La forza di un’immagine vera e di una falsa

            Ah, la forza di una foto, ma anche -come vedremo, pur al rovescio- di un fotomontaggio.

            La foto è quella della coppia Draghi -il presidente del Consiglio e la moglie- in fondo ad una sala, seduti e dialoganti fra di loro, che attendono il turno della vaccinazione da ultrasettantenni con il tanto contestato AstraZeneca, pur abilitato dalla competente agenzia europea di controllo anche nel nuovo nome, credo, che si è dato di Vaxzevria. E proprio questo dello specifico vaccino che i coniugi Draghi, come il figlio che vive a Londra, hanno accettato di farsi iniettare è il messaggio più importante di quella foto: “il gesto”, come lo ha chiamato in un titolo Avvenire, il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana.

Che anche il presidente del Consiglio, peraltro membro dell’Accademia Pontificia delle scienze sociali nominato personalmente dal Papa, credo acquisti davanti alla chiesa di turno delle messe festive alle quali assiste senza prima avvertire fotografi, cameramen e simili per ricavarne pubblicità.

            E’ confortante vedere un uomo pubblico, diciamo così, senza neppure scomodare le figure del presidente della Repubblica, anche lui sottopostosi di recente alla vaccinazione, o del presidente del Consiglio, che compie un “gesto” esemplare di immediata lettura o comprensione.

            Ed ora passiamo al fotomontaggio di copertina del solito Fatto Quotidiano in cui il generale Francesco Paolo Figliuolo -il commissario straordinario all’emergenza virale che ha sostituito Domenico Arcuri, rimpianto da quel giornale come un campione pugnalato e deposto dal governo succeduto a quello di Giuseppe Conte, anche lui disarcionato a tradimento- viene esposto al ludibrio dei lettori con le sue decorazioni e i suoi gradi farciti di uova di cioccolata, provolone, pollo arrostito e altro.

E ciò a dimostrazione dell’”ultima” che il generale avrebbe commesso secondo “i controllori dei conti”, quelli della omonima Corte, spendendo “senza criteri” 850 milioni di euro “e pure le sponsorizzazioni per pagare gli hotspot”. Sono “contestazioni”, ripeto, per ammissione dello stesso giornale, che però con quel fotomontaggio e nel contesto del suo modo di vedere l’amministrazione della giustizia diventano nei fatti, plurale del Fatto, già una sentenza definitiva di condanna, in un processo sommario di carta stampata.

            Mi chiedo, anzi torno a chiedermi, con la solita ingenuità o il solito rincitrullimento di un anziano che ha trascorso buona parte della sua vita nelle redazioni, tra le vecchie macchine da scrivere e i computer che ne hanno poi preso il posto, se questo può essere davvero considerato giornalismo. O come altro si debba invece ritenere e definire. E me lo chiedo all’indomani dell’approvazione alla Camera, finalmente, di una direttiva europea sulla presunzione d’innocenza contro l’abitudine purtroppo diffusa di presentare persino con “dichiarazioni pubbliche” di magistrati e loro prolunghe  una persona “come colpevole” non solo in assenza di giudizio ma addirittura dopo “decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza”. Direttiva europea, Stato di diritto, serietà d’informazione e altro ancora….Ma di che parliamo di fronte allo scempio quotidiano, come la testata in questione, che se ne fa?

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Le toghe…assetate di vaccini e certe penne di rimorsi, a loro insaputa

             Non c’è giornale -o quasi, come vedremo- che non abbia messo in prima pagina la vicenda del sindacato dei magistrati costretto, di fronte all’indignazione generale, anche di alcune celebri firme della magistratura come quelle di Carlo Nordio e di Antonio Di Pietro, a fare marcia indietro, o di lato, dopo avere minacciato qualcosa di simile allo sciopero per reclamare la precedenza nelle vaccinazioni. Che peraltro era stata sollecitata alla Protezione Civile da Alfonso Bonafede negli ultimi giorni di ministro dimissionario della Giustizia, a febbraio.

            Titoli e commenti alternano rabbia, ironia, sarcasmo e quant’altro: dalla convinzione, per esempio, di Vittorio Feltri, su Libero, che in fondo sia meglio vedere i magistrati scioperare che lavorare perché non lavorando “non fanno guai”, al richiamo del figlio Mattia, sulla Stampa, al famoso “io sò io” lasciando sottinteso, sulla lingua dei magistrati in agitazione, il resto. Che suona molto volgarmente così in romanesco stretto: “voi non siete un cazzo”. E mi scuso naturalmente con chi mi legge.

