Il ritorno alla normalità in bicicletta, e forse anche sul predellino di un’auto

            Non so a voi, ma a me, abituato da ragazzo a seguirne le tappe -allora alla radio, prima dell’arrivo della televisione- e a farmi qualche chilometro di strada a piedi per vederne i partecipanti, e campioni, quando il percorso passava nelle vicinanze di casa, diciamo così, la notizia della conclusione di questa 104.ma edizione del giro ciclistico d’Italia, improvvisamente comparsa su qualche prima pagina di giornale, è stato un po’ il segno di un ritorno alla normalità. O quasi, in questi tempi di pandemia: più ancora di quei “soli” 44 morti e 2949 contagiati di giornata, che sono pure tanti, a pensarci bene.

Il vincitore colombiano del Giro d’Italia

            Di questa edizione del giro d’Italia in bicicletta, vinta dallo sconosciuto -almeno a me- colombiano ventiquattrenne Egan Arley Bernal Gomez, nella speranza di non averne trascritto male il nome, seguito in classifica generale dal “sorprendente” italiano di Ragusa di 33 anni Damiano Caruso, una qualche traccia visiva e acustica, fra notiziari televisivi e radiofonici, mi aveva raggiunto solo in occasione di un omaggio dei corridori in memoria delle 14 vittime della sciagura della funivia del Mottarone, visto il percorso del giro progettato nelle vicinanze. Una sciagura, quella del Mottarone, che giustamente continua ad occupare le prime pagine dei giornali, nelle ultime ore -in verità- più che per lo strazio nel ricordo delle vittime, per la “sorpresa” procurata a tanti improvvisati garantisti, evidentemente, dalle divergenze di vedute e di scelte fra gli uffici dei pubblici ministeri e dei giudici.

Il titolo del Fatto contro Di Maio

            E’ inutile, sotto sotto la maggioranza di questa nostra Italia rimane un po’ manettara, a dispetto del recente ravvedimento di Luigi Di Maio -che ha moltiplicato la confusione già esistente nel suo movimento stellare 5procurandogli la derisione del Fatto Quotidiano, tornato anche oggi a rimproveragli le scuse all’ex sindaco di Lodi assolto- e della scoperta dell’utilità e bellezza dei referendum di Marco Pannella sui temi della giustizia da parte di Matteo Salvini. Il cui partito, la Lega, è pur quello che partecipò nell’aula di Montecitorio -con quel cappio sventolato contro gli inquisiti- alle feste del giustizialismo alimentate ogni giorno dagli arresti o dai soli avvisi di cosiddetta, cioè falsa garanzia sulla cui strada si inseguivano ormai le Procure della Repubblica. Che si guadagnò per questo il giusto soprannome della Repubblica delle Procure, a senso invertito rispetto alla Costituzione in vigore pur dal lontano 1948.

            Ora il neo-garantismo, oltre al neo-europeismo, del partito non più di Umberto Bossi -che pure era diventato di casa ad Arcore dopo un inizio tempestoso dei rapporti di cosiddetta alleanza col padrone della Villa San Martino- ma del suo successore ed ex vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, sembra avere a tal punto convinto Silvio Berlusconi da fargli venire la voglia di unire la sua ormai declinante Forza Italia alla Lega. Ciò consentirebbe peraltro a Salvini di liberarsi dall’incubo del sorpasso, all’interno del centrodestra, da parte dell’arrembante Giorgia Meloni col seguito del Fratelli d’Italia. L’anticipazione, chiamiamola così, è stata fatta sulla sua Verità da Maurizio Belpietro evocando l’avventura, non del tutto felice per il fallimento che ne seguì, del Pdl inteso come partito unico di berlusconiani e finiani. L’operazione fu lanciata dallo stesso Berlusconi sul predellino di un’auto a Milano. Dove tutto in questo Paese sembra politicamente dover nascere, ma anche morire.  

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Il Foglio s’offre al pentito Luigi Di Maio ma un pò ne soffre….

            Non a torto è stata generalmente considerata significativa la scelta del giornale fatta da Luigi Di Maio ancora una volta per lanciare le sue svolte all’interno e all’esterno del MoVimento 5 Stelle: non Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, che ormai lo considera affetto dalla “sindrome di Stoccolma”, ma Il Foglio di Giuliano Ferrara fondatore e Claudio Cerasa direttore, il più lontano dall’altro sui temi della giustizia. Tanto è giustizialista e manettaro il primo quanto è garantista il secondo, cui Di Maio deve avere pensato come al mezzo migliore per annunciare con la maggiore credibilità, e il maggiore aiuto possibile, il ripudio della lunga pratica della gogna dell’avversario politico, cavalcandone anche il più modesto dei problemi giudiziari. Come fu quello, ingigantito in piazza nel 2016, del sindaco di Lodi, il piddino Simone Uggetti, arrestato, costretto alle dimissioni e assolto in appello dopo cinque anni dall’accusa di turbativa d’asta perché “il fatto non sussiste”.

