La corsa veloce e allegra, ma non troppo, di Enrico Letta alla segreteria del Pd

             Ha quanto meno un aspetto divertente -pur nel contesto della situazione assai critica, se non drammatica, in cui Nicola Zingaretti ha messo il Pd accompagnando le dimissioni da segretario con giudizi abrasivi sulla sua classe dirigente, quasi da causa per danni- la corsa di Enrico Letta al vertice di un partito di cui è stato vice segretario ai tempi ormai lontani di Pier Luigi Bersani. Vignettisti, umoristi e quant’altri si sono letteralmente scatenati rinverdendo in qualche modo le sue passate disavventure con Matteo Renzi, immortalate in quella foto della campanella di Palazzo Chigi che l’uno passò all’altro con umore nero, a dir poco, per il tipo di “serenità” che gli era stata garantita prima del licenziamento.

            Pur partecipe col suo vignettista alla gara dello sfottò, coerente del resto con l’appoggio entusiastico fornito a suo tempo all’arrivo a Palazzo Chigi di Matteo Renzi, ancora fresco di elezione a segretario del partito e nelle fasce del famoso “royal baby” di Silvio Berlusconi, Il Foglio di Giuliano Ferrara e ora anche di Claudio Cerasa, suo successore alla direzione, dà tutto per fatto. Addirittura con un “plebiscito” che domenica nell’Assemblea Nazionale assegnerà ad Enrico Letta, appunto, la carica di segretario e a Roberta Pinotti la vice segreteria.

            Starebbe dunque per finire il mezzo esilio pur dorato a Parigi dell’ex presidente del Consiglio delle ex “larghe intese” del 2013, dimessosi persino da deputato dopo quell’esperienza per andare ad insegnare politica in Francia, destinando ai soli giorni festivi la sua residenza romana a Testaccio. Il condizionale è d’obbligo, nonostante la certezza del Foglio, perché la margherita -al minucolo, essendo quella con la maiuscola sciolta da tempo per la confluenza nel Pd- non è stata ancora sfogliata del tutto: né da chi dovrebbe eleggere Letta né dallo stesso Letta. Che, per quanto abbia conservato il Pd “nel cuore”, come troverete scritto su tutti i giornali, conosce bene i suoi polli e sa bene che non può fidarsene del tutto, neppure o specie nel nuovo quadro politico e istituzionale -aggiungerei- creatosi in Italia con la formazione del governo di Mario Draghi.

            Non dico -come gli attribuisce forse un po’ troppo velenosamente La Verità di Maurizio Belpietro- che il candidato alla successione a Zingaretti voglia addirittura la garanzia di salire l’anno prossimo al Quirinale non come segretario del Pd in un giro, per esempio, di consultazioni politiche, bensì come nuovo presidente della Repubblica. Ma quanto meno egli vorrà accertarsi ben bene di diventare davvero il nuovo segretario. E non un reggente travestito da segretario -reggente “di Letta e di governo” come lo sfottono sul manifesto- essendo ancora in molti, forse in troppi, a reclamare un congresso anticipato per chiarire bene linea e obbiettivi del partito, specie ora che è bastato l’annuncio di un Movimento 5 Stelle possibilmente rifondato da Giuseppe Conte per affondare nei sondaggi il Pd.

            Va bene essere ambiziosi e persino generosi, in politica poi, ma forse c’è un limite a tutto, specie per un uomo  come Enrico Letta che ha peraltro provato sulla sua pelle che cosa significhi abbassare la guardia.

 

 

 

 

 

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Quello stile tutto moroteo di Sergio Mattarella nelle foto e nei silenzi

Sospetto che Sergio Mattarella, di famiglia notoriamente morotea quali furono il padre Bernardo e il fratello Pier Santi, abbia ereditato da Aldo Moro anche la predilezione per le foto. Dalle quali spesso lo statista democristiano così barbaramente ucciso nel 1978 dalle brigate rosse si lasciava rappresentare più che dai discorsi, dalle interviste o dalle note affidate ai suoi collaboratori.

Mattarella, da qualche settimana entrato nelle perfide allusioni di costituzionalisti, politologi, editorialisti e retroscenisti spiazzati dalla forte decisione da lui presa, al termine di una lunga, ambigua e inconcludente crisi di governo, di mandare a Palazzo Chigi  Mario Draghi per una soluzione che fosse anche una svolta, al punto in cui erano arrivati i rapporti fra i partiti, ha voluto vaccinarsi nel modo clamorosamente più semplice, ordinario e al tempo stesso sorprendente. Si è presentato all’ospedale Spallanzani di Roma, ha atteso pazientemente il suo turno assieme agli altri e se n’è andato senza scomodare nessuno.

