Salvini cerca maldestramente di mettere Enrico Letta contro Mario Draghi

               Può essere comprensibile -conoscendo i problemi di linea che ha partecipando ad un governo anche col Pd, oltre che con i ritrovati alleati, per diversi aspetti, di Forza Italia e 5 Stelle- il fastidio politico e forse anche fisico del leader leghista Matteo Salvini per i temi del voto ai sedicenni e soprattutto della cittadinanza agli immigrati riproposti da Enrico Letta nel discorso che gli ha procurato l’elezione alla quasi unanimità al vertice del partito del Nazareno.

            Già costretto dagli oggettivi cambiamenti solidaristici intervenuti nell’Unione Europea con le varie emergenze provocate dalla pandemia, dalla pressione esercitata nel suo partito da Giancarlo Giorgetti e dall’elettorato del Nord produttivo ad annacquare, quanto meno, il cosiddetto sovranismo anticomunitario cavalcato nella campagna elettorale del 2018, e fruttatogli peraltro il sorpasso su Forza Italia con la conseguente assunzione della leadership del centrodestra, Salvini ha obbiettive difficoltà ad aggiornarsi, diciamo così, anche sui problemi sollevati dal nuovo segretario del Pd. Che egli considera né urgenti né condivisibili, anche se molti dei suoi elettori, specie al Nord, faticano a capire perché  i compagni scuola con i quali i loro figli giocano e parlano in italiano, spesso pure in dialetto, non abbiano il diritto di aspirare alla cittadinanza italiana solo perché nati da immigrati.

            Mah, vedremo di quanto altro tempo avrà bisogno Salvini per riflettere meglio o di più su questo problema. Ma egli commette comunque un errore politico a coinvolgere il governo di Mario Draghi in questo tema accusando Letta di averne praticamente compromesso la stabilità, cioè la sopravvivenza, nel momento in cui ha sollevato o riproposto la questione. Non va infatti dimenticato che questa del cosiddetto ius soli, che sarebbe meglio comunque chiamare ius culturae, com’è perché la cittadinanza è collegata all’integrazione culturale, appunto, e non solo al posto in cui si nasce, è una vecchia istanza del Pd e, più in generale, della sinistra.

            Più che Enrico Letta nel sollevarlo, o risollevarlo, è Salvini a coinvolgere nel problema il governo sentendolo minacciato dal nuovo segretario del Pd, e dimenticando che il tema non è stato minimamente toccato nel programma esposto alle Camere dal nuovo presidente del Consiglio, per cui è stato lasciato alla sola valutazione o dialettica parlamentare.

            E’ lui insomma, Salvini, a pestare in qualche modo i piedi a Mario Draghi, più o prima ancora del nuovo segretario del Pd. E lo fa in un momento assai delicato, anzi difficile per il governo a causa delle complicazioni -vogliamo chiamarle almeno così?- sorte sulla strada delle emergenze dalle quali esso è nato, dopo i limiti dimostrati dal secondo governo di Giuseppe Conte. Che ora è alle prese esclusive o assorbenti -secondo me fortunatamente anche per le sorti della nuova segreteria del Pd- non più con quelle emergenze ma col caos del movimento di cui Beppe Grillo gli ha consegnato le chiavi. Chiavi tuttavia -tanto perché il caos resti tale, se non per aggravarlo ulteriormente- nuove e perciò non adatte ad aprire le vecchie serrature. Delle quali non a caso l’ex presidente del Consiglio si è riservato di studiare e verificare gli ingranaggi, forse scoprendoli più rovinati del previsto, se mai sono stati davvero in ordine.  

 

 

 

 

 

 

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Eppure un terzo del Pd è indifferente al cambiamento del segretario

Senza volere entrare nel contenuto del discorso programmatico e, insieme, di insediamento  pronunciato da Enrico Letta all’Assemblea Nazionale, preferendo attenderlo alla prova dei fatti, a cominciare dal “nuovo Pd” che egli ha promesso, consentitemi di soffermarmi su un sondaggio della Demos effettuato per la Repubblica, alla vigilia della scelta del nuovo segretario, fra gli elettori del Pd, comprensivi -credo-dei militanti.

