Aumenta al Corriere della Sera l’attesa di un intervento di Sergio Mattarella

            Che cosa succede al Corriere della Sera, il più diffuso ma da due giorni anche il più inquieto giornale italiano? Due vignette di Emilio Giannelli hanno proposto ai lettori a distanza di 24 ore l’una dall’altra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in ambasce, avvolto  e ingobbito nel suo abito scuro.

           Giovedì il capo dello Stato  risultava in attesa di salire al patibolo e per lasciarsi tagliare la testa da un imponente Matteo Salvini, ancora gonfio d’orgoglio per l’incontro avuto nella Prefettura di Milano col premier ungherese Viktor Orbàn, fiero a sua volta di avere finalmente trovato il successore dell’amico ma ormai vecchio Silvio Berlusconi in Italia. Di venerdì il presidente si è trovato tutto solo nell’Italia ormai staccatasi dalle Alpi e galleggiante come un’isola sul mare, in attesa di accogliere un barcone di immigranti, evidentemente sfuggito a qualche controllo o ordine di Salvini, sempre lui, il vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno.

           L’impressione, ricavata dalla prima vignetta, che al Corriere della Sera si aspettassero l’interruzione del silenzio del presidente della Repubblica, visto anche che il giornale di via Solferino dispone del quirinalista più attrezzato sulla piazza, si è rafforzata con la seconda.

         In effetti, bisogna riconoscere che da quando è cominciato il silenzio del capo dello Stato, tornando in Sardegna dai funerali di Stato delle vittime del crollo del viadotto Morandi a Genova, di fatti curiosi, diciamo così, e assai prossimi alle sue competenze costituzionali ne sono accaduti.

         Per non parlare delle solite complicazioni giudiziarie, con un  pubblico ministero che continua a cercare reati da contestare a un ministro dell’Interno dopo averne annunciato il deferimento ad altra Procura e tribunale, i titoli del debito pubblico italiano sono diventati più onerosi. I due vice presidenti del Consiglio, grillino e leghista, si sono inseguiti a minacciare di non pagare più le quote associative dell’Italia all’Unione Europea. Il presidente del Consiglio, stanco di dipendere dai suoi vice, ha cominciato a lanciare segnali di insofferenza, interrogandosi forse pure lui se non avesse avuto ragione proprio Mattarella a nutrire e manifestare pubblicamente a giugno dubbi sulla sua capacità di tenuta a quel posto, sprovvisto com’era di qualsiasi esperienza “elettiva”, cioè politica.

 

L’assordante silenzio di Sergio Mattarella mentre cambiano gli scenari europei, e non solo

Schermata 2018-08-30 alle 07.25.41.jpg            Dal giorno dei funerali di Stato delle vittime del crollo del viadotto Morandi a Genova il presidente della Repubblica non si è fatto più sentire né vedere. Il suo è diventato un silenzio davvero assordante di fronte agli  sviluppi di una furiosa polemica fra Roma e Bruxelles, con le ripetute minacce dei due vice presidenti del Consiglio di ridurre unilateralmente o di sospendere il versamento delle quote associative all’Unione Europea. E con l’incontro appena svoltosi a Milano, nella sede governativa della Prefettura, fra il vice presidente leghista del Consiglio, nonché ministro dell’Interno, Matteo Salvini e il premier ungherese Victor Orbàn. Alla cui comune aspirazione a cambiare davvero verso all’Europa in direzione del cosiddetto sovranismo si è proposto come antagonista il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron. Che, in verità, quanto a sovranismo non scherza neppure lui con i respingimenti di immigrati che la sua polizia pratica a Ventimiglia, al confine con l’Italia.

            Sullo sfondo della contesa di leadership e quant’altro fra Macron e Salvini il buon Emilio Giannelli nella vignetta confezionata per la prima pagina del Corriere della Sera ha in qualche modo scomodato il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella. Che ha immaginato in attesa di decapitazione davanti ad una ghigliottina presidiata da Salvini.

            Pur con la licenza della satira, Giannelli ha colto nel segno e aiuta a capire il disagio sottinteso al lungo silenzio del capo dello Stato. Che già durante la crisi successiva alle elezioni politiche del 4 marzo avvertì leghisti e grillini con le buone, ma anche con le cattive, intervenendo nella formazione della lista dei ministri, quanto si sentisse garante degli impegni internazionali dell’Italia, delle sue alleanze in Europa e altrove, oltre che dei risparmi degli italiani minacciati anch’essi con i cambi di campo a livello continentale ed extra.

           Schermata 2018-08-30 alle 07.30.50.jpg E’ significativo che sia comparso nei giorni scorsi proprio sul Corriere della Sera un editoriale del senatore a vita ed ex presidente del Consiglio Mario Monti per segnalare come i rapporti dell’Italia con gli altri paesi, all’interno e all’esterno dell’Unione Europea, stiano cambiando, se non siano giù cambiati del tutto, senza nessun passaggio parlamentare. Cioè, senza che il governo si fosse premurato di esporre i suoi progetti al Parlamento e di ottenerne il consenso. Che in una Repubblica appunto parlamentare sarebbe il minimo del dovuto.

            Resta ora da capire se il capo dello Stato continuerà a rimanersene silenzioso, aspettando magari che tutti i problemi, emersi e sommersi, vengano come nodi al pettine nel cantiere della legge sul bilancio, al rientro del ministro dell’Economia Giovanni Tria dal suo viaggio in Cina, o non si convincerà invece della opportunità, o necessità, di intervenire anche prima, temendo che si faccia troppo tardi.