            Si passa, fra l’altro, dal perentorio invito del Tempo ai magistrati a mettersi in fila alla “pandemia giudiziaria” del Foglio, rigorosamente in rosso perché non sfugga al lettore. Ma consentitemi di tornare su Carlo Nordio, ormai in pensione ma sempre sulla breccia a scrivere di argomenti come questi, per riportarne – oltre al “disgusto” e alla “ribellione” avvertita di fronte alla minaccia di sostanziale sciopero, equiparata a “manifestazione di presunzione sconfinante nell’arroganza”-  la “sorpresa per un atteggiamento che farà precipitare la credibilità delle toghe nella considerazione generale, ammesso che ci sia ancora lo spazio per precipitare dopo le rivelazioni di Palamara”. Grazie alle quali abbiamo trovato tutti conferma, con dovizia di particolari, del traffico di influenze  contestato come reato a qualunque disgraziato che abbia procurato un posto ad un disoccupato con una raccomandazione, ma praticato come segno di autonomia e di indipendenza nella gestione delle carriere giudiziarie.

            Veniamo adesso al “quasi” cui ho accennato all’inizio per segnalarvi che non sono stati proprio tutti i giornali ad avvertire la gravità di questa vicenda portandola sulle loro prime pagine. Non ha avvertito questa gravità, per esempio, la nave ammiraglia della flotta di carta stampata anti-casta, anti-privilegi, anti-abusi eccetera, eccetera. Mi riferisco naturalmente al Fatto Quotidiano, che ha preferito continuare a portare, o a mantenere, come preferite, in prima pagina come un’ossessione i viaggi all’estero di Matteo Renzi o le sparate dell’altro Matteo, cioè Salvini. Cui, in un tratto di sorprendente generosità, ha riconosciuto a Mario Draghi in una vignetta il merito di avere tirato le orecchie facendogliele diventare rosse, come fece a suo tempo l’intrepido Giuseppe Conte, quando lo aveva quasi sopra di sé come vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno.

            Però con Draghi il direttore del Fatto è tornato pungente nel suo editoriale per avvisarlo, naturalmente “nel suo bene”, dei danni che gli procurano “gli amici di lingua” che ne scrivono così goffamente compiaciuti da diventare “i suoi peggiori nemici”. Temo che ci sia, a insaputa dell’interessato, come capitò a Cristoforo Colombo di scoprire l’America cercando le Indie, dell’autobiografico e del pentimento per i tanti cattivi servizi resi a Conte scrivendone così bene quando stava a Palazzo Chigi, ma -a dire il vero- anche ora che non c’è più, rimpiangendolo quasi in lacrime.

 

 

 

 

 

 

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Mario Draghi fra il tiro al piccione e la corsa in una utilitaria

              In questa settimana santa, o di passione, la polemica politica continua a svilupparsi spesso coi toni e nei modi di una qualsiasi settimana ancora di Carnevale. Lo dimostra quel titolo sparato con una ironia mal riuscita, se voleva essere ironia, su tutta la prima pagina di Libero. Che attribuendo praticamente al presidente del Consiglio tutte o gran parte delle responsabilità dei disagi procuratici non da lui ma dalla pandemia virale ostinata a perseguitarci, pur tra errori che, per carità, possono essere stati commessi ai vari livelli delle cosiddette autorità preposte, quindi anche ai più alti, gli rinfaccia in nero la “Pasqua di tumulazione” in arrivo. E in rosso spiega che “Cristo risorge, l’Italia no”.

            Il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, cerca a suo modo di difendere Draghi da critiche, pressioni e quant’altro provenienti anche dall’interno della sua maggioranza, tanto estesa quanto complicata, spiegando a un lettore: “Ci possono essere naturalmente diversità di opinione in una maggioranza così vasta. E’ giusto che vengano discusse e affrontate e che il premier dia il suo indirizzo. Profondamente sbagliato è invece inaugurare un tiro al piccione e un fuoco incrociato giornaliero. Non è serio nei confronti delle difficoltà che stiamo vivendo”.  

             Mi sembra un commento azzeccato, anzi serio, al contrario del tiro al piccione in corso contro Mario Draghi. Di cui, peraltro, dopo avere permesso, condiviso e quant’altro le fluviali esternazioni del predecessore Giuseppe Conte, ora per fortuna alle prese silenziose col marasma grillino, si esaminano al microscopio aggettivi, sostantivi e mimiche delle conferenze stampa. Che pure qualcuno sospettava ch’egli non volesse fare chissà per quale paura o disegno perverso.