            Il Foglio, che per sua fortuna vive più di citazioni che di copie, più letto nei palazzi che venduto  nelle edicole, ce l’ha messa tutta per soddisfare le attese di Di Maio e ripagarlo della scelta. Quelle due colonne in prima, delle sei su cui si sviluppa il giornale, dedicate alla lettera di scuse di Di Mai a Uggetti e famiglia, con un titolo dipinto di rosso per attirare di più l’attenzione, parlavano da sole venerdì scorso. Come parlava da sola anche l’unica, modesta colonna dedicata il giorno dopo, sempre in prima pagina, ad un’altra lettera sullo stesso tema, scritta questa volta dal leader Matteo Salvini, chiamato in causa da Di Maio come partecipe della “disdicevole gogna” riservata a Uggetti nel contesto di una campagna elettorale amministrativa cui erano interessate vaste zone del Paese, e si giocava quindi una grossa partita.

            Eppure il leader leghista, definito abitualmente “truce” da Giuliano Ferrara e collaboratori, oltre a condividere le scuse chieste da Di Maio, precisando anzi di averlo preceduto con l’interessato senza vantarsene, ha posto sul piatto del dibattito politico una posta ancora più grossa della svolta verbale del ministro degli Esteri: la messa in prova dell’autenticità di questa svolta partecipando alle campagne referendarie in allestimento con i radicali sui temi della giustizia,  utili anche a stimolare i partiti dormienti.

            Eppure la proposta di verifica della svolta di Di Maio avanzata da Salvini, per quanto considerata nella titolazione la metà del valore dell’altra, non mi sembra per niente in contrasto con la prudente e breve risposta di Cerasa ad una lettera di quasi entusiasmo del solito, immancabile Goffredo Bettini sulla sortita del ministro degli Esteri. “E’ una svolta -ha scritto il direttore del Foglio- che dovrà essere misurata sui fatti. E il primo sarà l’approvazione in Parlamento di una riforma che permetta all’Italia di superare la stagione della gogna a vita imboccata due anni fa con la prescrizione modello Bonafede”.

            Non meno prudenti, se non diffidenti, del direttore Cerasa sono stati sul Foglio Carmelo Caruso irridendo, praticamente, sui grillini così disinvoltamente passati “da Robespierre a Cesare Beccaria” e Salvatore Merlo dilungandosi sul tema dell’”arte di scusarsi”, più per “furbizia” che altro. Non so a questo punto se Di Maio stia più stretto o più largo al giornale considerato a lungo come una bandiera del garantismo.

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Il passato manettaro di cui Luigi Di Maio cerca di liberarsi

            Sono state tanto rumorose quanto galeotte le scuse del ministro degli Esteri Luigi Di Maio all’ex sindaco piddino di Lodi, Simone Uggetti, per i cinque anni trascorsi nella gogna, e un po’ anche in galera, per il presunto scandalo delle piscine. Che fu cavalcato in piazza, imitato dal leghista Roberto Calderoli, dallo stesso Di Maio, allora responsabile degli enti locali del MoVimento 5 Stelle. “E’ vera svolta?”, si è chiesto prudentemente sulla Stampa Massimo Panarari.

La vignetta di Makkox

            Anche Uggetti, del resto, appena assolto in appello a Milano dall’accusa di turbativa d’asta, che gli aveva procurato nel 2016 l’arresto e le dimissioni da sindaco, e nel 2018 la condanna in primo grado a 10 mesi, pur col riconoscimento di avere agito nell’”interesse pubblico”, qualche dubbio sulle scuse di Di Maio lo coltiva se le ha accolte con riserva,. “Spero che il ravvedimento sia sincero”, ha detto commentando la lettera inviata al Foglio, e pubblicata con tanto di titolo rosso in prima pagina, dal ministro degli Esteri. Che grazie anche alla durezza praticata come responsabile degli enti locali si era guadagnato poi la promozione a capo politico del movimento grillino cercando di scalare addirittura Palazzo Chigi. Dove dovette rassegnarsi dopo le elezioni politiche del 2018 ad avere un ufficio solo come vice presidente del Consiglio.

            Ora Di Maio non è più capo del Movimento 5 Stelle, o di quel che ne rimane, né vice presidente del Consiglio e pluriministro, come nel primo governo di Giuseppe Conte, ma “soltanto”, si fa per dire, titolare della Farnesina. Dove divide il suo tempo, in realtà, fra due lavori. Uno naturalmente è quello istituzionale di ministro degli Esteri, l’altro è quello meno visibile, più discreto ma forse politicamente più concreto di rimanere in palla, diciamo così, nel movimento affidato pur sulla parola da Beppe Grillo all’ex presidente del Consiglio Conte.

            Distratto, diciamo così, dalle vertenze interne al movimento, che stanno mettendo a dura prova anche le sue competenze professionali di avvocato e professore universitario di diritto, Conte si è fatto precedere -o “spiazzare”, come ha titolato la Repubblica-  da Di Maio in un passaggio importante o significativo come quello delle scuse all’ex sindaco di Lodi, propedeutiche ad una svolta. Egli è riuscito a parlare solo di rimessa, in seconda battuta, per ripetere con Di Maio che “alimentare la gogna mediatica per contrastare gli avversari a fini elettorali contribuisce all’imbarbarimento dello scontro politico”: una pratica del passato alla quale il Movimento 5 Stelle, o come diavolo si potrà o dovrà chiamare dopo la rifondazione in corso nell’abitazione privata di Conte e dintorni, dovrebbe rinunciare. Ma chissà se questa svolta potrà più facilitare o danneggiare la scalata di Conte. Al quale II Fatto con la solita tempestività, e disinvoltura, ha ricordato che Uggetti è “reo confesso”, per quanto assolto perché “il fatto” -quello giudiziario- “non sussiste”.