 

 

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La polemica sui curiosi “detenuti” sulla nave Diciotti a Catania

              Mi spiace che il mio articolo si sia prestato a una così distorta interpretazione. La “barzelletta” da me lamentata non consisteva nella visita della rappresentante del Garante, la cui figura apprezzo, per carità, ma nel fatto che quella visita potesse essere o apparire una prova che sulla nave Diciotti ci fossero dei detenuti. Che il pubblico ministero di Agrigento ha ritenuto essere stati arrestati illegalmente, con tanto di contestazione del corrispondente reato al ministro dell’Interno e al suo capo di Gabinetto, chiamati a risponderne con le procedure e le competenze del cosiddetto tribunale dei ministri.

            Colgo l’occasione per condividere una volta tanto un’’osservazione di Marco Travaglio sull’insospettabile Fatto Quotidiano, dove pur nel contesto di un attacco al “cazzaro verde” Salvini si fa notare che il sequestro di persona e l’arresto illegale, contemporaneamente contestati al ministro dell’Interno oltre al solito abuso d’ufficio, si elidono a vicenda. O c’è stato un arresto illegale o c’è stato un sequestro di persona, ma tutti e due insieme non stanno in piedi, come non starebbe in piedi scambiare la visita di un garante dei detenuti, e di persone private comunque della libertà, per una prova che il pattugliatore della Guardia Costiera ancorato nel porto di Catania fosse ormai diventato in quei giorni un carcere galleggiante . (f.d.)

 

 

 

Risposta alla lettera di protesta del Garante dei Detenuti a Il Dubbio 

 

Il patronaggio di Gian Carlo Caselli a Luigi Patronaggio nelle accuse a Salvini

            Con la lunga e assai esposta carriera giudiziaria che ha alle spalle, e con gli imputati eccellenti dei quali ha potuto occuparsi, a cominciare naturalmente dal compianto Giulio Andreotti, la cui assoluzione dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa egli ha sempre contestato per la prescrizione applicata ai rapporti avuti dal leader democristiano in Sicilia fino al 1980, quando esisteva solo il reato di associazione a delinquere, Gian Carlo Caselli ha ritenuto di dovere scendere in campo per difendere il pubblico ministero di Agrigento Luigi Patronaggio. Che è un magistrato, secondo Caselli, encomiabilmente “protagonista senza protagonismi”, salito a ispezionare la nave militare italiana Diciotti nel porto di Catania, protetto dall’equipaggio e dalla mascherina sanitaria, per accertare di persona le condizioni restrittive in cui si trovavano i migranti soccorsi in mare. E che ha finito per mandare davanti al cosiddetto tribunale dei ministri di Palermo il vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno  Matteo Salvini e il suo capo di Gabinetto per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio.

           Caselli.jpg Il patronaggio, rigorosamente al minuscolo, offerto o prestato da Caselli al Patronaggio altrettanto rigorosamente al maiuscolo mi sembra francamente un po’ al di sotto delle aspettative per un magistrato come l’ex capo della Procura di Palermo. Che ha rispolverato, fra l’altro, contro Salvini e quanti lo difendono la polemica, molto in voga negli anni di Silvio Berlusconi e dei suoi amici al governo, contro la pretesa degli imputati di difendersi “dai” piuttosto che “nei”  processi. Ma Salvini ha chiesto esattamente il contrario.

            Alla notizia delle indagini condotte a carico dei suoi collaboratori al Viminale il ministro dell’Interno si è assunta la piena responsabilità degli ordini loro impartiti ed ha chiesto di essere interrogato subito. E alla notizia della trasmissione degli atti dalla Procura di Agrigento a quella di Palermo per innescare il procedimento davanti al cosiddetto tribunale dei ministri Salvini ha gridato sì “vergogna”  ma ha sollecitato  il Senato, dove la pratica dovrà arrivare per la necessaria autorizzazione a procedere eventualmente richiesta dalla Procura palermitana, a concederla perché non deve l’ora non di sottrarsi al processo, ma di affrontarlo. Di che cosa stiamo parlando quindi, caro dottor Caselli? Di quale “crociata antigiudiziaria in corso da 25 anni”, e forse anche di più, visto che Lei ad un certo punto ha citato anche gli attacchi delle brigate rosse alla magistratura.

            La materia del contendere mi sembra francamente altra, ben altra. E’ la coincidenza, o sovrapposizione dell’inchiesta giudiziaria con o sulla gestione politica -ripeto, politica- dei soccorsi in mare prestati dal pattugliatore della Guardia Costiera poi ispezionato a Catania dal capo della Procura di Agrigento, dal blocco della nave disposto dal ministro in attesa o nella speranza, infine realizzata, di distribuirne il carico fra più destinazioni, e infine -se permette il dottor Caselli- la congruità delle imputazioni mosse da Luigi Patronaggio.

            A questo proposito mi permetto di fare mia l’osservazione di un collega insospettabile, per la sua predisposizione a favore delle Procure, come il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, col quale peraltro Caselli ha frequenti e sempre puntuali rapporti di collaborazione.

