Tutti i guai di Luigi Di Maio sotto le cinque stelle e dintorni

            In attesa della resa dei conti fra Matteo Salvini e i grillini, come viene generalmente chiamata la trattativa fra il leader leghista e i suoi soci di maggioranza sull’agenda del governo gialloverde dopo i risultati delle elezioni europee, ma anche piemontesi e amministrative di domenica scorsa, risoltesi in un successo del Carroccio superiore alle previsioni forse dello stesso Salvini, c’è da seguire la resa dei conti sotto le cinque stelle. Che è probabilmentemanifesto.jpg destinata a non esaurirsi nell’assemblea congiunta dei gruppi parlamentari già annunciata e rinviata perché si è diffusa la voce, se non la notizia, della tentazione di Luigi Di Maio di sottoporre la sua pericolante leadership a un referendum, gestito naturalmente dalla piattaforma Rousseau. O, come dicono più concretamente altri, da Davide Casaleggio, magari nella versione della “Casaleggio dissociati” beffeggiata sulla prima pagina del solito, irriverente manifesto.

            Di Maio, ripreso impietosamente dai fotografi alquanto preoccupato dopo una conferenza stampa in cui i microfoni erano stati decisamente più numerosi degli argomenti a sua disposizione per difendersi non tanto dalle domande dei giornalisti presenti ma dagli attacchi che cominciavano a piovergli addosso dall’interno del movimento, rischia di pagare tutti in una volta gli errori commessi nell’anno e poco più di governo. In testa ai quali c’è, francamente, una sopravvalutazione delle proprie capacità fisiche, oltre che politiche, di recitare tante parti in commedia: capo del partito, o comunque voglia chiamarsi quello che ha diretto;  semicapo o vice capo del governo, con l’abitudine però di parlare in prima persona sovrapponendosi all’omologo leghista Salvini e al presidente del Consiglio Giuseppe Conte; capo dell’importante Ministero dello Sviluppo Economico, dati permettendo sulle condizioni e prospettive economiche, appunto, del Paese; capo del non meno importante Ministero del Lavoro, specie in un momento come questo, in cui esso manca e andrebbe creato più concretamente di quanto si possa fare con le parole, specie quando queste alimentano non la fiducia ma la diffidenza dei mercati e, più in particolare, degli investitori.

            La presunzione di poter fare bene tutte queste cose insieme è stata tale che viene francamente il sospetto che lo abbiano deliberatamente mandato al massacro quelli che glielo hanno voluto permettere, riparando le proprie responsabilità dietro cariche e funzioni di cosiddetta garanzia o patronaggio. Ora i nodi sono venuti al pettine anche per loro, che fingono, almeno per il momento, di stare alla finestra, magari pensando, o illudendosi, di poter continuare dietro le quinte a tenere i fili, anche della rivolta.

            Eppure solo qualche giorno prima delle elezioni, nell’anticamera di uno dei tanti salotti o arene televisive cui ha partecipato baldanzosamente, nonostante l’ età e le  condizioni di convalescente dopo un intervento chirurgico di non poco conto, un uomo esperto del ramo, diciamo così, come Silvio Berlusconi incrociando il giovane Di Maio si è complimentato per le sue forti doti di “comunicatore”. Mancava poco che non gli dicesse, come gli capitò qualche anno fa con una giovane parlamentare del proprio partito in un ristorante mettendola a confronto con la moglie, che l’avrebbe assunto se non fosse già impegnato con altri comunicatori in Forza Italia.

            Le cronache hanno riferito di un Di Maio tanto sorpreso dal complimento di Berlusconi, da lui peraltro trattato abitualmente come il peggiore prodotto politico del Paese, cui non rispondere neppure al telefono, da non avere saputo trovare neppure una battuta per ringraziarlo, o schermirsi. E di essersene poi rammaricato, consolato però dalla fidanzata che gli stava accanto ed aveva avvertito forse il rischio di una trappola o autorete, se la battuta non fosse stata indovinata.

            A dispetto del giudizio, ripeto, di un professionista della comunicazione come il Cavaliere, a meno di un suo perfido sfottò, Luigi Di Maio ha chiaramente sbagliato campagna elettorale, visti i risultati, e se non vuole ammettere di avere sbagliato, ancora più a monte, le scelte di governo e di partito.Gazzetta.jpg Ed ora anche lui, così giovane, è chiamato a contare gli emuli di Bruto coi loro pugnali.  Spero che non si monti la testa e non si paragoni a Cesare, distraendosi da quello schiacciasassi di Salvini che intanto procede su di lui, dopo averne subito attacchi, allusioni, derisioni, minacce e quant’altro.