            All’immagine del piccione sotto tiro usata dal direttore del Corriere il buon Massimiliano Panarari sulla Stampa ne ha preferito un’altra per rappresentare la situazione “eccezionale” e “anomala” in cui si trova il presidente del Consiglio ancora fresco di nomina e di fiducia parlamentare, si potrebbe dire anche se l’una e l’altra non sono proprio di ieri o di pochi giorni fa. Egli ha scritto, in particolare e con una certa efficacia, che il buon Draghi è un po’ come “un motore Ferrari inserito su un’utilitaria”, viste le condizioni in cui l’inquilino di Palazzo Chigi ha ereditato il sistema politico, e persino anche quello istituzionale. Che, non essendo nessuno riuscito ad ammodernare -mi permetto di ricordare- per le bocciature referendarie riservate dal popolo sovrano, come dice la Costituzione, cioè dagli elettori, alle riforme tentate sia dal centrodestra sia dal centrosinistra, funziona come funziona, cioè a scartamento ridotto.

            All’annuncio della decisione del capo dello Stato  di mandare finalmente a Palazzo Chigi Draghi con tutta la sua esperienza e il prestigio guadagnatosi a livello internazionale mi tornò in mente una foto, in particolare, fra quelle dell’assalto che nel 2015 a Francoforte l’allora presidente della Banca Centrale Europea durante una conferenza stampa aveva subìto da una giovane dimostrante caucasica, saltata per protesta sul tavolo per lanciargli addosso quelli che poi per fortuna si sarebbero rivelati solo coriandoli, e non proiettili. Draghi aveva fatto una faccia tra lo sgomento e il terrore: la stessa -immaginai- che dovette fare ricevendo da Mattarella in persona, come mi risulta, la telefonata con la quale veniva avvertito del compito che lo aspettava alla guida del nuovo governo italiano. Buon lavoro, signor presidente del Consiglio.

 

 

 

 

 

 

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La settimana di passione al gruppo del Pd alla Camera dei Deputati

            In questa domenica delle palme che dovrebbe ispirare pace o armonia i giornali sono pieni di una lite scoppiata nel gruppo del Pd alla Camera. Dove si sta trasformando nella classica ciambella uscita senza il buco quel cambio di genere praticamente imposto al vertice dal nuovo segretario del partito Enrico Letta, quasi per scusarsi di non averlo saputo imporre alla guida della formazione politica. Avrebbe potuto farlo semplicemente rinunciando alla candidatura offertagli dal segretario dimissionario Nicola Zingaretti e invocando una segretaria finalmente donna, dopo una sfilza di segretari tutti uomini succedutisi dalla fondazione.

            La giovane e già ex ministra Marianna Madia, trovatasi in competizione nella corsa a capogruppo con la meno giovane e già presidente di regione Debora Serracchiani, peraltro presidente in carica di una commissione permanente della Camera non da poco com’è quella del Lavoro, quindi già elevata sul palco della cosiddetta parità di genere, ha accusato il capogruppo uscente Graziano Delrio di avere sostanzialmente truccato la gara sponsorizzando l’elezione della sua concorrente. Che, dal canto suo, ha mostrato una concezione particolare della sua vantata autonomia dal gioco perverso delle correnti denunciato con forza dall’ex segretario, sino a vergognarsene e a dimettersi: tanto particolare da avere negoziato con Br -per fortuna l’acronimo non delle brigate rosse ma della corrente degli ex renziani chiamata “Base riformista”- l’assegnazione del posto di vice presidente vicario, per parità di genere rigorosamente uomo. Sarebbe Piero De Luca, peraltro figlio di Vincenzo, il noto presidente della regione Campania non certo parco di iniziative spesso clamorose, senza le quali Maurizio Crozza perderebbe buona parte del suo divertente repertorio di imitatore, o comico.

            Graziano Delrio ha reagito alle proteste di Marianna Media con stupore e amarezza, se non vogliamo chiamarla indignazione, non negando di appoggiare la candidatura della Serracchiani, perché tutti si sono accorti obiettivamente della sua propensione, ma garantendo ugualmente neutralità e distacco. In pratica, sembra di capire ch’egli voterebbe per la Serracchiani, se non decidesse di astenersi per ragioni di stile, ma lo farebbe a titolo rigorosamente personale, di un semplice e ormai ex capogruppo entusiasticamente prestatosi alla necessità avvertita dal novo segretario di allontanare finalmente dal partito l’ombra del maschilismo.

            Beh, da questa vicenda francamente discutibile, a dir poco, specie alla luce anche di ciò che è già accaduto al Senato, dove l’ex capogruppo Andrea Marcucci, dopo un po’ di resistenza, si è scelta la succeditrice Simona Malpezzi incoronandola con un’elezione all’unanimità per la stragrande maggioranza di cui egli dispone nel gruppo, Enrico Letta avrebbe a mio avviso un solo modo di uscirne bene, o il meno male possibile. Che non è quello già adottato di compiacersi della “sana e bella competizione”, destinata a sfociare martedì in un’altra sana e bella votazione nel gruppo a scrutinio rigorosamente segreto. Sarebbe forse il caso di ricorrere ad un sano e garantito sorteggio, cui peraltro Letta durante il suo recente esilio da insegnante d’alta scuola a Parigi si è mostrato favorevole parlando degli esperimenti, diciamo così, che sono stati fatti in materia in Francia. Se non la meno brava, vincerebbe la più fortunata. Già Napoleone, d’altronde, preferiva che i suoi generali fossero più fortunati che bravi.  