A candidatura praticamente già annunciata di Letta, sbarcato l’11 marzo a Fiumicino da Parigi dopo giorni di corteggiamento telefonico aperto dal segretario uscente e dimissionario, 23 persone su cento preferivano ancora una conferma di Nicola Zingaretti, per quanto sapessero della dichiarata irreversibilità delle sue dimissioni. Diciotto risultavano preferire già Letta, 12 Dario Franceschini, 6 Stefano Bonaccini, il presidente della regione Emilia-Bologna contro la cui potenziale candidatura in un congresso anticipato si era forse mosso Zingaretti prendendolo di contropiede, 13 per altri. Ventotto, cioè la maggioranza relativa, risultavano sostanzialmente indifferenti, dividendosi tra il “non sa” e “non risponde”, nonostante il clima di emergenza creato, volente o nolente, da Zingaretti dimettendosi per denunciare, anzi per “vergognarsi” delle condizioni di un partito diviso in correnti solo per spartirsi poltrone e sgabelli.

Ecco, una maggioranza di indifferenti è quella che, a mio avviso, segna di più la crisi del Pd e costituisce la realtà che più deve temere il nuovo segretario. Che, d’altronde, ha mostrato di esserne consapevole, pur non conoscendo ancora il risultato del sondaggio di Demos, quando dal suo quartiere di Testaccio è andato al vicino Ghetto per richiamarsi al recente monito della senatrice a vita Liliana Segre a non cadere nella tentazione dell’indifferenza, appunto.

Capisco il pudore politico, diciamo così, del cattolico e post-democristiano Enrico Letta nel richiamarsi alla celebre superstite della Shoah piuttosto che ad Antonio Gramsci. Che ben prima della senatrice Segre, nel lontano 1917, aveva gridato dalle sponde comuniste il suo “odio” per gli indifferenti.

Alle radici comuniste, e non solo democristiane, del Pd di cui si accingeva ad assumere la guida Enrico Letta aveva forse già deciso, e preferito, dare un riconoscimento  nel suo discorso da candidato alla segreteria, e di scontato nuovo segretario, col ricordo di Enrico -pure lui- Berlinguer. Che è rimasto nel cuore della componente post-comunista del Pd e che fu certamente il teorizzatore del “compromesso storico” con la Dc, e l’ultimo interlocutore di Aldo Moro sino al tragico sequestro dello statista democristiano, ma prima del ritorno all’alternativa addirittura “morale” allo scudocrociato.

Da avveduto e colto politico, nel contrasto alla indifferenza Letta ha preferito la senatrice Segre a Gramsci per non esagerare nella valutazione o rivalutazione della parte o dell’anima comunista o post-comunista di quel partito complesso come il Pd, su cui pesa come una maledizione il giudizio che ne diede subito, alle prime difficoltà, uno spietato Massimo D’Alema parlandone come di “un amalgama mal riuscito”. Di cui hanno fatto le spese già sette segretari in meno di 14 anni.

A complicare i problemi di un partito già frutto della fusione più o meno fredda fra i resti di due formazioni politiche a lungo contrapposte, e non solo concorrenti, come lo furono invece nella breve pausa o tregua della già accennata “solidarietà nazionale”, all’epoca del terzo e quarto governo di Giulio Andreotti, entrambi monocolori democristiani appoggiati esternamente dal Pci, fra il 1976 e il mese di gennaio del 1979; a complicare, dicevo, i problemi del Pd sono intervenuti dall’estate del 2019 i rapporti di alleanza col MoVimento 5 Stelle. Il cui esordio parlamentare nel 2013 fu salutato dall’allora vice segretario del Pd Enrico Letta con enorme preoccupazione, diversamente dalle aperture o speranze del segretario del partito Pier Luigi Bersani. Che si incaponì sino a tentare la formazione del famoso “governo di minoranza e combattimento”, fallita non so ancora, francamente, se più per la immaturità dei pentastellati, recentemente lamentata dallo stesso Bersani, o per la fermezza dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano.

Fu quest’ultimo, una volta rieletto al Quirinale per il naufragio delle candidature di Franco Marini e di Romano Prodi, a togliere a Bersani l’incarico, anzi il pre-incarico, di presidente del Consiglio e ad aprire la strada al governo di Enrico Letta. Che nacque di “larghe intese” con Silvio Berlusconi poi ristrettesi ai “diversamente berlusconiani” di Angelino Alfano, una volta rimosso dal Senato e spinto il Cavaliere all’opposizione per la condanna definitiva per frode fiscale. Sopraggiunse infine la ruspa del rottamatore e quant’altro Matteo Renzi. Che in quell’operazione fu aiutato proprio da Berlusconi, ricevuto in pompa magna al Nazareno come interlocutore privilegiato sul terreno delle riforme costituzionali ,ma alla fine perso per strada nell’operazione Mattarella al Quirinale.

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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