            C’è tuttavia sotto le stelle anche un dissidente come Stefano Buffagni che ha proposto di offrire a Uggetti quella candidatura comune di Pd e grillini a deputato, inutilmente tentata con Conte, alle elezioni suppletive d’autunno a Siena per la sostituzione del deputato piddino dimissionario ed ex ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan, che ha preferito l’Unicredit alla Camera.  I “locali” del Pd stavolta potrebbero starci per compensare in fondo un compagno di partito che cinque anni fa meritava di essere sostenuto orgogliosamente, come non avvenne.

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Un D’Alema a sorpresa in fase autocritica tra manifesto e vigneti

La partecipazione ad uno degli eventi celebrativi dei 50 anni del manifesto, il “quotidiano comunista” orgogliosamente sopravvissuto sia all’espulsione dei suoi promotori dal Pci sia alla fine dello stesso Pci dopo il crollo del muro di Berlino, ha dato a Massimo D’Alema l’occasione di una tardiva ma pur sempre significativa ammissione autocritica sul versante dei rapporti col Psi. Che fu uno dei temi  del dissenso a sinistra di cui viveva il giornale degli “eretici”. I quali non condividevano la supponenza -chiamiamola come meritava- del Pci verso il Psi persino ai tempi di Francesco De Martino, prima che arrivasse a guidarlo col garofano in mano quell’”intruso” come veniva considerato Bettino Craxi. Di cui infastidì i comunisti anche il fatto che fosse riuscito a strappare alla Dc nei rapporti di alleanza politica ciò che De Martino ammise poi di non avere osato neppure immaginare di poter chiedere: la guida socialista di un governo di coalizione.

            Alla buonanima di Luigi Pintor che nel 1983, scrivendo della voglia di chi militava a sinistra di “non morire democristiani”, esortava i comunisti a cambiare musica col Psi da 7 anni ormai a direzione craxiana, D’Alema ha riconosciuto di avere ragione, e torto lui a “indignarsi” nel leggerlo.

            Ma ciò avvenne anche più avanti, in quelli che Andrea Carugati, sempre sul manifesto, ha definito “gli anni della transizione post-Pci”. Che furono intossicati dai propositi di annessione intravisti, a torto o a ragione, dai comunisti nella prospettiva  dell’”unità socialista” lanciata da Craxi dopo il crollo del muro di Berlino e dalla voglia irrefrenabile, persino scomposta, di difendersene cavalcando le difficoltà giudiziarie, a dir poco, del Psi alle prese con Tangentopoli. Di cui il sindaco non poteva che essere socialista, vista la direzione preferenziale assunta dalle indagini giudiziarie.

Nei rapporti estremamente conflittuali fra i due partiti maggiori della sinistra, in cui Achille Occhetto usò come una clava la “questione morale”, D’Alema ha riconosciuto con gli amici o compagni del manifesto che “i torti non erano tutti di una sola parte”. Ma lui, obiettivamente, quando decise di sostituire Occhetto alla segreteria del Pds-ex Pci non fece gran che per migliorare le cose. Gli venne addirittura attribuita una volta, a commento di uno dei tanti tentativi dei socialisti di tornare con le proprie forze in Parlamento, la battuta che non bisognasse fargliene tornare la voglia o l’abitudine.

            Magari non sarà stata vera, come tante altre battute al vetriolo attribuite a D’Alema e da lui smentite, a cominciare dalla liquidazione di Romano Prodi e Walter Veltroni come “flaccidi imbroglioni”, ma molti la presero almeno per verosimile conoscendo gli umori dell’uomo.  

            Il fatto è che, a parte gli “eretici” del manifesto all’esterno, per molto tempo gli unici fra i comunisti e post-comunisti a consentirsi un linguaggio e uno stile non esasperato nei rapporti con i socialisti furono i cosiddetti “miglioristi”. Che anche per questo erano considerati la minoranza d’obbligo del partito, non qualificata a guidarlo neppure quando, caduto il comunismo, furono cambiati nome e simbolo della formazione politica.

Il titolo dell’intervista a 7 del Corriere della Sera fra i suoi vigneti

  Lo stesso arrivo del migliorista Giorgio Napolitano al Quirinale nel 2006 avvenne per decisione più esterna che interna ai democratici di sinistra, per impedire che vi giungesse proprio D’Alema, al quale sembrò ad un certo punto che fosse disposto a dare una mano persino Silvio Berlusconi, consigliato in quella direzione da Giuliano Ferrara ma sottrattosi alla tentazione all’ultimo momento con una telefonata di spiegazione al “caro Massimo”. Tuttavia – un po’ diversamente da come l’ha appena raccontata lo stesso D’Alema in una intervista a Tommaso Labate per il supplemento 7 del Corriere della Sera- a impedirne la candidatura fu di fatto l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini muovendosi fra i moderati per spianare la strada appunto a Napolitano. Che da presidente della Repubblica non smentì quella specie di sensibilità diversa nei riguardi dei socialisti manifestata già nel 1976, quando si avviò l’esperienza della cosiddetta solidarietà nazionale e lui non condivise la condizione posta dal Pci per aderirvi: che il governo da appoggiare, senza potervi partecipare, fosse “monocolore” democristiano, per escludervi i socialisti prima di tutti gli altri ex alleati dello scudo crociato.