L’ora legale europea felicemente anticipata da Mario Draghi

            Direi che Mario Draghi, dopo essersi negato all’abitudine del suo predecessore di parlare, parlare, parlare ogni giorno, spesso in dirette interminabili televisive nelle ore anche più impensabili, interrompendoci pranzi, cene e sonno, sta prendendo gusto alle conferenze stampa, pur in modica quantità di frequenza e durata. L’ultima, fatta dopo il Consiglio Europeo, pur avendo colpito molti solo per il modo in cui egli ha zittito a distanza  capitan Matteo Salvini, smanioso che tutto torni aperto come prima anche perdurando la pandemia virale, e i bollettini quotidiani dei morti, ha dato invece la misura dello spessore internazionale del nuovo presidente del Consiglio. Che, senza farsi o alimentare illusioni sulla rapidità del processo d’integrazione europea con gli eurobond, un bilancio e una fiscalità comune perché “ci vorranno generazioni”, ha incalzato con critiche e richieste costruttive i partner continentali mostrando la competenza e il prestigio guadagnatisi sul terreno al vertice della Banca Centrale Europea.

            “Così l’Italia torna leader”, dice il titolo del commento di Giampiero Massolo sulla Stampa. “Parla da leader europeo”, ha titolato il Giornale. “Draghi detta la linea a Bruxelles”, ha titolato il manifesto. “Incastra la Germania”, ha titolo La Verità. E’ un po’ come se Draghi avesse fatto scattare in anticipo l’ora legale europea, che ci farà spostare la prossima notte in avanti di 60 minuti le lancette dei nostri orologi. A proposito, non dimenticatevi di farlo e non travestitevi da sovranisti per pigrizia.

            A qualcuno di voi apparirà forse troppo entusiastico, e persino retorico, ma mi sento di condividere ciò che ha scritto sul Dubbio Paolo Delgado riferendo e commentando proprio la conferenza stampa del “capo  di governo del terzo Paese” dell’Unione Europea. Draghi “si candida a succedere non a Giuseppe Conte e forse a Sergio Mattarella ma, almeno sul teatro europeo, ad Angela Merkel”, ormai arrivata per sua stessa scelta al capolinea dopo una così lunga e sostanziale guida. “E da questo angolo visuale -ha insistito Delgado- una certa discontinuità con i premier del passato in effetti la si deve registrare” a vantaggio di Draghi.

            Opposta ma patetica -direi- è la valutazione del solito Marco Travaglio. Che sul suo Fatto Quotidiano ha tonicamente perduto il sonno, che gli procura il presidente del Consiglio, leggendo il sondaggio fresco di anticipazione di Nando Pagnoncelli per il Corriere della Sera. Da cui risulta Conte al 61 per cento del gradimento, “Speranza 41, Meloni 37, Salvini 33, Letta 32, Pd e M5S in crescita, governo 48, Draghi non pervenuto”. E questo alla faccia -ha osservato Travaglio- dei “cazzari” che si rifiutano di rimpiangere l’ex presidente del Consiglio così ferocemente pugnalato alla schiena nell’ultima crisi di governo. Il quale, secondo la vignetta di Vauro Senesi troneggiante proprio oggi sulla prima pagina del Fatto Quotidiano, se ne sarebbe lamentato nell’incontro appena avuto con Enrico Letta. Che a sua volta, pugnalato anche lui a suo tempo, e dalla stessa persona, naturalmente Matteo Renzi, lo avrebbe realisticamente consolato dicendogli che “col tempo ci si abitua” anche con quel pugnale ancora nelle carni.

             Ma come sono spiritosi questi critici, avversari e quant’altro di Mario Draghi, prestatosi come Bruto a cotanta congiura.

 

 

 

 

 

 

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La fastidiosa “anticamera” imposta da Enrico Letta a Matteo Renzi

            Quel “resto in Italia Viva” annunciato da Matteo Renzi in una intervista al Messaggero non va inteso solo nel senso letterale suggerito dalla formulazione della domanda sulla possibilità ch’egli, pur di continuare a guadagnare con viaggi e conferenze all’estero che gli stanno procurando polemiche, lasci il suo nuovo partito. Che improvvisò dopo la formazione del secondo governo di Giuseppe Conte, nel 2019, da lui stesso patrocinato per impedire le elezioni anticipate e la scontata vittoria del centrodestra guidato da un Matteo Salvini alla ricerca dei “pieni poteri”.

