Matteo Renzi a sorpresa sulle orme giustizialiste di Massimo D’Alema

            Fra le sorprese politiche di questa estate rovente, oltre all’ulteriore rottura del centrodestra con la scelta della Lega di correre da sola nelle elezioni regionali d’Abruzzo, in autunno, c’è la ricollocazione politica -forse a sua insaputa- di Matteo Renzi. Il quale è andato in ferie formulando previsioni di caduta del governo gialloverde, al ritorno dalle vacanze, per motivi giudiziari e non politici.

           Così il senatore fiorentino ammette peraltro la inconsistenza dell’opposizione che pure ha orgogliosamente sostenuto e un po’ anche imposto al Pd da lui non più guidato. Dove erano in tanti, a cominciare dal reggente Maurizio Martina, suo ex vice segretario, ad avere durante la crisi una voglia matta di allestire un forno alternativo a quello dei leghisti per vendere ai grillini il pane, cioè i voti parlamentari, di cui avevano bisogno per andare al governo. Gli elettori, come si sa, avevano assegnato il 4 marzo scorso ai pentastellati solo una maggioranza relativa, per quanto sicuramente ragguardevole.

            Ma Renzi con le sue previsioni, diciamo pure gli auspici di crisi per motivi giudiziari, non ha fatto torto solo alla sua opposizione politica, allegramente annunciata impugnando un contenitore pieno di pop corn, come allo stadio o al cinema. Egli ha indebolito, anzi distrutto, con una incredibile autorete l’immagine di garantista che aveva cercato di costruirsi a Palazzo Chigi rivendicando il primato della politica sulla magistratura, abituata dai tempi di Tangentopoli a invadere il campo dei partiti, o -ancor peggio- a lasciarsi strumentalizzare dagli uni contro gli altri.

            Per un garantista a ventiquattro carati come si era proposto contestando, sia pure tra clamorose contraddizioni e incertezze, la pratica delle decapitazioni di ministri, sottosegretari e quant’altri all’annuncio del primo avviso di garanzia, o alla pubblicazione della prima intercettazione sfuggita al solito ufficio giudiziario, dovrebbe bastare e avanzare prevedere la crisi di governo, dai banchi parlamentari di opposizione, per l’ipotesi sempre più probabile che il governo non riesca a far quadrare davvero i conti  nella legge di bilancio o stabilità, ex finanziaria, messa in cantiere tra annunci, minacce, smentite e precisazioni. Persino il sottosegretario leghista alla presidenza del Consiglio, incline per natura all’ottimismo e alla bonomia, ha avvertito lo scatenamento degli speculatori nei mercati finanziari contro i titoli del nostro ingente debito pubblico.

            Invece Renzi immagina, e spera, che la Lega finisca schiacciata, materialmente e moralmente, sotto i sequestri dei suoi conti in banca, già disposti o in arrivo dalla magistratura per fare recuperare allo Stato una cinquantina di milioni di euro di finanziamento pubblico presumibilmente abusato da Umberto Bossi e altri. Cui Salvini si sente estraneo, disposto a versare solo qualche centinaia di migliaia di euro.

            I guai giudiziari dei grillini che accendono le speranze di Renzi sono quelli dei loro amministratori locali, a cominciare naturalmente dalla sindaca di Roma, formalizzati in processi in corso, e quelli che potrebbero maturare scavando nelle incursioni digitali di una notte dello scorso mese di maggio contro l’onore e la libertà del presidente della Repubblica. Su queste incursioni sta indagando la Procura di Roma, cui Renzi ha chiesto di  testimoniare, avendo provato sulla sua pelle, prima e dopo l’esperienza a Palazzo Chigi, la dimestichezza dei grillini con le campagne d’assalto telematico.

            Diversamente dall’esperienza  di Renzi, relativa alla gestione sia mediatica sia giudiziaria del cosiddetto affare Consip, che è la centrale d’acquisti della pubblica amministrazione, le incursioni mariane contro Sergio Mattarella hanno l’inconveniente paradossale di una trasparenza politica che francamente disarma gli inquirenti. A meno che a costoro non venga in mente di accusare l’attuale vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio di avere cominciato lui ad attentare all’onore e alla libertà del capo dello Stato la sera del 27 maggio, quando reagì al rifiuto del presidente della Repubblica di nominare Paolo Savona ministro dell’Economia, e alla conseguente rinuncia di Giuseppe Conte all’’incarico di formare il governo, minacciando la procedura parlamentare del cosiddetto impeachment. Una minaccia che mandò in solluchero, anzi scatenò il pubblico telematico delle 5 stelle.

           Chirico su Renzi.jpg L’infortunio più paradossale in cui è comunque incorso Renzi prevedendo una crisi di governo per guai giudiziari è quello contestatogli impietosamente sul Foglio, dove ancora lo ricordano come il “royal baby” dell’”amor nostro” Berlusconi, da Annalisa Chirico. Che lo ha accomunato alla vittima più celebre della incompiuta rottamazione renziana: Massimo D’Alema. Il quale nel 2009 dalla sua terra di elezione politica, la Puglia, annunciò l’arrivo di “scosse” giudiziarie contro l’allora governo di Silvio Berlusconi, caduto dopo due anni, in verità, per una gigantesca crisi finanziaria ma già lesionato dalle indagini sul traffico femminile a Palazzo Grazioli, la residenza romana del presidente del Consiglio.

            Sei anni dopo, nel 2015, sarebbe toccato sempre a D’Alema immaginare il governo proprio di Renzi in affanni giudiziari, che vennero tuttavia  preceduti l’anno dopo dalla crisi per la sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale, cui l’ormai ex deputato di Gallipoli volle dare il suo contributo pubblico facendo propaganda per il no e festeggiando infine il risultato e le dimissioni del suo rottamatore.

            Con questi precedenti, ritrovarsi sul fronte giustizialista come profeta di sventure con D’Alema, sia pure lui in veste di senatore felicemente in carica e l’altro sempre come ex parlamentare, ricandidatosi inutilmente con un altro partito alle elezioni del 4 marzo scorso, per Renzi non è certamente il massimo, al minuscolo.  

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