            Fu con Napolitano che nel decimo anniversario della morte di Bettino Craxi ad Hammamet partì dal Quirinale alla vedova Anna la lettera in cui si riconosceva che l’azione anche giudiziaria contro il leader socialista per la pratica generalizzata del finanziamento illegale della politica fu di una durezza “senza uguali”. D’Alema poco più di dieci anni prima si era limitato a incoraggiare telegraficamente un Craxi appena operato in condizioni disperate firmandosi impersonalmente, con la sola qualifica di presidente del Consiglio.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.policymakermag.it il 30 maggio

La danza che piange e quella che ride e festeggia, fra il teatro e la politica

Luigi Brugnaro e Giovanni Toti

            Se la danza alla quale siamo abituati a pensare di più e meglio, di teatro o palcoscenico, piange per la scomparsa della sua regina indiscussa, Carla Fracci, quella politica, molto meno nobile e apprezzata, sembra addirittura in festa per la nascita dell’ennesima formazione, che si è data come nome, non a caso, un sinonimo della Forza Italia inventata a suo tempo e tuttora presieduta da Silvio Berlusconi. Si chiama, come in un altro grido da stadio, Coraggio Italia e si è potuta costituire in un gruppo di 24 deputati, quattro più del minimo richiesto dal regolamento di Montecitorio, grazie a 11 provenienti appunto da Forza Italia. Dove si sono subito levate voci di protesta, anzi di indignazione, per il tradimento, il trasformismo e quant’altro rappresenterebbe l’iniziativa assunta, in ordine quanto meno alfabetico, dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro e dal governatore della Liguria Giovanni Toti. Che hanno goduto entrambi della simpatia, della fiducia e persino della dipendenza -nel caso di Toti- da Berlusconi. Verso il quale essi si dicono ancora “grati” per il ruolo politico svolto per tanto tempo creando, guidando e poi partecipando ad un centrodestra che molti avevano auspicato e nessuno aveva saputo realizzare nella cosiddetta “Prima Repubblica”, prima che egli scendesse in campo e sostituisse, praticamente, i vecchi partiti di governo travolti dalla piena di Tangentopoli, o “Mani pulite”. Così fu chiamata la storica indagine giudiziaria cominciata a Milano sul finanziamento illegale della politica e sulla corruzione che spesso -non sempre- l’accompagnò.

Michela Biancofiore
Vignetta del Foglio

            A dispetto delle proteste e dell’indignazione per danze compiute senza la grazia, lo stile, la scuola della scomparsa regina del palcoscenico, la nuova formazione non è nata uscendo dal centrodestra ma per rimanervi, augurabilmente -nei propositi dei promotori- con risultati migliori di quelli che potrebbe garantire da solo o da protagonista Berlusconi, affaticato -a dir poco- da molti problemi, purtroppo anche di salute, più che naturali a 84 anni compiuti a fine settembre, e con tutti gli imprevisti che l’ex presidente del Consiglio ha dovuto fronteggiare, compresi quelli più recenti della pandemia virale. Non sarà stata molto felice, anzi per niente, l’ormai ex fedelissima Michaela Biancofiore dicendo che “lui non c’è più”, ma certamente c’è qualcosa in Forza Italia che appunto “non c’è più” e spinge tanti parlamentari ad uscirne, peraltro dopo che ne sono andati via molti elettori o votando per altri partiti dello stesso schieramento, o oltrepassandone i confini o semplicemente andando a ingrossare, o ingrassare, il partito dell’astensionismo. Ci sarà pur stata qualche carenza di Berlusconi.

            E’ paradossale che le difficoltà del centrodestra, a dir poco, espresse anche col rito delle riunioni incomplete, o rinviate, o eternamente interlocutorie sul tema, per esempio, delle candidature nelle grandi città dove si voterà in ottobre di quest’anno, non del prossimo, esplodano nonostante il ruolo dello stesso centrodestra nella maggioranza di emergenza formatasi attorno al governo di Mario Draghi sia talmente forte ed evidente da aver fatto perdere spesso la testa, e altro ancora, sia al Pd, prima di Nicola Zingaretti e poi di Enrico Letta, sia al MoVimento 5 Stelle. O di quel che ne rimane, di cui l’ex premier Giuseppe Conte non riesce a prendere o assumere davvero la guida affidatagli a parole dal “fondatore, responsabile, elevato” e quant’altro Beppe Grillo, afflitto da problemi come e forse più ancora del tanto odiato o “psiconano” Berlusconi.

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Si rendono sempre più distanti da Mario Draghi Pd e 5 Stelle

            E’ in corso una strana gara fra il Pd e il Movimento 5 Stelle, in ordine non della loro consistenza parlamentare ma di quella che si ricava da tutti indistintamente i sondaggi. I quali fanno apparire  sempre più nitidamente la sostanziale delegittimazione ormai del Parlamento in carica, come se non fosse bastato il colpo datogli dai grillini, con l’appoggio prima della Lega e poi dello stesso Pd, riducendo di pìù di un terzo i seggi complessivi delle Camere da eleggere nel 2023.