          Quel “resto” va inteso anche, o soprattutto, come intenzione di non rientrare nel Pd, ora che alla guida c’è Enrico Letta, pur da lui detronizzato nel 2014 da Palazzo Chigi, e non più Nicola Zingaretti. Che Renzi riteneva ormai a rimorchio dei grillini, in una concezione “strategica”, “strutturale”, “organica” e quant’altro di un’alleanza che il senatore di Scandicci aveva concepito invece solo come momentanea: per evitare o allontanare le elezioni anticipate, non per prepararne un’edizione rafforzata dopo il rinnovo ordinario del Parlamento, nel 2023

         Una certa impazienza o diffidenza per il modo in cui il nuovo segretario del Pd sta scegliendo gli interlocutori con i quali incontrarsi e confrontarsi, da Carlo Calenda a Giuseppe Conte, col quale ha persino prospettato, parlandone poi con i giornalisti, “un’avventura affascinante”, Renzi l’ha dimostrata con queste parole, sempre nell’intervista al Messaggero: “Al momento non è fissato alcun incontro. Non ho alcun problema personale a incontrare Letta. Ci farà sapere lui”.

         Di problemi “personali”, in effetti, Renzi in questi giorni ne ha altri. Quello di scrivere un libro da presentare in Italia -ha rivelato lui stesso- “finito il lockdown” più o meno a rate o a macchie un cui stiamo trascorrendo la Quaresima e potremo trascorrere anche il dopo-Pasqua. O il problema dei controlli sanitari quotidiani che gli sono stati consigliati dai medici dopo che la sua segretaria è risultata contagiata dal Covid 19. Ma resta, eccome, anche il problema politico di un chiarimento col Pd a guida lettiana. Che Renzi ha salutato con interesse, per niente imbarazzato dalla brusca rottura con “l’amico Enrico” esortato a suo tempo a “stare sereno” pur mentre lo stesso Renzi, fresco di elezione a segretario del partito, si preparava a prendergli il posto di presidente del Consiglio non considerandolo “adatto”. E preferendo piuttosto immaginarlo, in una telefonata intercettata con un generale amico della Guardia di Finanza, al Quirinale. Dove però era stato da alcuni mesi confermato Giorgio Napolitano, non ancora stanco del secondo mandato e tentato dalla rinuncia sopraggiunta nel 2015. Intanto i rapporti con Letta si erano rotti con quel campanello del Consiglio dei Ministri scambiato con visibile fastidio e le dimissioni polemiche dell’ormai ex presidente del Consiglio anche da deputato per un esilio dorato a Parigi, insegnante di una prestigiosa scuola di politica.

           C’è chi, per esempio sul Riformista, ha visto nel Pd che sta ridisegnando Enrico Letta addirittura “una pura ridotta democristiana”, ma Renzi non ne sembra convinto. E forse teme che con i grillini il nuovo segretario voglia in fondo zingarettare, diciamo così, sia pure con un altro passo, o con un altro stile del predecessore, in vista delle elezioni amministrative d’autunno per ora, ma di altro successivamente: magari alla luce dei risultati delle corse al Campidoglio e dintorni, diciamo così in senso lato.

 

 

 

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Quella sede galeotta dell’incontro fra Enrico Letta e Giuseppe Conte

             Senza volere scomodare Wlilliam Shakespeare col suo Amleto e quel metodo nella follia che induce a simulare ciò che non c’è e dissimulare ciò che c’è, l’incontro svoltosi fra il novo segretario del Pd Enrico Letta e quello in pectore, o non so dov’altro, del movimento grillino, che è l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ha una curiosa dicotomia.

            Il contenuto dell’incontro è stato tradotto da Conte nell’immagine di “un cantiere” aperto, in cui i due partiti o movimenti si confrontano, dialogano e magari stringono accordi impegnativi di governo ad ogni livello, anche locali in questa lunga vigilia di elezioni amministrative, notoriamente rinviate all’autunno. Da Letta è stato tradotto addirittura in una “affascinante avventura”, che è stata definita “sorprendente” su Repubblica da Stefano Folli, in qualche modo in sintonia con Laura Pellegrini. Che nella sua vignetta firmata, al solito, Ellekappa fa capire sullo stesso giornale che avrebbe preferito morire prima di dovere sentir dire e vedere che il Pd è “l’interlocutore privilegiato dei 5Stelle”, come del resto pensava anche Nicola Zingaretti, il predecessore dell’attuale segretario chissà perché, a questo punto, dimessosi per la “vergogna” procuratagli dal poltronismo delle correnti. Alle quali poteva bastare e avanzare che egli cominciasse davvero a prescrivere e fare rispettare una certa dieta, senza fare tanto chiasso e aggravare con la sua protesta l’immagine del partito.