 

 

 

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Lo sgambetto di Berlusconi indebolisce Salvini nelle trattative con i grillini

Scusatemi la franchezza, l’impertinenza, la supponenza o qualsiasi cosa vi possa apparire, con la quale non riesco a riconoscermi in molte delle analisi dei risultati delle tanto attese votazioni italiane per l’elezione del Parlamento europeo, e dei loro possibili riflessi sul governo gialloverde. Che fu formato l’anno scorso, dopo l’avvio della diciottesima legislature, in un clima di sostanziale emergenza, in qualche modo paragonabile a quella del 1976, quando il rinnovo anticipato delle Camere produsse quelli che Aldo Moro chiamò “due vincitori”: la sua Dc e il Pci di Enrico Berlinguer, sprovvisti entrambi dei numeri parlamentari per fare l’uno a meno dell’altro, per quanto si fossero presentati alternativi agli elettori.

Nacque allora il governo monocolore democristiano di Giulio Andreotti sostenuto prima dall’astensione e poi dal voto di fiducia del Pci all’insegna della “solidarietà nazionale”. L’anno scorso invece nacque un governo di grillini, senza i numeri per fare da soli, e di leghisti, autorizzati all’esperimento dall’alleato nelle urne Silvio Berlusconi per evitare un turno inedito di elezioni anticipate d’estate. Esso era temuto dal Cavaliere non solo e non tanto per gli abituali elettori di centrodestra in vacanza, e perciò destinati a disertare le urne, quanto per il rischio che il sorpasso della Lega su Forza Italia si ripetesse in dimensioni maggiori, e la leadership conquistatasi in quel versante da Matteo Salvini diventasse più forte, non occasionale come il Cavaliere sperava.

Ma Salvini, anziché logorarsi nella improvvisata e anomala coalizione da contratto con i grillini, come forse anche Berlusconi in cuor suo aveva motivo di ritenere, ha continuato a crescere in tutte le elezioni parziali o locali succedutesi a quelle politiche dell’anno scorso. Ciò deve avere spazientito, allarmato e quant’altro il Cavaliere. Che, lungi dall’essere quel dilettante che gli avversari hanno dipinto per anni, e lui stesso perfidamente lascia credere esondando nelle sue performance televisive contro le regole della continenza oppostegli dai conduttori con un misto di rassegnazione e di riguardo, ha impresso nelle ultime battute alla campagna elettorale per le europee una svolta sfuggita incredibilmente a fior di analisti.

In particolare, Berlusconi ha rimesso in discussione, proprio mentre i rapporti fra Salvini e Di Maio nel governo e nella maggioranza peggioravano a vista d’occhio, la leadership leghista del centrodestra prospettando esplicitamente una candidatura a Palazzo Chigi del fidato e fedele Antonio Tajani. Della cui elezione alla presidenza del Parlamento Europeo nel 2017, pur essendo avvenuta grazie ad una maggioranza di centrodestra, con i conservatori al posto dei socialisti accanto ai popolari della cancelliera tedesca Angela Merkel, l’allora eurodeputato Salvini non fu proprio entusiasta. E un po’ di acredine politica fra i due è rimasta.

Ora che Salvini -uscito sicuramente vincente dalle elezioni europee, nonostante i tentativi grillini di fermarne l’avanzata sollevando contro il suo partito la vecchia questione morale sullo sfondo delle solite inchieste giudiziarie-  si è proposto di investire il suo successo per cercare più di rivitalizzare che di far cadere il governo, si è creata una situazione a dir poco paradossale.

A ridurre la capacità negoziale del vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno può essere più della resistenza oggettivamente sfibrata di un movimento delle 5 stelle sorpassato dal Pd di Nicola Zingaretti, il timore del leader del Carroccio di mettere nel conto di una rottura con Di Maio il ritorno in un centrodestra di cui dovrebbe riguadagnarsi -chissà a che prezzo- la leadership, nonostante il 34 per cento e più di voti, contro meno del 9 di Forza Italia. E’ un po’ come quando la Dc -deve essersi detto qualche amico di “capitan” Salvini- con molto più del 30 per cento dei voti doveva fare buon viso al cattivo o scomodo gioco di un Giovanni Spadolini o di un Bettino Craxi a Palazzo Chigi.  Curioso, vero?

A questo scenario è stato opposto il 40 per cento di cui ormai Salvini disporrebbe con la sorella dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, e che gli restituirebbe nel negoziato con i grillini la forza paradossalmente strerilizzatagli da Berlusconi. Ma la legge elettorale per il rinnovo delle Camere non è la stessa per il rinnovo del Parlamento europeo. Quel 40 per cento  dovrebbe fare i conti con i collegi uninominali  della Camera e del Senato, i negoziati conseguenti nella coalizione, le soglie  e altre cose che rendono aleatorie persino le tavole pitagoriche. Vi sembrerà incredibile, ma è così. Nessuno d’altronde si occupa più del pasticcio della legge elettorale prodotta in Italia dalle forbici della Corte Costituzionale e dai rammendi  parlamentari.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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