  Pertanto quelle attuali dovranno scegliere a febbraio prossimo il nuovo presidente della Repubblica, pur destinato a rimanere in carica sino al 2029, con un’autorevolezza, diciamo così, da Paperopoli.

Nessuno peraltro sembra preoccuparsi più di tanto di questa grave anomalia: neppure, a dire la verità, il presidente uscente Sergio Mattarella quando dice, sia pure ad una scolaresca di livello elementare, che non vede l’ora di riposarsi fra otto mesi. E si lascia così attribuire l’indisponibilità all’unica soluzione che potrebbe restituire una po’ di logica vera, non solo fittizia, alla prossima edizione della corsa al Quirinale. Sarebbe la rielezione dello stesso Mattarella proprio in attesa che il prossimo Parlamento, maggiormente legittimato, possa provvedere ad una vera e propria successione al vertice dello Stato. Che è pur sempre il vertice, appunto, chiamato sempre più frequentemente da un bel po’ di tempo a questa parte a supplire al vuoto, e niente di più, che riescono a produrre i partiti in crisi dichiaratamente identitaria.

Proprio in virtù di questa crisi tanto il Pd quanto il Movimento 5 Stelle faticano ogni giorno, o addirittura ogni ora di più a riconoscersi nel governo di emergenza di Mario Draghi, di cui hanno pur deciso di fare parte al termine dell’ultima crisi, dopo avere inutilmente tentato di riesumare il secondo e dimissionario governo di Giuseppe Conte con un sostanziale rimpasto. Scrivo così giusto per essere chiaro, e onesto, con chi legge, senza partecipare ad altre immaginarie e farlocche rappresentazioni dei fatti verificatisi fra novembre e febbraio scorsi, da quando Matteo Renzi prima col consenso del Pd e poi da solo rimise in discussione l’allora presidente del Consiglio sino a rovesciarlo.

Di “mugugni” nel Pd ha parlato giustamente Il Foglio ricordando i sostanziali schiaffi ricevuti da Draghi prima con la bocciatura -sempre per parlare chiaro- dell’aumento della tassazione sulle eredità proposto da Enrico Letta e poi con la correzione della proroga del divieto di licenziamenti predisposta dal ministro piddino del Lavoro Andrea Orlando fra le proteste della Confindustria.

Di “schiaffi ai 5 Stelle” ha parlato Il Fatto Quotidiano -e chi sennò?- riferendo delle nomine predisposte dal presidente del Consiglio alle Ferrovie dello Stato, alla Cassa Depositi e Prestiti e altrove. Ma sempre sul Fatto, in un editoriale del suo direttore, la pur autorevole Guardasigilli Marta Cartabia, già presidente della Corte Costituzionale, è diventata “la cosiddetta ministra” per essersi proposta di disciplinare diversamente la prescrizione ridotta ai minimi termini, quasi abolita, dal predecessore Alfonso Bonafede, e per non avere cambiato idea dopo avere incontrato lo stesso Bonafede alla guida di una folta delegazione pentastellata. Dare della “cosiddetta” ministra alla Cartabia è come dare del cosiddetto al governo Draghi. Almeno così sembra ad uno abituato da un bel po’ a seguire la politica italiana senza lasciarsi imbrogliare dai furbi di turno.

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E’ dovuto arrivare il Covid per fare arrestare “solo se necessario”…

Giuseppe Gargani, Peppino per gli amici, democristiano di origine controllata e mai davvero rassegnato alla fine della Dc, 86 anni da poco compiuti e meravigliosamente portati, dei quali 37 trascorsi da deputato fra la Camera e il Parlamento europeo, già sottosegretario alla Giustizia nella cosiddetta prima Repubblica, presidente di commissioni e commissario dell’Autorità di Garanzia nelle comunicazioni, purtroppo non quelle giudiziarie, di cui da garantista com’è sempre stato avrebbe fatto strage; Peppino, dicevo, ha appena aggiornato e riproposto per Lastaria Edizioni il suo fortunato libro del 1998  “In nome dei Pubblici Ministeri- Dalla Costituente a Tangentopoli: storia di leggi sbagliate”.  Sbagliate  dalle maggioranze di turno in Parlamento non sapendo l’abuso cui si potevano prestare per fare uscire l’amministrazione della Giustizia dai binari voluti dai costituenti.

Temo tuttavia che qualcuno abbia giocato davvero sporco, legiferando male proprio perché avvenisse quello che è accaduto, cioè lo sconfinamento delle toghe e i danni inevitabili della loro autoreferenzialità o onnipotenza. Che si sta peraltro ritorcendo contro la stessa magistratura per il crescente discredito o -se preferite- per la decrescente credibilità e per un carrierismo che si è rivelato peggiore di ogni cattiva previsione.

Giuseppe Gargani

Giustamente Gargani ha riproposto già nella presentazione del suo libro -aggiornato con la prefazione di Mattia Feltri e con altri suoi interventi successivi al 1998, compresi alcuni articoli scritti per Il Dubbio- il fastidio avvertito nell’esplosione della cosiddetta Tangentopoli da “uno dei magistrati più intelligenti del pool di Milano”, Gherardo Colombo. Il quale si dolse del “ruolo politico di supplenza” assegnato alla magistratura con leggi malfatte, appunto, delegando “al magistrato la soluzione di questioni che non spettano alla giurisdizione” perché “politiche”.