            Tuttavia il luogo che Letta ha scelto per incontrare Conte, di fronte alla storica Basilica romana di Sant’Andrea della Valle, fra l’altro famosa per essere stata immaginata da Giacomo Puccini nel primo atto della sua Tosca, è il più distante politicamente dal tipo di operazione che i due hanno indicato con le loro dichiarazioni. E questo non per la bella Chiesa barocca che troneggia sulla piazza, ma per il posto preciso che in un altro edificio di quella piazza Letta -presumo- ha scelto per incontrare Conte: la sede della sua Arel. Dico “sua” perché lì, nell’Agenzia di Ricerche e Legislazione, il segretario del Pd è in qualche modo cresciuto intellettualmente e politicamente al seguito dell’economista e più volte ministro Beniamino Andreatta. Il cui rigore intellettuale e la cui assonanza politica con Aldo Moro mi sembrano francamente di una distanza -ripeto- siderale dal movimento grillino: sia nella versione d’esordio, sia in quelle di segno diverso e contraddittorio emerso dalle alleanze di governo strette prima con la Lega di Matteo Salvini e poi col Pd di Zingaretti, sia infine in quella che Conte elabora faticosamente, a dir poco, maneggiando codici, contratti e quant’altro. E dividendosi fra la professione o l’esperienza forense e la vocazione politica scoperta governando, pur a suo modo, in questa così anomala legislatura.

            Anche Conte, sempre a suo modo, ha più volte fatto professione di moroteismo per affinità geografiche, essendo pugliese, e culturali col compianto statista democristiano così ferocemente sequestrato e poi assassinato dalle brigate rosse. Ma consentitemi di dire -io che l’ho davvero conosciuto e un po’ anche frequentato, diversamente sia da Letta sia da Conte, non foss’altro per ragioni anagrafiche- che Moro avrebbe scambiato i grillini per marziani: lui che pure sapeva scrutare il futuro più di tanti altri ai suoi tempi.

Il figlio di Aldo Moro apre col pensiero del padre al Pd di Enrico Letta

Avevo perso un po’ le tracce -e me ne scuso con l’interessato- di Giovanni Moro, il figlio del presidente della Dc assassinato dalle brigate rosse il 9 maggio 1978 dopo 55 giorni di penosa prigionia e quello sterminio della scorta, in via Fani, che un’esponente delle stesse brigate rosse, ospite di una trasmissione televisiva, avrebbe poi definito con orrore “una macelleria”. Come se non fosse stata macelleria anche quella improvvisata con l’ostaggio nel bagagliaio di quell’auto in cui i suoi aguzzini l’avevano messo per sparagli, inerme, a turno.

Insegnante di sociologia politica alla facoltà di scienze sociali dell’Università Gregoriana di Roma e autore di numerosi saggi sui temi a lui cari della cittadinanza attiva e della qualità della democrazia – che, ahimè, è rimasta “incompiuta” come il padre l’aveva drammaticamente lasciata morendo ucciso a 62 anni, mentre il figlio ne aveva solo 20- Giovanni Moro ha cercato di tenersi sempre lontano dai riflettori, anche nelle tante cerimonie celebrative del padre. Ed io sono rimasto un po’ fermo alle sue immagini di ragazzo, quando lo vedevo camminare con la mano in quella del padre. Che dalla cosiddetta prigione del popolo in cui lo tenevano rinchiuso i terroristi nel loro lungo braccio di ferro con lo Stato, ma ancor più in generale col senso profondo della vita e dell’umanità, aveva in qualche modo consigliato al figlio, forse già attratto allora dalla naturale propensione a seguire le orme del genitore, a tenersi lontano dalla politica che gli era stata così fatale.

Ho pertanto letto con un misto di sorpresa e di emozione l’articolo di Giovanni Moro che sotto forma di lettera, ma sistemato con la dignità di un commento vero e proprio nella pagina delle “idee”,  la Repubblica ha ospitato ieri col titolo felicemente significativo “Le parole che cerco nel Pd”. Al quale Giovanni, pur essendo ancora dichiaratamente “senza partito”, con tanto di virgolette, ha rivolto la sua attenzione non certo a caso “apprezzando i propositi del nuovo segretario” Enrico Letta. Che può ben considerarsene compiaciuto, più ancora -a mio avviso- del cambio al femminile propostosi ai vertici dei gruppi parlamentari, che mi sembra peraltro condiviso da Giovanni Moro con quella doglianza per  le diffuse “resistenze- ha scritto- a prendere sul serio la questione delle donne”. Come anche per “la ritrosia a trattare temi “divisivi connessi ai diritti civili o alla ridefinizione dello status legale della cittadinanza”. Che invece il nuovo segretario del partito ha sollevato nel sostanziale discorso di investitura, pur avendo a mio avviso sbagliato poi, per difendersi e quasi scusarsi di fronte alle critiche, anzi agli attacchi ricevuti all’esterno dal leader della Lega Matteo Salvini, di averne parlato per “soli venti secondi”. Per cui sarebbe stata esagerata tanta reazione negativa.