           Travaglio.jpg Ebbene, pur dando a Salvini del “cazzaro verde” e persino dell’ignorante -secondo me a torto- per avere scambiato per “immunità parlamentare” il passaggio della procedura giudiziaria avviata da Patronaggio attraverso un voto di autorizzazione del Senato, che potrebbe anche negarla nel superiore interesse dello Stato, considerata la natura politica e sempre discrezionale delle decisioni di un ministro, o dello stesso presidente del Consiglio; pur dando, ripeto, del “cazzaro verde” al titolare leghista del Viminale, Travaglio ha fatto presente che le accuse di sequestro di persona e di arresto illegale non possono stare insieme. L’una esclude l’altra. E mi sembra francamente vero e logico.  Dell’abuso di ufficio, infine, neppure parlo dopo che un altro insospettabile, l’ex ministro ed ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, parlandone a proposito di una vicenda giudiziaria riguardante il sindaco allora grillino di Parma, lo paragonò al sovraccarico di un camion per il suo conducente.

Groviglio di idee, manovre e competenze sotto il ponte crollato a Genova

            Da Catania a Genova via Agrigento. Il viaggio è tortuoso ma reale.

            Non dico archiviata, ma quanto meno deviata dalle cronache politiche a quelle giudiziarie di origine agrigentina la vicenda della nave Diciotti, e degli immigrati finalmente sbarcati a Catania per raggiungere in gran parte, ospiti dei vescovi italiani, la ridente Rocca di Papa fra le proteste immancabili degli abitanti, è tornata alla ribalta la vicenda genovese del ponte Morandi. Che crollò alla vigilia di Ferragosto col bilancio di oltre 40 morti e dovrà essere ricostruito, sullo stesso o altro tracciato, per restituire la normalità al traffico e, più in generale, all’economia genovese. Ma possiamo anche  parlare di economia nazionale, essendo quello di Genova il secondo porto d’Italia per traffico di merci, dopo Trieste e prima di Cagliari.

            E’ proprio sulla ricostruzione, dopo la demolizione di quel che è rimasto in piedi pericolante su pezzi della città, che è scoppiato l’ennesimo conflitto politico, più ancora che tecnico, all’interno del governo: un conflitto che è parte di quello più generale sulla prospettiva della cosiddetta nazionalizzazione delle autostrade, perseguita dai grillini ma contestata dai leghisti.

            Assente o defilato dalla disputa, come al solito, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che non sa ancora quale parte del vecchio contratto di governo, o di uno nuovo, dovrà accettare di eseguire, il suo vice pentastellato Luigi Di Maio ha già scelto praticamente il costruttore: la coppia Fincantieri-Cassa Depositi e Prestiti. La società ancora concessionaria dell’autostrada, e riferibile notoriamente alla famiglia Benetton, potrà al massimo assumersene i costi, rimanendone per il resto fuori anche per non potere accampare diritti di sorta nel lungo procedimento di revoca delle concessioni già avviato dal ministro grillino delle Infrastrutture Danilo Toninelli.

            L’altro vice presidente del Consiglio, e leader della Lega, Matteo Salvini è troppo impegnato a sfidare -questa volta forse non a torto- la magistratura che lo ha accusato per la vicenda della nave Diciotti di sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio per tornare a intervenire di persona sulla questione del ponte di Genova. Per lui parla  e agisce l’amico, collega di partito e sottosegretario a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti, per niente convinto né del ricorso alla Fincantieri e alla Cassa Depositi e Prestiti per la ricostruzione né della meta finale della nazionalizzazione delle autostrade. Ma non ne è convinto, anzi decisamente contrario, anche il presidente della regione Liguria Giovanni Toti, che è insieme di Forza Italia e capo di una giunta di centrodestra, a partecipazione quindi leghista. Ma soprattutto Toti è anche commissario straordinario per l’emergenza genovese insorta con il crollo del viadotto: un commissario nominato non dal primo cittadino di passaggio sotto quel che è rimasto del ponte, ma dal Consiglio dei Ministri.

            Toti, con comprensibile delusione, e credo anche con la sorpresa dello stesso Salvini, ha scoperto nel contrasto esploso sulla vicenda della ricostruzione che le sue competenze non sono così ben definite come si aspettava, e come imponevano il buon senso e la gravità della situazione.

             I grillini pensano che le competenze di Toti si fermino alla demolizione di quel che è rimasto del viadotto Morandi, alla sistemazione degli sfollati che vi abitavano sotto, al traffico e a qualcosa d’altro. Sul resto, cioè sulla ricostruzione, i grillini pensano che debba decidere direttamente il governo o un altro commissario da nominare, e affiancare o sovrapporre al governatore della regione, troppo forzista forse perché Di Maio e amici possano fidarsene.

            Ma non è detto che anche nella vicenda genovese la cronaca politica non debba essere non solo affiancata, come è già accaduto, ma superata – come a Catania- da quella giudiziaria perché fra gli indagati per il crollo, e destinati probabilmente a un processo di chissà quale durata, con i “tempi” non graditi o tollerati dal presidente del Consiglio, potrebbero trovarsi uomini coinvolti direttamente o indirettamente pure nella disputa sulla ricostruzione, nazionalizzazione e quant’altro.

            La confusione sotto il cielo, di Genova, è massima. E Mao è morto da troppo tempo per goderne.

L’ennesima rinuncia del Pd a difendere davvero il primato della politica

Capisco, per carità, le ragioni, esigenze e quant’altro dell’opposizione praticata al governo dal Pd, sfuggito per fortuna alle tentazioni di un accordo post-elettorale con i grillini. Che lo avevano sin troppo sfacciatamente scambiato per un forno di riserva, anzi come un forno concorrente con quello leghista per fare quadrare i conti in un Parlamento in cui essi erano arrivati senza i numeri necessari per fare da soli.