In una prateria così spianata le toghe più politicizzate, a volte persino inconsapevolmente, tanto erano convinte di avere una missione purificatrice da svolgere,hanno potuto produrre una situazione dalla quale temo che non si possa uscire con la speranza ancora nutrita da Gargani di “un’autocritica fatta dai partiti di opposizione e da una magistratura che vuole essere “indipendente” per una pacificazione nazionale, per un chiarimento necessario alla giurisdizione: questo sì capace -ha scritto l’autore- di far prevalere la questione morale su quella penale”.

Temo che non verrà mai il momento considerato opportuno da tutte le parti in campo per procedere ad una riforma tanto condivisa quanto efficace. Se la politica non ritroverà il coraggio di riappropriarsi delle proprie competenze, con le buone o con le cattive, con nuove leggi o con l’abrogazione referendaria di quelle sbagliate, come sembra avere capito adesso anche la Lega di Matteo Salvini dopo avere partecipato con quel famoso cappio a Montecitorio all’ondata giustizialista e manettara dei primi anni Novanta, non se ne uscirà mai.

Giovanni Galloni

E’ purtroppo accaduto proprio alla sinistra, anche a quella democristiana da cui proviene Gargani, di partecipare con sofferenza o di assistere con impotenza, come per una maledizione, alla degenerazione dei rapporti fra la magistratura e la politica. Ricordo il compianto Giovanni Galloni, amico e collega di partito e corrente di Gargani, alla vice presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura mentre a Milano si faceva uso assai disinvolto, per esempio, delle manette sino a provocare suicidi, che venivano cinicamente liquidati come incidenti di percorso o, peggio ancora, come ammissioni finalmente di colpe.

Massimo D’Alema

Proprio contro quel fenomeno che grida ancora vendetta Gargani si mosse come presidente della Commissione Giustizia della Camera per rimediarvi con norme condivise “anche da parte del Pci”, come ha ricordato. Ma non si riuscì a concludere nulla perché -ricordo ancora fisicamente il malumore in Transatlantico del compianto deputato del Pds-ex Pci Giovanni Correnti- il capogruppo Massimo D’Alema non trovò quello il momento opportuno per intervenire, vista evidentemente la popolarità delle manette.

Il Procuratore Generale Giovanni Salvi

Con sarcasmo di stile manzoniano Gargani ha scritto che “abbiamo dovuto subire l’epidemia del coronavirus per ottenere un richiamo formale del Procuratore generale presso la Cassazione ai magistrati ad applicare la legge, e cioè arrestare solo se necessario”. Il Covid insomma è arrivato con una trentina d’anni di ritardo: un’osservazione tanto paradossale quanto tragica, al pari della speranza che possano essere almeno i cosiddetti vincoli derivanti dall’integrazione europea a quella riforma della giustizia che da soli non siamo riusciti a realizzare: una prospettiva che non a caso ha indotto il giustizialismo politico e mediatico italiano a collocarsi in questi giorni su posizioni di vecchio e svillaneggiato sovranismo.

Pubblicato sul Dubbio

Il sovranismo di ritorno è persino peggiore di quello di andata

Emanuele Macaluso
Gazebo del Pd

            Sapevo che prima o poi sarebbe avvenuto su quella giostra che è diventata la politica nel tempo dei partiti cosiddetti liquidi, apparentemente non più ideologici e neppure titolari di certi diritti che sembravano inalienabili per qualsiasi tipo di associazione, come avere degli iscritti e possederne le liste, e riservare a loro il diritto di scegliersi i dirigenti, senza affidarsi a “piattaforme” altrui o, con le primarie giustamente dileggiate dalla buonanima di Emanuele Macaluso, ai passanti davanti a un gazebo provvisti di un paio d’euro Ma non pensavo che lo scambio delle parti sulla giostra potesse avvenire così scompostamente, a dir poco, nella generale indifferenza.

            Ci hanno messo in croce in questa ma anche nelle precedenti legislature con la storia del cosiddetto sovranismo, equivalente al male assoluto. Dare del sovranista e anti-europeista a Matteo Salvini poteva e doveva bastare e avanzare per dirgli e dargli ben altro: “cazzaro”, “truce”, “autoritario” e via insultando. E da quando, sfiancato anche da questa caccia, e non solo per ragioni di ravvedimento, sincero o opportunistico, il capo della Lega ha cominciato a parlare diversamente dell’Europa, o ha cambiato le sue letture o frequentazioni, persino trovandosi d’accordo con un uomo di potere come Mario Draghi o con un filosofo come Marcello Pera, tutti stanno a lì a misurarne passi e parole, o a prendergli la temperatura come si fa in questi tempi di pandemia a chi entra in un ambulatorio o in un  negozio.

            Tra i diffidenti del passaggio di Salvini dal sovranismo all’europeismo, o a qualcosa che in qualche modo possa assomigliargli, c’è anche -fra un rimpianto e l’altro di Giuseppe Conte- il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio. Che però, pur prendendosela questa volta più direttamente con Draghi e il “regimetto” che starebbe instaurando in Italia, non a caso dandola vinta nella dialettica della maggioranza più a Salvini che ad Enrico Letta, ha voluto cominciare a gridare anche lui che bisogna smetterla di andare appresso all’Europa.