Il Pd, nato da una fusione “fredda”, diciamo così, fra i resti del Pci e della sinistra democristiana con tracce anche liberali e ambientaliste, attraversa dalla stessa fondazione, per le modalità in cui avvenne, una crisi d’identità in apparenza meno grave ma temo, in realtà, altrettanto grave come quella dell’ancora più improvvisato Movimento 5 Stelle, delle cui regole, vere o presunte, ha difficoltà a venire a capo anche un avvocato civilista e un giurista dell’esperienza accademica di Giuseppe Conte. E’  importante, o quanto meno significativo, il fatto che pur in queste condizioni il Pd riesca ad attirare l’interesse, e forse anche la voglia di parteciparvi, del figlio di Aldo Moro. Sul luogo del cui tragico sequestro, non dimentichiamo neppure questo, lo stesso Enrico Letta ha raccontato di essere stato portato ancora adolescente dal padre avvertendo emotivamente la voglia di fare politica da grande. E cominciò in effetti a farla nel liceo di Pisa dove studiava.

Poi, datosi alla politica completamente, egli crebbe alla scuola -guarda caso- di un moroteo come Beniamino Andreatta. Che Moro ai suoi tempi di governo usava sempre consultare prima di prendere decisioni in materia economica, anche senza seguirne sempre e necessariamente le indicazioni perché Andreatta abitualmente preferiva le soluzioni nette ai compromessi, cui invece Moro era obbligato dal carattere sempre composito delle sue maggioranze.

Nella sua analisi dei mali della politica –“l’abuso delle risorse pubbliche, la personalizzazione della leadership, la sostituzione della comunicazione alla stessa politica, il primato delle dinamiche interne ai gruppi dirigenti, la passione per le ormai famose poltrone”- il figlio di Moro li ha in qualche modo ricondotti tutti, o almeno in parte, a quelli già avvertiti dal padre negli “anni 70”. Le cui ansie di cambiamento “i gruppi dirigenti provenienti dal Pci e dalla sinistra democristiana” hanno rimosso “dimostrando nei fatti una piena continuità di cui dovrebbero invece preoccuparsi”, perché con “la scorciatoia di unire due debolezze” si riesce “raramente” a fare “una forza”. Sembra di leggere Aldo Moro.

 

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Ma quanto sono spiritosi questi giornali che inseguono i politici….

            Giustamente, per carità, ci lamentiamo spesso del livello al quale è sceso il dibattito o confronto -come si dice con più finezza- fra i politici. Che se ne dicono, e spesso se ne danno pure di tutti i colori nelle aule parlamentari. E’ ancora fresca di stampa quella “troia” gridata sui giornali da un leghista -se non ricordo male- ad una collega appena passata ad un altro partito. Ma anche noi giornalisti, non ancora soddisfatti di quante copie abbiamo lasciato perdere ai nostri giornali, appunto, facendoli semplicemente male, e qualche volta provocandone anche la chiusura, non scherziamo nella corsa con i politici a chi la spara più grossa o sporca, pensando a volte di essere persino spiritosi.

            Mi permetto di segnalare la Letizia Moratti -la “sventurata”, mi verrebbe da dire, lasciatasi manzonianamente convincere dagli amici milanesi ad accettare la proposta di fare l’assessora e la vice presidente della regione Lombardia in tempi di pandemia- offerta oggi dal Fatto Quotidiano ai suoi lettori in prima pagina con la vignetta di Riccardo Mannelli. Che le dà della “Moratti sua”, traducibile a vista o a orecchio in “mortacci sua”. Ma, non bastandogli l’ironia del vignettista, Marco Travaglio nel suo editoriale-direttoriale ha storpiato il nome della Moratti da Letizia a Mestizia. Bel colpo. E meno male che questo campione della spiritosaggine non è finito a dirigere qualche ufficio anagrafico perché vi lascio immaginare che cosa avrebbe combinato negli atti di nascita e nella confezione delle carte d’identità.

