Una rifondazione tira l’altra: dalle 5 Stelle al Partito Democratico

            Per valutare e pronosticare gli effetti sul Pd dell’operazione Conte, innescata da Beppe Grillo sotto le 5 Stelle e davanti ai fori imperiali di Roma, Arturo Parisi – 80 anni portati militarmente, sardo di adozione talmente ben riuscita da parlare un sassarese ancora più stretto del compianto e amico Francesco Cossiga ma cresciuto politicamente con l’emiliano Romano Prodi, diventandone prima sottosegretario a Palazzo Chigi e poi ministro della Difesa- non ha avuto bisogno di aspettare il sondaggio immediatamente commissionato da la 7. Da cui risulta il Pd retrocedere di quattro punti e il riformando movimento grillino salire di sei.

           Intervistato dal Dubbio già prima di questo sondaggio, il buon Parisi osservava che “il patto con i 5 Stelle”, o come decideranno di chiamarsi i grillini al termine del loro processo di dichiarata rifondazione, “si sta dissolvendo sotto i nostri occhi”. Esso “ha perso per strada proprio Conte, fino all’altro ieri venduto come federatore super partes e ora diventato capo partito che, nella logica della competizione proporzionale, è destinato a diventare il concorrente forse più insidioso del Pd”, ha avvertito Parisi.

            Neppure Goffredo Bettini, dal quale forse Zingaretti si è lasciato trascinare sulla strada del rapporto “strutturale” con i grillini pur dolendosi in qualche momento del ruolo presosi dall’amico da solo, senza che glielo avesse assegnato nessuno nel partito, penso che possa decentemente uscire indenne da un confronto diretto con Parisi. E infatti, giurateci pure, non lo cercherà neppure. Preferirà piuttosto continuare a dare i suoi strani consigli a Zingaretti per riconquistarlo, per esempio, all’idea di un congresso anticipato e chiarificatore del Pd. Che il segretario invece prima è sembrato volere fiduciosamente accogliere e poi, consapevole evidentemente di poterci rimettere la testa, ha cominciato a osteggiare ricordando ai suoi interlocutori le norme statutarie che gli permettono di arrivare alle “primarie” fra due anni. Durante i quali potrebbe anche capitargli la “fortuna”, a questo punto, di gestire da segretario un turno anticipato di elezioni nel 2022 e farsi le liste su misura per uscirne con un Pd malmesso sì, ma provvisto di gruppi parlamentari più sicuri di quelli ricevuti in eredità nel 2018 dall’odiato e poi scissionista Matteo Renzi. In certe circostanze, del resto, basta sapersi accontentare.

            Bisogna tuttavia vedere se nel partito, a cominciare dall’Assemblea Nazionale già convocata per metà marzo, consentiranno a Zingaretti questo piano, diciamo così, di galleggiamento in una fase politica durante la quale peraltro crescono la visibilità e anche una certa agibilità del centrodestra, per quanto diviso tra leghisti e forzisti al governo e “fratelli d’Italia” all’opposizione. Ma uniti, gli uni e gli altri, nell’esultare o assegnarsi, per esempio, la vittoria nella rimozione di Domenico Arcuri da commissario straordinario per l’emergenza Covid, sostituito dal generale di Corpo d’Armata Francesco Paolo Figliuolo. E ditemi voi se non basta e avanza questo passaggio per avvertire il cambiamento in corso col governo di Mario Draghi.

            Il fatto è che, forse pur a sua insaputa e a dispetto di quella fisica che gli misurano per finta o davvero, la febbre politica del segretario del Pd sta salendo, come quella del suo partito più in generale. E una rifondazione potrebbe tirare appresso un’altra: dai 5 Stelle al Pd, appunto.

 

 

 

 

 

 

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Dalla nuova prescrizione alla bonifica del Ministero della Giustizia

Marta Cartabia, la nuova ministra della Giustizia, e al diavolo chi sostiene che se ne debba scrivere come del ministro, al maschile, è giustamente attesa alla prova, anche dagli estimatori, col problema spinosissimo della prescrizione. Che la guardasigilli ha già avuto il merito di sottrarre allo strumento, o all’arma assai impropria del decreto legge delle “mille proroghe”, cui i sostenitori di una modifica garantista ed equilibrata erano stati costretti a ricorrere dal predecessore Alfonso Bonafede. Costretti, perché il convoglio più attrezzato era ed è quello del disegno di legge di riforma del processo penale, tuttavia reso praticamente inagibile da Bonafede perché messo sul binario nemmeno di un accelerato, ma di un omnibus. Se ancora ne esistono in circolazione, esso si ferma ad ogni stazione e sfinisce i viaggiatori anche più pazienti.

