedibilmente conosciuti per le votazioni europee, regionali in Piemonte Travaglio.jpge amministrative in più di 3800 Comuni, nessuno si dimetterà. E tanto meno piangerà. Tutti troveranno il modo, vedrete, di consolarsi a dispetto anche delle vesti che si è già strappato Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano titolando il suo editoriale conclusivo della campagna elettorale, cui il suo giornale ha partecipato non certo da posizioni neutrali, con l’annuncio che “Comunque vada, sarà un disastro”.

            Il sempre imperdibile Maurizio Crozza forse vincerà la scommessa che ha praticamente fatto col pubblico, nell’ultima puntata primaverile della sua trasmissione sul canale 9, travestendo Matteo Salvini da arabo e Luigi Di Maio da laureato, anzi da accademico, per uno sketch esilaranteSalvidimaio e Crozza.jpg sulla loro finta contrapposizione. Che potrebbe cessare senza alcuna crisi di governo o continuare, indifferentemente, sempre senza crisi, salvo sorprese imposte dai mercati finanziari, di solito non sprovveduti. Già si può intravvedere l’attesa dei ballottaggi comunali di metà giugno, poi delle regionali in autunno in Emilia-Romagna, e probabilmente in Umbria, e poi ancora di altre regionali nella primavera dell’anno prossimo.

            Debbo dire che una grossa mano in questa direzione, che non si sa se più anacronistica o dannosa,  l’ha data nelle ultime battute della campagna elettorale l’uomo che più sembrava smanioso di una Berlusconi.jpgcrisi: l’indomito Silvio Berlusconi, per niente intimidito dalla qualifica di “impresentabile”, per via delle sue grane giudiziarie, attribuitagli dalla presidenza grillina della Commissione Antimafia. Che ha fatto finta, anch’essa, di non sapere che certi interventi producono effetti opposti a quelli pubblicamente perseguìti.

            Dopo avere esortato in tutti i modi Matteo Salvini, forse anche nella telefonata da lui ricevuta in ospedale dopo l’intervento all’intestino, a rompere finalmente con Luigi Di Maio, e a rivitalizzare il centrodestra anche a livello nazionale, come è avvenuto a livello locale ovunque si sia votato dopo le elezioni politiche dell’anno scorso, Berlusconi ha prospettato scenari per nulla incoraggianti per il leader leghista.

            Prima  il Cavaliere di Arcore si è lasciata scappare, cercando poi di correggersi, la voglia di corteggiare il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi per una candidatura a Palazzo Chigi, visto anche che il suo mandato a Francoforte sta scadendo. Poi, pur promettendo o annunciando di volere andare al Parlamento di Strasburgo per occuparsi più di Europa che d’Italia, convinto di poter condizionare la politica italiana con i cambiamenti che è ottimisticamente sicuro di promuovere a livello continentale come partecipe del Partito Popolare, ha investito di una candidatura a Palazzo Chigi il fidato Antonio Tajani. Il quale, consapevole della difficoltà, diciamo così, di essere confermato alla presidenza del Parlamento Europeo, si è messo prontamente a disposizione, vi lascio immaginare con quale e quanta soddisfazione per Salvini. Ma anche -lasciatemi dire-  per quanti nella Lega, a cominciare dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, si sono mostrati più stanchi, preoccupati, allarmati e quant’altro dalla volontà quotidianamente espressa dal loro “capitano” di andare “avanti” con l’attuale governo, persino sino alla conclusione ordinaria della legislatura, perché ci sarebbe ancora molto da fare.

            Poiché Berlusconi è molto meno sprovveduto, o più astuto, come preferite, di quanto possa far credere quella ingenuità o bonomia da lui ostentata parlandosi addosso nei salotti televisivi, tra la rassegnazione imbarazzata dei conduttori delle sue reti e la buona educazione di quelli della concorrenza, si ha tutto il diritto di pensare che in fondo a lui convenga che Salvini rimanga dov’è: ad Gazzetta.jpgesaurire la spinta che lo ha portato così in alto e a cominciare a pagare gli effetti dell’inevitabile logoramento che forse lo aspetta per l’aggravamento della crisi economica. Ci sarà tempo -può pensare il furbissimo Cavaliere- per un ritorno di Salvini e della Lega nel centrodestra a livello nazionale in condizioni più vantaggiose, o meno pesanti, per Forza Italia, oggi costretta dalle distanze elettorali dai leghisti,  a muoversi sulla difensiva, nonostante la baldanza del suo fondatore e leader a vita.  