Capisco anche le ragioni di risentimento persino personale che i dirigenti piddini più accorti, quelli appunto contrari a fare da spalla ai grillini, possono avvertire verso i protagonisti del governo in carica. In particolare, verso un Matteo Salvini che non perde occasione per attaccare anche sul versante migratorio il Pd pur raccogliendo in buona parte i buoni frutti di ciò che prima di lui al Viminale aveva seminato Marco Minniti. Il quale aveva fatto uscire il problema degli sbarchi dalle dimensioni e condizioni di emergenza in cui l’aveva raccolto. E ciò anche a costo, parlando sempre di Minniti, di sentirsi poi rivolgere, a elezioni avvenute, l’ingenerosa e pubblica accusa del presidente del partito Matteo Orfini di avere contribuito alla perdita di voti dando “una lettura di destra” al fenomeno così drammaticamente avvertito da tanta parte della gente comune.

L’altro protagonista del governo, il grillino Luigi Di Maio, ha fatto e fa ancora peggio di Salvini contro il Pd. Si era appena cominciato a contare a Genova il numero dei morti e dei feriti nel crollo del viadotto Morandi e già il vice presidente pentastellato del Consiglio cercava a Ferragosto di scaricarne in qualche modo la responsabilità anche sul Pd per presunti finanziamenti elettorali ottenuti, peraltro insieme con altri partiti, compresa la Lega, dai concessionari dell’autostrada, come se fossero stati proprio quei soldi a impedire ai Benetton di mantenere bene il ponte. Roba, obiettivamente, da voltastomaco.

Eppure, con tutta la comprensione -ripeto- che merita l’opposizione del Pd al governo in carica, non capisco perché mai -Dio mio- al Nazareno e dintorni si siano lasciati scappare un’altra occasione per difendere il primato della politica di fronte all’ennesima invasione di campo della magistratura. Tale considero infatti l’intervento a gamba tesa di una Procura della Repubblica nella vicenda dei migranti bloccati per alcuni giorni nel porto di Catania su un pattugliatore della Guardia Costiera, e infine sbarcati con varie destinazioni.

Dall’intervento della Procura di Agrigento sta nascendo un procedimento giudiziario a Palermo, gestito nella cornice del cosiddetto tribunale dei ministri, contro Salvini e il suo capo di Gabinetto per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio. Che per andare avanti -per fortuna, dico a questo punto- avrà bisogno di un passaggio al Senato.

Il fastidio che mi procurano lo stile e spesso anche le scelte di Salvini non mi impedisce di considerare quanto meno curioso il sequestro ravvisato nella permanenza dei migranti su una nave militare italiana che li aveva soccorsi, e salvati da morte per naufragio, nelle acque tra Malta e la nostra isola più vicina. Considerare costoro detenuti mentre Salvini li faceva trattenere cercando di concordarne prima la destinazione verso più Stati non mi convince per niente, a meno che la prova non consista nel fatto che tra le numerose visite sulla nave attraccata al molo Levante di Catania, con tanto di autorizzazione di Salvini e con tutti i riguardi del comandante, ve n’è stata anche una della rappresentante del “garante nazionale dei detenuti”. Sembra una barzelletta ma il fatto è vero. E da solo dovrebbe bastare e avanzare per avvertire il carattere paradossale di tutta la vicenda, anche di quella giudiziaria.

Per quanto riguarda l’abuso d’ufficio contestato al ministro dell’Interno e al suo capo di Gabinetto, mi attengo al paragone che una volta l’insospettabile Pier Luigi Bersani, commentandone uno contestato a un sindaco grillino, fece con il sovraccarico di un camion per il conducente.

Vedere anche il Pd cavalcare contro Salvini il procedimento giudiziario avviato contro di lui, o solo evitare di sollevare dubbi sulla sua consistenza e opportunità, mi ha procurato un senso di delusione e amarezza. Così anche per il rimprovero un po’ banale e scontato -diciamolo pure- fatto a Di Maio di difendere adesso il suo collega di governo Salvini, pur a modo suo, dopo avere reclamato le dimissioni dell’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano, raggiunto anche lui da un’accusa di abuso d’ufficio. Mi è sembrato di stare all’asilo Mariuccia.

Il Pd ha così preferito lasciare al solo, o quasi, e solito Silvio Berlusconi, forse per timore di confondersi con lui, il compito di esprimere dall’opposizione critiche e riserve politiche sull’ennesima sovrapposizione giudiziaria alla politica. E non mi si dica, per favore, che bisogna pur rendersi conto -come dicono i soloni- dell’obbligatorietà dell’azione penale stabilita dalla Costituzione, come se i magistrati non disponessero di alcuna discrezionalità.

Da quarant’anni mi chiedo dove e come fosse stata applicata l’obbligatorietà dell’azione penale nei riguardi di Romano Prodi. Che durante il sequestro di Aldo Moro segnalò Gradoli -nome non di una località nel Reatino, dove furono mandate inutilmente le forze dell’ordine, ma di una strada di Roma dove c’era la base terroristica di Mario Moretti, il capo dell’operazione delle brigate rosse- dicendo di averne raccolto l’indicazione con amici in una seduta spiritica.