Con un fanatismo del resto frequente nei casi di conversione, egli ha scritto ieri, o avvertito, come preferite, che i partiti hanno tutto il diritto di piantare e sventolare le loro “bandierine”. “Se troveranno buoni compromessi per le famose “riforme”, bene. Sennò si saluteranno, manderanno Draghi al Quirinale o dove vuole lui, e torneranno a votare per chi pare a noi. Non alla fantomatica “Europa”, che fra l’altro non ha fra i suoi compiti quello di insegnarci a votare”. Ben arrivato fra i sovranisti, o alla loro guida, visto il tradimento di Salvini e simili, caro il nostro direttore del Fatto Quotidiano.

Fra un anatema e l’altro il nuovo sovranista ha insinuato anche il timore che a furia di inseguire l’Europa sulla strada della “deregulation” si moltiplicheranno in Italia “stragi tipo Morandi e Mottarone”: il ponte crollato a Genova per la presunta sete di guadagni, o risparmi, dei Benetton, e la funivia che era appena costata la vita a 14 persone. Ma il giorno dopo, cioè oggi, povero il nostro sovranista, lo stesso Fatto Quotidiano ha dovuto correggere il suo direttore titolando in prima pagina che almeno la tragedia della funivia potrebbe essere stata causata da un errore umano, per un freno non guasto, o malamente mantenuto, ma non attivato. L’Europa con la sua “deregulation” e i soliti cretini che la inseguono, almeno stavolta non c’entra, grazie a Dio.

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Il petto di Enrico Letta rischia di esplodere di orgoglio…fiscale

            Non vorrei che il petto di Enrico Letta si gonfiasse sino ad esplodere nel vedere tanti economisti, oltre che politici dichiaratamente di sinistra, che ridono quanto più pensano di potere far piangere i ricchi, accorrere in suo soccorso nella campagna che ha intrapreso per aumentare i prelievi fiscali sulle successioni. Ultimi, in ordine di tempo, sono arrivati oggi su Repubblica, che non sembrava originariamente molto convinta della sortita del segretario del Pd in una intervista al supplemento 7 del Corriere della Sera, i professori bocconiani Tito Boeri e Roberto Perotti.

Costoro hanno persino scritto di un “tabù” finalmente rotto dal successore di Nicola Zingaretti al Nazareno, anche a costo di procurarsi una infastidita reazione del presidente del Consiglio Mario Draghi, convinto che non sia ancora il momento di chiedere di più, anziché di dare agli italiani: un Draghi che anche per questo si è procurato per dileggio l’abbigliamento di un Re Sole, comprensivo della parrucca, su un giornale che ancora lo considera come un mezzo usurpatore, succeduto ingiustamente a Palazzo Chigi al benemerito Giuseppe Conte. Che ora, poveretto, è stato destinato a regolare il traffico dei grillini fuori e dentro il MoVimento 5 Stelle.

            I due bocconiani in un impeto di obbiettività, dopo tanti riconoscimenti dottrinari e politici al nuovo segretario del Pd, considerato di buona scuola einaudiana, hanno riconosciuto che “vi sono grossi ostacoli tecnici” sulla sua strada come “la disparità dei valori catastali tra diverse zone d’Italia, il problema della possibile liquidità degli eredi, il trattamento delle donazioni fatte in vita per eludere la tassa, e ovviamente l’evasione”, per non parlare del rischio di “impedire ai piccoli imprenditori di lasciare l’azienda ai figli”. “Ma sono problemi che, se si vuole, si possono superare. Ed ani una tassa si successione fornirebbe un ulteriore incentivo ad attivarsi per risolverli”, hanno scritto Boeri e Perotti. Che è un po’ come pensare e dire che una malattia può essere anche un affare perché attiva il medico a curarla, anziché starsene a giocare a carte.

            Ma di che cosa stiamo parlando, esimi e cari professori? Di quale proposta di Enrico Letta, in particolare, vogliamo discutere? Si continua infatti bellamente a ignorare, anche a questo livello di accademia e competenza, che il segretario del Pd ha cominciato a mettere sul piatto politico della bilancia una maggiore tassazione su un valore patrimoniale superiore a un milione di euro, pari a un paio di appartamenti o poco più, per poi parlare o lasciar parlare i suoi interpreti di cinque milioni di euro, cioè cinque volte tanto. Che non sono ovviamente la stessa cosa, anche in termini di possibile copertura per l’ambizioso progetto che il segretario del Pd si è dato di garantire una “dote” di diecimila euro a testa a circa la metà dei diciottenni, nella presunzione che l’altra metà non ne abbia bisogno, o non ne sia meritevole per ragioni sociali.

            Qui si continua a fare politica, a discutere, a mettere e a togliere le famose bandierine di cui si parla con un certo fastidio a Palazzo Chigi e al Quirinale, nella più completa indeterminatezza o confusione, scommettendo sulla possibilità più di prendere in giro che di convincere gli interlocutori. Che non è un modo serio di comportarsi, anche se si prestano a ragionarvi sopra fior di professori, emeriti e non.