La campagna elettorale sommersa dall’abuso di parole…e d’ufficio

In coerenza, bisogna riconoscerlo, con l’inizio e con tutto il suo svolgimento, questa lunga campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo, di un consiglio regionale, quello del Piemonte, e di qualche migliaio di amministrazioni comunali si è conclusa col tema dell’abuso. Che è quello penale d’ufficio, la cui rimozione o riforma, liquidata come “stronzata” dal vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio, è stata proposta dall’omologo leghista Matteo Salvini, convinto forse di andare sul sicuro per avere seguito le orme, o quasi, del presidenteCantone.jpg dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. Il quale sarà sobbalzato pure lui, credo, sulla sedia, già consumata dai cinque anni già trascorsi dei sei del mandato, sentendo prendere a parolacce un tema sollevato con la professionalità di un magistrato nel momento dell’approvazione della legge cosiddetta “spazzacorrotti”. La cui applicazione potrebbe confliggere col carattere attualmente non ben definito del reato di abuso, appunto, d’ufficio: tanto poco definito da essere stato paragonato una volta da un amministratore, ed ex ministro, dell’esperienza di Pier Luigi Bersani al sovraccarico di un camion, contestabile con una multa al conducente.

Prima ancora che d’ufficio, inteso come reato, questa lunga campagna elettorale è stata una fiera di abuso di parole. Che hanno prodotto più danni anche delle più controverse iniziative del governo, come hanno lamentato, incalzati dallo spread nei mercati finanziari, il ministro dell’Economia Giovanni Tria, a volte persino il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e, sul versante non certo secondario della Confindustria, dal presidente Vincenzo Boccia. Che all’assemblea nazionale degli imprenditori quando ha denunciato le troppe parole della politica come un attentato agli interessi nazionali ha raccolto applausi simili per intensità a quelli ottenuti, al suo solo arrivo in sala, dal capo dello Stato. Al quale gli industriali avevano chiaramente voluto esprimere così l’entusiasmo e la fiducia immeritati evidentemente dalle altre autorità presenti: a cominciare dal presidente del Consiglio e dal ministro abituale in simili occasioni come quello dello Sviluppo Economico, statistica e valutazioni delle agenzie internazionali e organismi comunitari permettendo.

Tutto, in questa campagna elettorale, è sembrato travolto dalle parole. Ultimatum e penultimatum si sono rincorsi non a giorni ma a ore, nell’arco qualche volta di una stessa mattina, o di una stessa sera. Non parliamo poi delle notti che hanno scatenato i sogni travestiti o tradotti in retroscena con le solite smentite e precisazioni della credibilità proporzionale alla loro frequenza.

Va detto, con franchezza e onestà, che all’abuso delle parole si sono abbandonati non solo i due partiti, leader e comprimari della maggioranza, peraltro scontratisi fra di loro come avversari con un accordo di cartello contro le opposizioni da reclamo, per quanto metaforico, all’autorità della concorrenza. Vi si sono abbandonati anche i partiti, leader e comprimari delle opposizioni titolari legittime di questa funzione per avere votato e votare in Parlamento contro il governo.

Cominciamo col versante di sinistra. Dove il povero Nicola Zingaretti ha sudato le proverbiali sette camicie, fuori stagione col tempo capriccioso che fa, per ricucire gli strappi e rendere competitivo il suo Pd almeno col movimento delle 5 stelle, e si è rivisto improvvisamente ricacciato indietro. E’ avvenuto non solo e non tanto con la rocambolesca vicenda delle dimissioni della presidente della regione Umbria, indagata in una inchiesta costata l’arresto ad altri esponenti e amministratori compagni di partito, quanto -sul piano più generale della linea politica- da una sortita del già citato Pier Luigi Bersani. Che, prima ancora di rientrare nel partito da cui era uscito due anni fa con Massimo D’Alema, limitandosi domani a votare per la lista unitaria allestita per l’occasione, si è messo a gridare ai quattro venti che in caso di crisi di governo andrà cercata subito un’intesa con i grillini per strapparli definitivamente all’alleanza con i leghisti. Invece Zingaretti reclama notoriamente le elezioni anticipate.

Sul versante di destra, o del centrodestra, dove Salvini sta notoriamente con un solo piede, quello delle amministrazioni locali, avendo messo l’altro nel governo con i grillini, l’indomito Silvio Berlusconi, stanco di aspettare il ritorno Tajani.jpgdel figliol prodigo, ha cercato di ricacciarlo ancora più lontano. In particolare, il Cavaliere ha riaperto i giochi della leadership del centrodestra, dicendo che il capo della Lega avrà pure più voti di Forza Italia, molti di più di quelli che già l’anno scorso gliene consentirono il sorpasso, ma non le qualità politiche necessarie a guidare una coalizione. E così si fa buio anche dall’altra parte, ammesso e non concesso naturalmente che il “capitano” leghista volesse e voglia farla risplendere.

 

 

 

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