Se quella storia l’avessimo raccontata io o Sansonetti, che allora lavoravamo, rispettivamente, al Giornale e all’Unità, saremmo finiti in una cella, e chissà per quanto tempo, con tutte le norme antiterroristiche vecchie o appena varate. Prodi invece nell’autunno di quello stesso anno -il 1978- divenne ministro dell’Industria nel quarto governo di Giulio Andreotti. E sarebbe stata solo la prima tappa di una lunga carriera politica, interrotta nel 2013 sulla soglia del Quirinale per un centinaio di “franchi tiratori” del Pd, non certo mossi dal desiderio di vendicare quella seduta spiritica, ma da altri e più banali obbiettivi.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Di Maio difende Salvini, a modo suo, dall’assalto giudiziario per i migranti

            Messo in croce dall’associazione nazionale dei magistrati, solidale col capo della Procura di Agrigento che ha spinto il vice presidente leghista del Consiglio verso il tribunale dei ministri di Palermo per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio, il ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede ha messo in croce a sua volta il collega di partito e vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio perché prendesse le distanze dalle dure reazioni del suo collega al vertice del governo. Che ha gridato “vergogna” e ha sfidato le toghe ad arrestarlo, non sentendosi evidentemente come la bolla d’aria rappresentata in una urticante vignetta di Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera.

            Di Maio ha invece difeso Salvini per le iniziative che gli hanno procurato un procedimento giudiziario liquidato come “atto dovuto” e lo ha soltanto esortato a comprendere anche lui i magistrati, anziché attaccarli. Cosa che invece il leader leghista ha continuato a fare in più interviste precisando di avere raccolto, nelle critiche al procuratore di Agrigento e all’associazione mobilitata a suo favore, la solidarietà di “molti magistrati”. Nessuno dei quali, tuttavia, almeno di quelli in servizio, ha ritenuto di uscire allo scoperto, almeno sinora. Carlo Nordio, da tempo fuori dal coro ed espostosi anche stavolta con un editoriale critico sul Messaggero e altrove, è ormai in pensione, e quindi ex.

            A livello politico, totale è stata invece la solidarietà a Salvini, anche per gli attacchi alla magistratura e per la “riforma della giustizia” da lui  reclamata in questa occasione, espressagli dall’ex alleato di governo Silvio Berlusconi, tuttora socio, diciamo così, del centrodestra operante  in regioni importanti ed altre amministrazioni locali a guida leghista, e non solo forzista.

          Berlusconi e Salvinijpg.jpg  La solidarietà di Berlusconi a Salvini in questo passaggio politico non faciliterà certamente la normalizzazione degli umori, o malumori, nel movimento grillino. Di cui si colgono i segni, fra l’altro, nei titoli di prima pagina del Fatto Quotidiano, dove si denuncia in rosso “la rimpatriata”, col “pregiudicato solidale col ministro indagato” in un procedimento, peraltro, che Marco Travaglio contesta, in un lungo editoriale, che si possa liquidare, alla maniera di Di Maio, come “dovuto”. In effetti il capo della Procura di Agrigento si è mosso con tutta la discrezionalità consentitagli dalla prassi e dalle stesse norme in vigore, al di là della formula  costituzionale sin troppo abusata e astratta, se non vogliamo definirla anche un po’ ipocrita, diciamolo pure, della “obbligatorietà dell’azione penale”.

            Salvini ha ringraziato pubblicamente Berlusconi, non risparmiandosi tuttavia di contestargli implicitamente la gestione recentissima della vicenda Marcello Foa alla presidenza della Rai,  dicendo che Forza Italia “è troppo vicina al Pd”. Con i cui parlamentari appunto i commissari azzurri alla vigilanza parlamentare hanno votato contro il candidato leghista al vertice dell’azienda inficiandone l’elezione avvenuta in Consiglio di Amministrazione.

            Chissà se, dopo il fatto nuovo costituito dal suo scontro con l’associazione nazionale delle toghe, e una coda già preannunciata nel Consiglio Superiore della Magistratura, Salvini non riuscirà a fare breccia su Berlusconi per un cambiamento di linea di Forza Italia sulla questione Foa. Che formalmente, e con la buona volontà di entrambe le parti, potrebbe essere riaperta non essendosi il presidente bocciato ancora dimesso da consigliere di amministrazione.

           Schermata 2018-08-27 alle 08.17.13.jpg Ma sul piano politico più generale, ancora più significativo della ritrovata sintonia con Berlusconi è per Salvini il rapporto che è riuscito a creare con la Chiesa nella vicenda dei migranti giunti a Catania, e infine sbarcati dal pattugliatore della Guardia Costiera per essere presi in carico in maggioranza dai vescovi italiani. I quali li sistemeranno, integrandoli, tra Rocca di Papa e il centro “Mondo migliore” di via dei Laghi, alla periferia sud di Roma. Lo ha riferito ai giornalisti, nel volo di ritorno dalla sua visita in Irlanda, il Papa in persona. Che ha tenuto anche a confermare come contatti, trattative e quant’altro si fossero svolti nelle ore e nei giorni precedenti direttamente col ministro dell’Interno: un successo non da poco per il leader leghista trovatosi in tante occasioni in polemica proprio sul tema dei migranti con esponenti religiosi.

             Che la Chiesa abbia trovato sulla sua strada in Italia un altro “uomo della Provvidenza ?”,  si sarà chiesto qualcuno  pensando proprio a quel Mussolini cui il leader leghista viene frequentemente paragonato dagli avversari.

