Le lacrime che nessuno verserà in Italia lunedì, a risultati elettorali noti

             Tranquilli. Per quanto malmessa per la gestione della Brexit, che è costata la carica alla prima ministra Theresa May in lacrime, la Gran Bretagna continuerà a dare lezioni di trasparenza politica, almeno all’Italia. Dove lunedì, a risultati elettorali prevedibilmente conosciuti per le votazioni europee, regionali in Piemonte Travaglio.jpge amministrative in più di 3800 Comuni, nessuno si dimetterà. E tanto meno piangerà. Tutti troveranno il modo, vedrete, di consolarsi a dispetto anche delle vesti che si è già strappato Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano titolando il suo editoriale conclusivo della campagna elettorale, cui il suo giornale ha partecipato non certo da posizioni neutrali, con l’annuncio che “Comunque vada, sarà un disastro”.

            Il sempre imperdibile Maurizio Crozza forse vincerà la scommessa che ha praticamente fatto col pubblico, nell’ultima puntata primaverile della sua trasmissione sul canale 9, travestendo Matteo Salvini da arabo e Luigi Di Maio da laureato, anzi da accademico, per uno sketch esilaranteSalvidimaio e Crozza.jpg sulla loro finta contrapposizione. Che potrebbe cessare senza alcuna crisi di governo o continuare, indifferentemente, sempre senza crisi, salvo sorprese imposte dai mercati finanziari, di solito non sprovveduti. Già si può intravvedere l’attesa dei ballottaggi comunali di metà giugno, poi delle regionali in autunno in Emilia-Romagna, e probabilmente in Umbria, e poi ancora di altre regionali nella primavera dell’anno prossimo.

            Debbo dire che una grossa mano in questa direzione, che non si sa se più anacronistica o dannosa,  l’ha data nelle ultime battute della campagna elettorale l’uomo che più sembrava smanioso di una Berlusconi.jpgcrisi: l’indomito Silvio Berlusconi, per niente intimidito dalla qualifica di “impresentabile”, per via delle sue grane giudiziarie, attribuitagli dalla presidenza grillina della Commissione Antimafia. Che ha fatto finta, anch’essa, di non sapere che certi interventi producono effetti opposti a quelli pubblicamente perseguìti.

            Dopo avere esortato in tutti i modi Matteo Salvini, forse anche nella telefonata da lui ricevuta in ospedale dopo l’intervento all’intestino, a rompere finalmente con Luigi Di Maio, e a rivitalizzare il centrodestra anche a livello nazionale, come è avvenuto a livello locale ovunque si sia votato dopo le elezioni politiche dell’anno scorso, Berlusconi ha prospettato scenari per nulla incoraggianti per il leader leghista.

            Prima  il Cavaliere di Arcore si è lasciata scappare, cercando poi di correggersi, la voglia di corteggiare il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi per una candidatura a Palazzo Chigi, visto anche che il suo mandato a Francoforte sta scadendo. Poi, pur promettendo o annunciando di volere andare al Parlamento di Strasburgo per occuparsi più di Europa che d’Italia, convinto di poter condizionare la politica italiana con i cambiamenti che è ottimisticamente sicuro di promuovere a livello continentale come partecipe del Partito Popolare, ha investito di una candidatura a Palazzo Chigi il fidato Antonio Tajani. Il quale, consapevole della difficoltà, diciamo così, di essere confermato alla presidenza del Parlamento Europeo, si è messo prontamente a disposizione, vi lascio immaginare con quale e quanta soddisfazione per Salvini. Ma anche -lasciatemi dire-  per quanti nella Lega, a cominciare dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, si sono mostrati più stanchi, preoccupati, allarmati e quant’altro dalla volontà quotidianamente espressa dal loro “capitano” di andare “avanti” con l’attuale governo, persino sino alla conclusione ordinaria della legislatura, perché ci sarebbe ancora molto da fare.

            Poiché Berlusconi è molto meno sprovveduto, o più astuto, come preferite, di quanto possa far credere quella ingenuità o bonomia da lui ostentata parlandosi addosso nei salotti televisivi, tra la rassegnazione imbarazzata dei conduttori delle sue reti e la buona educazione di quelli della concorrenza, si ha tutto il diritto di pensare che in fondo a lui convenga che Salvini rimanga dov’è: ad Gazzetta.jpgesaurire la spinta che lo ha portato così in alto e a cominciare a pagare gli effetti dell’inevitabile logoramento che forse lo aspetta per l’aggravamento della crisi economica. Ci sarà tempo -può pensare il furbissimo Cavaliere- per un ritorno di Salvini e della Lega nel centrodestra a livello nazionale in condizioni più vantaggiose, o meno pesanti, per Forza Italia, oggi costretta dalle distanze elettorali dai leghisti,  a muoversi sulla difensiva, nonostante la baldanza del suo fondatore e leader a vita.  

