Proteggiamo, per favore, quello scopritore di talenti che è Di Maio

          Lasciatemi esprimere la speranza che quel benedetto Figliuolo del generale di Corpo d’Armata degli alpini da cui tanto dipende la campagna di immunizzazione in corso contro il Covid 19, e varianti, abbia fra i suoi poteri di commissario straordinario anche quello di esonerare da ogni tipo di fila il giovane ministro degli Esteri italiano, di neppure 35 anni, che compirà solo a luglio, e di fargli iniettare le necessarie dosi di un vaccino a sua scelta, preferibilmente però AstraZeneca. Che funzionerebbe anche di promozione, visti gli intoppi pur rimossi e “il ritorno di fiala” felicemente annunciato in prima pagina dal manifesto dopo la pronuncia liberatoria della competente agenzia europea.

            Luigi Di Maio -non off Maio, come lo chiama qualche ambasciatore straniero- merita di essere salvaguardato, garantito, protetto e quant’altro non solo per le sue funzioni di governo -in un momento in cui, oltre alle guerre calde in corso in tanti posti dove sono compromessi anche gli interessi italiani, si rischia di tornare pure alla guerra fredda dei decenni scorsi-  ma per le doti che sta via via rivelando di scopritore di talenti. Sarebbe pericoloso doverne fare a meno per qualche incursione di virus.

            Nei mesi scorsi, quando era ancora a Palazzo Chigi un Giuseppe Conte sicuro del fatto suo, e a modo suo, che dormiva fra due guanciali, dei quali uno era la popolarità attribuitagli dai sondaggi e l’altro la convinzione che s’era fatto della stanchezza, indisponibilità e non so cos’altro di Mario Draghi a succedergli, Di Maio non riuscì a resistere alla tentazione di incontrare l’ex presidente della Banca Centrale Europea. E, anche a costo di aumentare la diffidenza di Conte, non del tutto convinto delle assicurazioni del suo portavoce Rocco Casalino sui propositi e sui progetti inoffensivi dell’ex capo politico del movimento grillino, tenne ad annunciare e spiegare la buona, anzi ottima impressione ricavata da quell’incontro. Draghi, insomma, aveva fatto colpo anche su Di Maio, cui evidentemente non era bastato, per farsene un’idea giusta, ciò che di “SuperMario” si diceva già in tutto il mondo, o almeno in Europa, per averne saputo e voluto peraltro salvare la moneta. Persino Trump oltre Atlantico, ancora imperante alla Casa Bianca, ne aveva apprezzato e invidiato le doti confrontandole col governatore della Banca Centrale americana. 

            Beh, dopo Draghi, intanto approdato felicemente a Palazzo Chigi e sollevato dalla ipotesi di allontanarlo dalla Farnesina per la indisponibilità di Conte a prenderne il posto avendo altro per la testa, Di Maio ha voluto rilasciare il suo certificato di apprezzamento anche a Enrico Letta, subentrato a Nicola Zingaretti alla guida del Pd. Con cui i grillini, o ciò che ne resterà alla fine del caos in cui si dibatte il MoVimento 5 Stelle, dovrebbero stringere secondo Di Maio forti rapporti “non solo elettorali”.

            “Ho sempre lavorato bene con Letta”, ha appena detto Di Maio pur non precisando dove e parlando, appunto, di Enrico e non dello zio Gianni, col quale probabilmente il ministro degli Esteri ha avuto già i suoi abboccamenti. Che gli potrebbero consentire di apprezzarne pubblicamente le doti quando verrà il momento di rivedere a tutti gli effetti i giudizi su Silvio Berlusconi e il berlusconismo, non limitandosi più a sopportarne la comune partecipazione all’avventura politica e istituzionale di Draghi: avventura intesa in senso buono, naturalmente.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it http://www.policymakermag.it

           

La scommessa di Paolo Armaroli sull’effetto Draghi a Palazzo Chigi

Paolo Armaroli ha scritto in cinque mesi due libri dai quali credo che non potranno prescindere gli storici di questa stranissima, diciottesima legislatura. Che tante sorprese ha già riservato nei suoi primi tre anni di vita e chissà quante potrà ancora produrne nei due che le mancano alla scadenza ordinaria, nel 2023, salvo naturalmente uno scioglimento anticipato nell’ultimo anno, dopo il mese di febbraio del 2022. Non prima, perché dalla prossima estate il capo dello Stato Sergio Mattarella entrando nell’ultimo semestre del suo settennato -semestre perciò definito “bianco”- non potrà avvalersi di quell’arma formidabile concessagli dall’articolo 88 della Costituzione. Che dice: “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse”.

“Riflessivo” come un costituzionalista e “curioso” come un giornalista, secondo le qualità riconosciutegli nella prefazione di questo secondo libro da Enzo Cheli, professore di diritto costituzionale, vice presidente emerito della Corte Costituzionale e accademico dei Lincei,  Armaroli ha raccontato, spiegato, persino psicanalizzato in qualche modo la diciottesima legislatura focalizzando il suo binocolo metaforico sul presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Di cui ha scrutato prima i rapporti col presidente del Consiglio Giuseppe Conte -nel libro uscito in ottobre dell’anno scorso col titolo “Conte e Mattarella. Sul palcoscenico e dietro le quinte del Quirinale”- e ora quelli con Mario Draghi. Che, diversamente dal predecessore, non è arrivato a Palazzo Chigi quasi per caso, designato  a sorpresa da grillini e leghisti che se n’erano riservati un controllo politico strettissimo attraverso i vice presidenti del Consiglio, rispettivamente, Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Draghi no, è giunto a Palazzo Chigi su iniziativa diretta, direi personale, di Mattarella a conclusione di una crisi non a torto definita da qualcuno durante la sua lunga gestazione “la più pazza del mondo”: una crisi la cui soluzione, decisa dal capo dello Stato riflettendo e guardandosi “allo   specchio”, come ha felicemente immaginato Armaroli, ha contribuito a segnare come più chiaramente non si poteva “la metamorfosi di una Repubblica”. Che è anche l’azzeccato sottotitolo del libro su cui troneggia, in copertina un “Effetto Draghi”.

Sul rapporto fra Mattarella e Draghi il professore Armaroli ha in qualche modo scommesso per sperare che dall’attuale, terza edizione o “fase” convulsa della Repubblica si passi alla quarta o si torni, se non al meglio della prima, almeno alla seconda. Il cui merito, secondo Armaroli, è stato quello di avere fatto praticare col bipolarismo l’alternanza al governo fra il centrodestra e il centrosinistra, più in particolare fra Silvio Berlusconi e Romano Prodi. Anche se quest’ultimo, quando gli è toccato di andare a Palazzo Chigi ha saputo o potuto restarvi al massimo per due anni, sgambettato dagli alleati nel 1998 e nel 2008.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 21 marzo

Blog su WordPress.com.

Su ↑