            Ultimo, ma non per importanza, è lo scenario europeo del dopo-Catania, diciamo così. E’ lo scenario segnato dalla forte polemica apertasi fra Roma e Bruxelles, che ha indotto l’ex presidente del Consiglio Mario Monti a denunciare, in un editoriale sul Corriere della Sera, il cambiamento radicale apportato dal governo gialloverde italiano nei rapporti intercomunitari.

           Il cambiamento sarebbe avvenuto a favore dei paesi dell’ex blocco sovietico, peraltro i più ostili alla distribuzione dei migranti chiesta dall’Italia fra tutti i paesi dell’Unione. Ma Di Maio in una contestuale intervista alla Stampa ha liquidato il problema sostenendo in parole povere che l’Europa conosciuta, praticata e gestita da Monti quando ne era commissario, prima ancora che diventasse presidente del Consiglio in Italia, ormai “ha le ore contate”.

            Il vice presidente grillino del Consiglio è convinto che alle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo, nella primavera del 2019, “una batosta memorabile” punirà i protagonisti e gestori dell’attuale estabilishment europeo.

 

 

 

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Le ultimissime dalle 5 Stelle e dintorni per il popolo digitalizzato

            Formidabile. Il popolo del Movimento 5 Stelle, rigorosamente digitale, ha dovuto attendere le ore 12,51 di domenica 26 agosto per essere ermeticamente informato dell’epilogo della vicenda catanese degli immigrati finalmente sbarcati per intero nella notte dal pattugliatore della Guardia Costiera. Ermeticamente, perché il capo del movimento, vice presidente del Consiglio e superministro dell’Economia e del Lavoro Luigi Di Maio sotto un titolo sul “Governo compatto nelle emergenze” si è tenuto per sé le notizie dello sbarco, della distribuzione dei migranti concordata per ora con la Chiesa italiana, l’Albania e l’Irlanda, del ruolo esercitato dal ministro leghista dell’Interno Matteo Salvini, del procedimento giudiziario che questi si è procurato per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio e nell’esaltazione di un “gioco di squadra” condotto per venirne fuori  ha ringraziato solo, nell’ordine, il ministro degli Esteri Moavero e il presidente del Consiglio Conte.

            Lasciata senza nome o particolari l’emergenza di Catania, chiamiamola così, Di Maio si è soffermato di più invece nella nota diffusa al suo popolo sull’emergenza Genova, quella cioè del viadotto Morandi crollato.  E ha  giurato che mai e poi mai sarà permesso alle Autostrade della famiglia Benetton di ricostruirlo e gestirlo, ma solo di pagarlo.

            Poche e naturalmente frettolose parole chiudono la nota di Di Maio per rivendicare il merito di aver fatto il suo dovere chiedendo nel 2016 le dimissioni dell’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano per avere avuto un avviso di garanzia per abuso d’ufficio, senza con questo sentirsi imbarazzato per avere scoperto il garantismo col pur non citato Salvini, oggi indagato anche lui per lo stesso reato, e anche per gli altri due già ricordati.

           Grillo.jpg Ancor peggio se l’è cavata sul suo blog ufficiale, e personale, Bebbe Grillo. Che nella nota dedicata agli eventi della vetinovesima settimana  della sua finestra sul mondo ha cominciato con la plastica in Cornovaglia e altre sparse per il pianeta ignorando la vicenda di Catania, ma non quella di Genova, giusto per non fare un torto alla sua città, oltre che a Di Maio.

Le opposizioni scavalcate, al solito, dalla magistratura contro Matteo Salvini

            Mattarella.jpgSergio Mattarella, esposto anche al maestrale che batte forte, mentre scrivo, sull’Ammiragliato della Maddalena che l’ospita in vacanza, si sarà messo le mani fra i capelli -come presidente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura- di fronte all’epilogo umanitariamente felic ma politicamente drammatico del blocco dei migranti sul pattugliatore della Guardia Costiera ancorato a Catania.

            Il blocco, in verità, è finito e i quasi duecento migranti iniziali, già ridotti di numero per lo sbarco prima dei minorenni senza accompagnamento e poi dei più malandati in salute, hanno ottenuto una destinazione fra la Chiesa italiana in grande maggioranza, l’Albania e l’Irlanda grazie al lavoro svolto dietro le quinte dal governo con la regìa del vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini. Che però si è guadagnato nel frattempo, insieme col suo capo di Gabinetto al Viminale, l’iscrizione nel registro degli indagati ad Agrigento per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio. Mancano per fortuna i reati di rapina e, in assenza di morti, di omicidio colposo.

            Patronaggio.jpgNel momento stesso in cui ha indagato Salvini e il suo principale collaboratore al Ministero dell’Interno, però, il capo della Procura di Agrigento Luigi Patronaggio, reduce da una missione di lavoro a Roma per interrogare funzionari del Viminale, ha dovuto spogliarsi delle indagini e trasmettere il fascicolo a Palermo. Dove scattano le competenze e procedure del tribunale dei ministri, istituito in ogni distretto di corte d’Appello nel 1989 per giudicare i reati ministeriali, sino ad allora giudicabili dalla Corte Costituzionale.

            Il tribunale dei ministri di Palermo, come tutti gli altri in Italia, è composto di tre giudici effettivi e tre supplenti, sorteggiati ogni due anni fra tutti i magistrati del distretto giudiziario, il più alto dei quali in grado o il più anziano, in caso di parità, ne assume la presidenza.