La campagna elettorale sommersa dall’abuso di parole…e d’ufficio

In coerenza, bisogna riconoscerlo, con l’inizio e con tutto il suo svolgimento, questa lunga campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo, di un consiglio regionale, quello del Piemonte, e di qualche migliaio di amministrazioni comunali si è conclusa col tema dell’abuso. Che è quello penale d’ufficio, la cui rimozione o riforma, liquidata come “stronzata” dal vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio, è stata proposta dall’omologo leghista Matteo Salvini, convinto forse di andare sul sicuro per avere seguito le orme, o quasi, del presidenteCantone.jpg dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. Il quale sarà sobbalzato pure lui, credo, sulla sedia, già consumata dai cinque anni già trascorsi dei sei del mandato, sentendo prendere a parolacce un tema sollevato con la professionalità di un magistrato nel momento dell’approvazione della legge cosiddetta “spazzacorrotti”. La cui applicazione potrebbe confliggere col carattere attualmente non ben definito del reato di abuso, appunto, d’ufficio: tanto poco definito da essere stato paragonato una volta da un amministratore, ed ex ministro, dell’esperienza di Pier Luigi Bersani al sovraccarico di un camion, contestabile con una multa al conducente.

Prima ancora che d’ufficio, inteso come reato, questa lunga campagna elettorale è stata una fiera di abuso di parole. Che hanno prodotto più danni anche delle più controverse iniziative del governo, come hanno lamentato, incalzati dallo spread nei mercati finanziari, il ministro dell’Economia Giovanni Tria, a volte persino il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e, sul versante non certo secondario della Confindustria, dal presidente Vincenzo Boccia. Che all’assemblea nazionale degli imprenditori quando ha denunciato le troppe parole della politica come un attentato agli interessi nazionali ha raccolto applausi simili per intensità a quelli ottenuti, al suo solo arrivo in sala, dal capo dello Stato. Al quale gli industriali avevano chiaramente voluto esprimere così l’entusiasmo e la fiducia immeritati evidentemente dalle altre autorità presenti: a cominciare dal presidente del Consiglio e dal ministro abituale in simili occasioni come quello dello Sviluppo Economico, statistica e valutazioni delle agenzie internazionali e organismi comunitari permettendo.

Tutto, in questa campagna elettorale, è sembrato travolto dalle parole. Ultimatum e penultimatum si sono rincorsi non a giorni ma a ore, nell’arco qualche volta di una stessa mattina, o di una stessa sera. Non parliamo poi delle notti che hanno scatenato i sogni travestiti o tradotti in retroscena con le solite smentite e precisazioni della credibilità proporzionale alla loro frequenza.

Va detto, con franchezza e onestà, che all’abuso delle parole si sono abbandonati non solo i due partiti, leader e comprimari della maggioranza, peraltro scontratisi fra di loro come avversari con un accordo di cartello contro le opposizioni da reclamo, per quanto metaforico, all’autorità della concorrenza. Vi si sono abbandonati anche i partiti, leader e comprimari delle opposizioni titolari legittime di questa funzione per avere votato e votare in Parlamento contro il governo.

Cominciamo col versante di sinistra. Dove il povero Nicola Zingaretti ha sudato le proverbiali sette camicie, fuori stagione col tempo capriccioso che fa, per ricucire gli strappi e rendere competitivo il suo Pd almeno col movimento delle 5 stelle, e si è rivisto improvvisamente ricacciato indietro. E’ avvenuto non solo e non tanto con la rocambolesca vicenda delle dimissioni della presidente della regione Umbria, indagata in una inchiesta costata l’arresto ad altri esponenti e amministratori compagni di partito, quanto -sul piano più generale della linea politica- da una sortita del già citato Pier Luigi Bersani. Che, prima ancora di rientrare nel partito da cui era uscito due anni fa con Massimo D’Alema, limitandosi domani a votare per la lista unitaria allestita per l’occasione, si è messo a gridare ai quattro venti che in caso di crisi di governo andrà cercata subito un’intesa con i grillini per strapparli definitivamente all’alleanza con i leghisti. Invece Zingaretti reclama notoriamente le elezioni anticipate.

Sul versante di destra, o del centrodestra, dove Salvini sta notoriamente con un solo piede, quello delle amministrazioni locali, avendo messo l’altro nel governo con i grillini, l’indomito Silvio Berlusconi, stanco di aspettare il ritorno Tajani.jpgdel figliol prodigo, ha cercato di ricacciarlo ancora più lontano. In particolare, il Cavaliere ha riaperto i giochi della leadership del centrodestra, dicendo che il capo della Lega avrà pure più voti di Forza Italia, molti di più di quelli che già l’anno scorso gliene consentirono il sorpasso, ma non le qualità politiche necessarie a guidare una coalizione. E così si fa buio anche dall’altra parte, ammesso e non concesso naturalmente che il “capitano” leghista volesse e voglia farla risplendere.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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