            Nello stesso editoriale-direttoriale del medesimo giornale troviamo oggi Guido Bertolaso, notoriamente poco gradito da quelle parti, degradato a Disguido e il presidente della regione lombarda Attilio Fontana, neppure lui molto gradito, generosamente promosso ad Artiglio.

            Credo che abbia proprio ragione Piero Sansonetti sul Riformista, ovviamente per nulla apprezzato dal Fatto e ricambiato, a chiedere “Marco, sei impazzito?”. Ma non per il numero di giornale che quello stava chiudendo mentre Sansonetti scriveva, bensì per quello già uscito, in cui al direttore purtroppo, per lui, non più giovane del Giornale Alessandro Sallusti era stato dato del “bambino ritardato”, riuscendo a fare un torto all’uno e all’altro.

            Non meno sconfortante è la presunta ironia di Libero. Che in prima pagina ha tradotto le critiche di un giornale tedesco all’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al perdurante ministro della Sanità Roberto Speranza per la gestione della pandemia in una vignetta colorata in cui l’uno e l’altro sono seduti, in vigilanza o raccoglimento processuale, su una bara. Mah. Di questi tempi, poi…..

 

 

 

 

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Morra di nome e di fatto, a sua insaputa, alle prese con i vaccini

              Per una volta Nicola Morra, presidente della commissione parlamentare antimafia di ormai vecchia e forse anche abusata pratica, perché ogni volta che se ne rinnova la legge istitutiva sorgono polemiche sulla sua attualità, visto che della mafia si occupa così abbondantemente la magistratura, ha preso sul serio a sua insaputa il proprio cognome. Che equivale, secondo il dizionario della lingua italiana, ad un “antichissimo gioco d’azzardo”. Al quale, in qualche modo, Morra e la scorta -cui egli ha ordinato o non ha impedito di “identificare” alcuni presenti alla “ispezione” improvvisata in una struttura sanitaria di Cosenza, suo collegio elettorale- si sono esercitati scommettendo su non so quale violazione di leggi, regolamenti o altro nella selezione delle persone da vaccinare. E Dio solo sa -per carità- quante sono quelle che vorrebbero immunizzarsi dal Covid 19 e non ci riescono, non solo a Cosenza o, più regionalmente, in Calabria.

            Ma l’”ispezione”, sempre con le virgolette, risulta un po’ meno generale e imparzale, o più mirata dal racconto fatto dal direttore della struttura, Mario Marino. Che ha raccontato a un cronista: “Ma quali comuni cittadini? Ci ha forniti i nomi e le date di nascita di questi parenti over 80, un uomo del 1923 e una donna del 1937. E quando non li ha trovati sulla lista ha fatto il pazzo”, chiamando peraltro al telefono il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri, collega o ex collega di partito perché nel frattempo Morra risulta espulso dal movimento grillino per avere negato la fiducia al governo Draghi. Una telefonata che potrebbe avere contribuito a far salire la pressione del sangue al funzionario, sino a farlo sentire male, per fortuna non tanto perché l’interessato ha già annunciato che andrà in commissariato a denunciare l’accaduto.

            La vicenda è naturalmente finita sulle prime pagine di molti giornali con titoli, corsivi e notizie sulle reazioni politiche, molte delle quali ovviamente finalizzate a far dimettere Morra dalla presidenza della commissione antimafia, d’altronde già contestagli in questa legislatura dalle opposizioni di turno per i modi in cui viene esercitata. Molti giornali, dicevo, ma casualmente -per carità- non Il Fatto Quotidiano, al quale Morra sospetto che piaccia politicamente per avere dissentito dalla gestione e conclusione dell’ultima crisi di governo, criticate anche dal giornale diretto da Marco Travaglio, sino a procurarsi o a rischiare l’espulsione, non avventurandomi a valutare sviluppi ed esiti del ricorso cui penso che anche Morra abbia proceduto. Neppure “la cattiveria” di giornata gli è stata dedicata per cercare di indorare con l’ironia una critica o qualcosa che le potesse assomigliare, essendo stati preferiti come “cattivi” due renziani pur tornati nel Pd, forse per dare una mano al capogruppo a rischio di sostituzione per motivi di genere.  

            La vicenda di Morra è stata invece trattata dal Fatto in terza pagina con una breve ma tutto sommata circostanziata cronaca, debbo riconoscere. Tuttavia nel titolo, o in quella parte che tecnicamente si chiama “occhiello”, c’è un di più, diciamo così, che fa la differenza. “Attaccato con falsità”, è scritto a proposito di Morra, a dispetto di tutte le apparenze, a dir poco. E le apparenze nella cultura non proprio garantista dei grillini d’antan, come Morra andrebbe considerato, dovrebbero avere la loro importanza.

 

 

 

 

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