            Entro 90 giorni dalla ricezione degli atti, sentiti gli indagati con la collaborazione della Procura ordinaria, il tribunale dei ministri potrà decidere l’archiviazione del fascicolo, salvo ulteriori accertamenti richiesti dalla Procura, o trasmettere gli atti al Parlamento. In questo caso la destinazione sarebbe il Senato, cui Salvini appartiene. E dove, col passaggio attraverso la competente giunta, si potrà negare -nell’interesse superiore dello Stato-  o concedere l’autorizzazione al processo ordinario con la maggioranza assoluta dei voti, cioè dei componenti l’assemblea. E’ una maggioranza della quale ogni governo dovrebbe disporre sulla carta per nascere e sopravvivere, anche se ad ottenere o a perdere la fiducia basterebbe la maggiorana semplice: quella cioè dei partecipanti alla votazione.

            Da questa sommaria descrizione di fatti e ipotesi risulta evidente una cosa che costituisce l’aspetto politicamente drammatico della vicenda, anche se conforme, per carità, alle norme costituzionali e ordinarie in vigore: l’assunzione, di fatto, del ruolo di opposizione al governo da parte della magistratura. Lo prova la scomparsa dalle prime pagine di tutti i giornali delle voci delle opposizioni politiche, per cercare le quali bisogna spingersi nelle pagine interne, trovandole spesso in forma così modesta da sfuggire a prima vista.

            L’associazione nazionale dei magistrati non vuole sentirselo dire né dall’ultimo dei cronisti o osservatori politici né da Salvini. Che ha reagito all’iniziativa giudiziaria gridando “vergogna”, dopo avere scavalcato le transenne della manifestazione di partito che l’ospitava,  e sfidando i magistrati ad arrestarlo, pur nella consapevolezza che questo non potrà almeno per ora accadere. E ciò sia perchè non sarà possibile senza l’autorizzazione del Senato, essendo Salvini parlamentare, sia perché da indagato presso il tribunale dei ministri l’arresto sarebbe possibile solo in flagranza di reato. Che è una circostanza alla quale il ministro dell’Interno si è sottratto nel momento in cui, raggiunti gli accordi con i vescovi italiani, con l’Albania e l’Irlanda, ha voluto e potuto disporre lo sgombero degli immigrati dal pattugliatore della Guardia Costiera, che li aveva raccolti in mare tra Malta e Lampedusa e trattenuti a bordo a Catania in attesa della loro ripartizione fra più paesi o entità, com’è appunto avvenuto.

            Nel lanciare la sua sfida ai magistrati, di fatto subentrati -ripeto- alle opposizioni politiche, parlamentari, sindacali, associative e di ogni altro tipo non giudiziario, Salvini si è appellato ai “60 milioni di italiani”, che esigono e meritano “la difesa dei confini” e la salvaguardia delle condizioni di sicurezza, non potendogli evidentemente bastare i 5 milioni 691 mila e rotti connazionali che hanno votato per la Lega nelle elezioni del 4 marzo scorso, pari al 17,37 per cento. Che è una  quota  già aumentata nelle elezioni locali successive a quelle politiche e nei sondaggi, ma che potrebbe ulteriormente salire -vista l’aria che tira nel Paese- nelle elezioni della primavera dell’anno prossimo per il rinnovo del Parlamento europeo, o in quelle nazionali anticipate che dovessero sopraggiungere per una crisi di governo senz’altra soluzione che il ricorso alle urne.

            Nel frattempo, oltre a cambiare il quadro o clima politico dell’Italia, dove sembra essere tornati alla fine della cosiddetta prima Repubblica, fra il 1992 e il 1993, quando a guidare o a condizionare l’opposizione politica fu la magistratura con le indagini milanesi contro il finanziamento illegale dei partiti e la corruzione che spesso l’accompagnava, è peggiorato in queste ore il quadro o clima dei rapporti fra il governo di turno a Roma e l’Unione Europea. Che, sottrattasi di fatto di fronte alla vicenda di Catania agli impegni tutti verbali di una qualche redistribuzione dei migranti approdati sulle coste italiane come confini meridionali dell’Europa, si è infilata pure lei in un vicolo senza uscita, col rischio di un blocco o di una riduzione drastica delle quote associative di uno dei paesi fondatori della comunità politica e monetaria del vecchio continente. E con tutto ciò che potrà seguirne: un altro dramma nel dramma. Che a Salvini però non sembra preoccupare più di tanto, vedendovi anzi l’occasione, forse, per una ridiscussione davvero delle regole che va reclamando da tempo, e non solo nella gestione del fenomeno migratorio.

            Di Maio.jpgA mettersi le mani fra i capelli,  oltre a Mattarella,  cominciano forse anche gli alleati di governo dei leghisti: i grillini. I cui blog -quello ufficiale del movimento e quello personale di Grillo- non a caso stanno ignorando o declassando gli sviluppi della vicenda catanese. E il cui capo politico, cioè il vice presidente del Consiglio e superministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro Luigi Di Maio, dopo avere avvertito per telefono Salvini di non “riuscire più a contenere i miei”, secondo versioni giornalistiche non smentite, ha dovuto tornare ad annacquare il giustizialismo tradizionale delle 5 Stelle.

            In particolare, escludendo le dimissioni del suo collega di governo Di Maio ha dovuto smentire i suoi non lontani trascorsi di due anni fa, quando reclamò le dimissioni dell’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano perché raggiunto da un avviso di garanzia per abuso d’ufficio.