A rallentarne ulteriormente il viaggio si era messa anche la pandemia, o il pretestuoso uso fattone dagli interessati a lasciare il più a lungo possibile in vigore la norma attuale. Che, introdotta come una supposta da Bonafede nella legge nota come “spazzacorrotti”, di fatto ha abolito la prescrizione facendola valere sino alla sentenza di primo grado. Emessa la quale, anche per gli assolti il procedimento promosso dall’appello della pubblica accusa potrebbe sulla carta proseguire all’infinito, e l’imputato rimanere tale a vita. Incredibile ma vero, alla faccia della ”ragionevole durata” del processo imposta da una modifica all’articolo 11 della Costituzione introdotta nell’autunno del 1999.

La nuova ministra col prestigio accresciuto da giudice e poi anche presidente della Corte Costituzionale ha fatto scendere i riformatori dal convoglio improprio delle mille proroghe e ha restituito loro l’agibilità vera del convoglio del processo penale, dando anche un supplemento di tempo, sino a fine mese, per la presentazione dei cosiddetti emendamenti. E tutti aspettano ora di vedere come si tradurrà davvero in ragionevole la durata del processo penale rendendo persino superflua la vecchia prescrizione, e pure l’abuso fattone da imputati e anche da uffici giudiziari -perché negarlo?- esercitando a velocità assai discrezionale la cosiddetta, e un pò ipocrita, obbligatorietà dell’azione penale.

Forza, ministra, ci faccia sognare, anche a costo di portare alla disperazione quelli che il buon Carlo Nordio, ormai in pensione, scrivendo di certi suoi colleghi definisce “giacobini”, anziché giustizialisti o manettari, secondo certo linguaggio giornalistico. Ma ci faccia sognare, signora ministra, anche su un altro terreno, che chiamerei di bonifica del dicastero della Giustizia. Dove la presenza dei magistrati è alquanto sproporzionata rispetto all’organico, per quantità e qualità di posti, sino a dare l’impressione -magari a torto, per carità, ma in certe situazioni,  come diceva la buonanima del presidente Sandro Pertini parlando proprio della giustizia, ciò che appare vale più della realtà-  che il Ministero sia praticamente nelle mani delle toghe. Che finiscono spesso per trovarsi in conflitti anche inconsapevoli d’interesse, sia pure con distacchi regolarmente concessi dal Consiglio Superiore della Magistratura. Dove peraltro i togati sono già sufficientemente tutelati dai rapporti numerici con i cosiddetti “laici” nella difesa della loro indipendenza, autonomia e via dicendo, e rivendicando.

Potremmo anche pubblicare l’elenco completo, aggiornato a meno di un mese fa, dei 162 magistrati fuori ruolo, distaccati in buona parte proprio al Ministero della Giustizia, ma non lo facciamo per ragioni di stile, ritenendo anche questo, come altri di cui ci siamo occupati, un problema non di nomi, bensì di metodo.

Dobbiamo dire con tutta onestà che questa storia del Ministero della Giustizia sovraffollato di magistrati, se non da loro occupato, come si dolgono i non magistrati che vi lavorano  e debbono poter fare carriera dopo avere vinto i loro bravi concorsi, è abbastanza vecchia per attribuirne colpe e responsabilità  un po’ a tutti quelli che si sono avvicendati politicamente al vertice del dicastero, tra prima, seconda, terza e quarta Repubblica, se veramente siamo davvero arrivati alla quarta rappresentata in alcune trasmissioni televisive.

Ne sono rimasti vittime più o meno inconsapevoli anche fior di giuristi diventati ministri della Giustizia, come la buonanima di Giuliano Vassalli. Ai cui tempi risale, precisamente all’inizio del 1988, quando egli era guardasigilli del primo e unico governo del democristiano Giovanni Goria,  quella legge sulla responsabilità civile dei magistrati elaborata nell’ufficio legislativo del dicastero, il più affollato abitualmente di toghe, con cui fu praticamente vanificato il risultato positivo di un referendum promosso per fare rispondere davvero dei loro errori anche quanti amministrano la giustizia.

Fu proprio puntando su quello strumento di intervento sostanzialmente demolitorio che il Pci e la sinistra democristiana, allora alla guida della Dc, si schierarono nell’autunno del 1987 nel referendum a favore dello scontato esito positivo, dopo averlo ostacolato in ogni modo nella primavera precedente, sino a provocarne il rinvio col ricorso alle elezioni anticipate.

Quel referendum, già indetto per aprile, era stato lo scoglio, insieme al referendum sull’energia nucleare, contro il quale s’era infranto il secondo governo di Bettino Craxi, sostituito dal sesto e ultimo governo di Amintore Fanfani. Era un monocolore democristiano per la cui bocciatura nell’aula di Montecitorio, propedeutica allo scioglimento anticipato delle Camere, la Dc di Ciriaco De Mita era arrivata ad una clamorosa astensione, vanificando il voto di fiducia accordato dal Psi nel tentativo di salvare legislatura e referendum.

Marta Cartabia a quell’epoca aveva solo 25 anni, beata lei, ancora fresca di laurea con lode in giurisprudenza all’Università di Milano, ma già ben attrezzata per leggere appropriatamente fatti e sottintesi, e ora ricordarsene, alla testa del Ministero di via Arenula, per cambiare registro.

 

 

 

 

 

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