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Escono dagli archivi gli abbagli americani sulle “mani pulite” italiane

Attratto dal titolo sulle “origini e aporie”, cioè contraddizioni, della cosiddetta seconda Repubblica, tali da indurre a dubitare che essa sia veramente esistita in Italia, per quanto molti parlino e scrivano anche di una terza Repubblica già trascorsa o di una quarta incipiente, un libro appena uscito per Rubbettino a  cura di Francesco Bonini, Lorenzo Ornaghi e Andrea Spiri, tre storici e docenti universitari coi fiocchi, mi ha fatto sobbalzare. Vi ho trovato la conferma, stavolta documentata a dovere, della disinformazione e approssimazione della diplomazia americana alle prese in Italia agli inizi degli anni Novanta con l’esplosione di Tangentopoli.

L’Ambasciata degli Stati Uniti a Roma
Il Consolato Generale Usa a Milano

            Il merito dell’approccio documentatamente approssimativo della diplomazia americana operante in Italia, attivissima nel mandare rapporti e quant’altro a Washington, si deve in particolare ad Andrea Spiri. Che ha potuto consultare tantissimi documenti non del tutto desecretati, a dire la verità, perché egli ha trovato alcuni omissis che impediscono, per esempio, di fare bene i nomi e i cognomi dei magistrati milanesi contattati dagli americani per ottenere anticipazioni, confidenze, previsioni e quant’altro e informarne i superiori, a cominciare da quelli dell’ambasciata a Roma. Dove via via -a dispetto di una iniziale prudenza, causata anche da un invito al sostituto procuratore Antonio Di Pietro negli Stati Uniti reso noto benché ancora riservato- si lasciarono prendere la mano scaricando duramente un leader politico come Bettino Craxi. Cui pure gli Stati Uniti dovevano moltissimo nella vittoria della guerra fredda contro l’Urss, nonostante lo scontro diretto per telefono, e interposto interprete, tra lo stesso Craxi e  il presidente Ronald Reagan nella famosa notte di Sigonella del 1985. Durante la quale i reparti speciali degli Usa, cercarono di sostituirsi alle forze armate italiane per consegnare alla giustizia americana, sottraendoli a quella italiana, i responsabili del dirottamento della nave Achille Lauro nelle acque del Mediterraneo. Dove i terroristi palestinesi avevano ucciso e buttato a mare un paralitico di nazionalità americana e religione ebraica, ma prima ancora sequestrato passeggeri ed equipaggio di una nave battente la nostra bandiera.

            Se Craxi prima da partecipe decisivo della maggioranza di governo e poi da presidente del Consiglio non avesse reso operativo in Italia il potenziamento delle difese missilistiche della Nato, neutralizzando così il vantaggio conseguito dai sovietici schierando oltre cortina i loro SS 20 contro le capitali europee, la partita con l’Urss non si sarebbe certamente chiusa  nei tempi e modi passati alla storia a favore dell’Occidente. Eppure Craxi apparve subito ai diplomatici americani, fra Milano e Roma, un uomo degno di ogni sospetto, e forse anche di quel linciaggio d’aprile del 1993 a poche centinaia di metri da Montecitorio. Dove la sera prima i deputati avevano osato contestare a scrutinio segreto almeno alcune delle accuse di corruzione e altro formulate contro l’ex presidente del Consiglio dalle Procure che ormai si inseguivano nel dargli la caccia.

            Solo dopo il suicidio in carcere, a Milano, del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari ma soprattutto l’offensiva aperta nel 1994 dalla Procura milanese contro il neo presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, imprevisto beneficiario elettorale del terremoto giudiziario di “Mani pulite”, si cessò di pensare all’ambasciata americana che “i magistrati -si legge in un documento scovato da Spiri- seguono solo la via giudiziaria, i martelletti delle loro decisioni sono risultati efficaci come pistole….Hanno intrapreso un processo di cambiamento che non possono controllare o guidare completamente…..ma come giudici la loro responsabilità è di assicurarsi che giustizia sia fatta, non tracciare linee politiche per stabilire quando se ne ha abbastanza” perché “questo è un lavoro che spetta ad altri”.

L’ambasciatore Bartholomew

            Solo l’8 dicembre 1994, festa della Immacolata Concezione, impressionato dal trattamento riservato anche a Berlusconi, l’ambasciatore americano a Roma Reginald Bartholomew si decise a riconoscere e a scrivere: “In passato non siamo riusciti a raccogliere sufficienti elementi di prova che confermassero l’accusa rivolta ai giudici di agire per fini politici”.  Ma ora – riferì l’ambasciatore al Dipartimento di Stato americano- si capisce bene “la preoccupazione crescente fra i cittadini che l’operato dei magistrati possa rispondere a scopi di natura politica”, nonostante “uno status di quasi sanità che li ha sottratti alla possibilità di critica da parte della classe politica”. “Ci vorranno probabilmente diversi anni prima che si stabilisca un nuovo equilibrio tra i poteri dello Stato e che i rappresentanti eletti riacquistino più forza” concluse l’ambasciatore.

Barttholomew  morì a New York nel 2012, a 76 anni, senza avere neppure potuto intravvedere quel “nuovo equilibrio” in Italia che d’altronde stiamo ancora tutti aspettando. E per il quale si dovrà forse tornare a scommettere più che sui partiti ridotti come sono, sulla democrazia diretta referendaria. Che potrebbe finalmente sollevare anche le toghe dal discredito in cui sono finite pure loro, come ha appena rilevato con i suoi modi lo stesso presidente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura nel ventinovesimo anniversario  della strage mafiosa di Capaci, costata la vita a Giovanni Falcone, la moglie e la scorta.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 30 maggio

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