Quest’uomo, questo presidente della Repubblica sarebbe -pensate un po’- lo stesso che secondo Gustavo Zagbrebelsky, non certo l’ultimo costituzionalista fermato per strada a commentarne le scelte, avrebbe fatto calare “la democrazia dall’alto”, anziché farla salire “dal basso”, facendo fare il governo a Draghi. Sarebbe il presidente al quale, secondo il politologo Piero Ignazi su Domani,  l’ancora segretario del Pd Nicola Zingaretti avrebbe dovuto dire alto e forte il suo no alla rimozione di Giuseppe Conte. Che sarebbe pertanto avvenuta in modo un po’ troppo sbrigativo, se non autoritario. Sarebbe il presidente, secondo l’ultima vignetta del Fatto Quotidiano, che avrebbe promosso Draghi a “salvatore della Patria” senza prima verificare il gradimento degli italiani, evidentemente mandandoli alle urne con le mascherine. Sarebbe magari anche il presidente  rinfrancato dalla chiamata di un generale di Corpo d’Armata alla guida della lotta al Covid, con le vaccinazioni e tutto il resto.

Ci vuole della fantasia, oltre che della disinvoltura, per travestire il prossimo così. E uso il travestimento anch’esso pensando a Moro e a ciò ch’egli disse alla delegazione della sua ex corrente dorotea, della Dc, che era andata a casa a informarlo nel 1971 della decisione presa di candidare al Quirinale, fallita la corsa di Amintore Fanfani, il senatore Giovanni Leone anziché lui, in qualche modo danneggiato politicamente dallo scontato appoggio che avrebbe ricevuto dai comunisti. “Mi avete messo addosso un abito che non è il mio”, rispose laconicamente Moro. Qualche giorno prima in Transatlantico, alla Camera, proprio il comunista Giorgio Amendola aveva dichiarato: “In tanti democristiani sono venuti o hanno mandato a chiedere i nostri voti: tutti, fuorché Moro”.

Ebbene, di Moro estromesso dagli amici dorotei da Palazzo Chigi dopo le elezioni ordinarie del 1968, pur chiusesi con guadagni per la Dc dopo quattro anni e mezzo di ininterrotta alleanza di governo col Psi di Pietro Nenni, tutti si chiedevano in quell’estate se e come avrebbe reagito all’offensiva dei colleghi di partito.

Incaricati dai nostri rispettivi giornali, Paese sera e Momento sera, di seguire Moro nel suo ritiro di Terracina per carpirgli qualche proposito, vedere con chi si incontrasse e capire cosa bollisse nella pentola del Consiglio Nazionale scudocrociato, convocato per l’autunno dopo la formazione del secondo governo “balneare” di Giovanni Leone, Guido Quaranta e io rimanemmo sorpresi dalla vacanza ordinarissima dell’ex presidente del Consiglio. Che ogni mattina raggiungeva a piedi la famiglia sulla spiaggia vestito di tutto punto, in abito e cravatta, giocava con le bambine, sedeva sulla sdraio e passeggiava ogni tanto sul lungomare, seguito a piedi dalla scorta col fedelissimo Leonardi. Al quale non riuscimmo a strappare né un consenso ad avvicinarlo né una mezza parola di risposta alle nostre domande sulle abitudini del presidente.

Alla fine dovemmo tornarcene a Roma senza uno straccio di notizia e riferire ai nostri direttori che Moro se ne stava tranquillissimo con la famiglia, lasciandoci liberi solo di interpretare i suoi silenzi. Concorrenti ma anche amici, ci scambiammo le reazioni dei nostri giornali, ugualmente incredule. Intervennero in nostro soccorso dopo qualche giorno le foto di un reporter su Moro a Terracina, solo e sfidante il caldo con i suoi abiti. Ce ne fu anche una con lui in accappatoio accanto alla moglie: posa che c’era sfuggita, o cui Moro s’era concesso solo dopo non averci più visti a distanza, diavolo di un uomo.

Seppi che ebbe migliore fortuna di noi dopo qualche settimana Francesco Cossiga. Dal quale Moro si lasciò accompagnare in qualche passeggiata sul lungomare anticipandogli la decisione di uscire dalla corrente dorotea per formarne una tutta sua e passare all’opposizione interna del partito, dove aumentavano le cose su cui discutere: la contestazione giovanile, la rivolta comunista di Praga repressa dai carri armati sovietici, l’autunno sindacale.

 

 

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it  il 14 marzo

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