            Omnia munda mundis, dicevano i latini quando erano convinti che tutto fosse puro per i puri, di turno.

L’avventura surreale del comandante del pattugliatore bloccato con i migranti

            Spero che il capitano di fregata Massimo Kothmeir alla fine dell’avventura che sta vivendo nel porto di Catania, al comando del pattugliatore della Guardia Costiera bloccata dal vice presidente del Consiglio e ministro degli Interni con 133 immigrati soccorsi in mare tra Malta e Lampedusa e con i 45 uomini del suo equipaggio, non debba parafrasare in qualche modo il mio amico e compianto Gustavo De Meo. Che era un deputato democristiano di Foggia arcinoto e arcisimpatico in Transatlantico e dintorni, alla Camera, per la quantità di barzellette che sfornava parlando anche di cose serie, anzi serissime.

            Legato all’allora presidente del Consiglio Aldo Moro, pugliese peraltro come lui, cercava sempre di assecondarlo prevedendone desideri, esigenze e quant’altro. Una volta, sottosegretario al Ministero della Difesa, sapendo che  Moro non conosceva le pur famosissime isole Tremiti, gli mise a disposizione nel porto di Manfredonia una fregata per portarvelo.

            Alla conclusione della prima crisi di governo successiva a quel viaggio il povero De Meo non si vide confermato nell’incarico, vittima dei soliti giochi fra le correnti dello scudocrociato, dove ministeri e sottosegretariati venivano distribuiti applicando le percentuali dei gruppi di appartenenza certificati via via da un manuale. Il cui ’autore, Massimiliano Cencelli, lo aggiornava ad ogni congresso della Dc, o ad ogni variazione avvertita quando si riuniva il Consiglio Nazionale.

            Il gruppo degli amici di Moro in occasione di quella crisi fu ritenuto sopravvalutato dai capi della corrente cui pure Moro apparteneva, quella dei dorotei, i cui dirigenti raccolti attorno al segretario del partito Mariano Rumor reclamarono, fra gli altri, il posto proprio di De Meo. Che Moro sacrificò senza neppure scrivergli due righe di spiegazioni e di rammarico, come invece ritenne di fare qualche tempo dopo con Bernardo Mattarella, il padre dell’attuale presidente della Repubblica: moroteo pure lui e ministro uscente, allora, del Commercio Estero. Che ricevette una bella lettera di spiegazioni, elogi e ringraziamento scritta a mano dal presidente del Consiglio,  poi rivelatasi utile anche per vincere una causa per diffamazione contro il sociologo siciliano, e quindi conterraneo, Danilo Dolci molto attivo sul fronte antimafioso.

            Il povero De Meo, comunque compensato politicamente con altre destinazioni, la maggiore delle quali per importanza e durata fu quella di principale Questore della Camera, si divertì a tradurre la sua delusione in un biglietto scritto a mano a Moro e da lui stesso riferito ai giornalisti parlamentari che partecipavano alle sue conversazioni nei corridoi parlamentari e alla buvette di Montecitorio. “Caro Aldo, resto contento -diceva il biglietto- di averti offerto una fregata per visitare le Tremiti e prendo atto di essere stato ricambiato con una fregatura. Tuo ugualmente e sempre amico Gustavo”. Bellissimo. Poi verificai e Moro me ne diede conferma ridendone ancora di gusto, per nulla ferito. Egli sapeva che di De Meo poteva continuare a fidarsi. E infatti quando, dopo le elezioni politiche del 1968, i “dorotei” lo sfrattarono da Palazzo Chigi e Moro allestì una propria corrente chiamata senza alcuno sforzo di fantasia “amici dell’onorevole Moro”, il primo a aderirvi fu proprio Gustavo De Meo. Che consumò così anche la sua vendetta contro chi ne aveva imposto la sostituzione come sottosegretario alla Difesa.

            Ma torniamo al nostro, diciamo così, capitano di fregata e comandante del pattugliatore della Guardia Costiera Massimo Kothmeir, per il quale si stanno sprecando gli elogi di quanti salgono e scendono dalla sua nave per ispezionarne, visitarne e quant’altro il carico, contrapponendo la sua gentilezza, correttezza eccetera eccetera agli ordini “disumani”, secondo l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, ricevuti direttamente via facebok da Salvini. Che gli ha intimato di non cedere a sollecitazioni di nessun tipo contrarie ai suoi ordini, gli venissero pure dall’ammiraglio in persona.

            L’unico ordine che Salvini  permetterebbe all’ufficiale di subire, pur non essendo d’accordo, sarebbe quello del capo dello Stato e delle Forze Armate. Ma Sergio Mattarella ha deciso, almeno per ora, di starsene silenzioso alla finestra per non togliere le castagne dal fuoco al ministro dell’Interno, capace di ricavare dal proprio dissenso gridato ai quattro venti anche vantaggi elettorali, visti gli umori prevalenti nel Paese contro gli immigrati e, giustamente, contro l’Europa indisponibile a farsene carico collettivamente, o disponibile solo a parole.

            Il povero capitano-comandante, disciplinato a tutto, e di temperamento gioviale, si starà forse chiedendo che cosa davvero lo attenderà, o gli spetterà, a chiusura della vicenda surreale finitagli tra i piedi, o le mostrine, dopo avere collezionato tanti elogi da avversari e critici del governo in carica.

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