La sottile campagna di delegittimazione del governo Draghi

            Ancora una volta si deve dire della magistratura italiana che non si sa, francamente, se sia la più sfortunata del mondo -la più sfigata, dicono a Roma- o la più malata. Ma di un male incurabile. Le toghe sono ormai divorate dal tarlo della autoreferenzialità che sono riuscite a imporre a tutti gli altri poteri dello Stato. I quali non possono occuparsene senza esporsi all’accusa di attentare all’autonomia e quant’altro della magistratura, per cui ogni volta che scoppia un bubbone si può solo scommettere su quanto tempo si impiegherà per farlo dimenticare, in attesa che ne sopraggiunga un altro.

            Ormai non è più una circostanza ma una regola. Ogni volta che la politica si increspa, arriva un’indagine giudiziaria che ha sempre lo stesso effetto: di intorbidire le acque e di alzare le onde, sino a rendere inintelligibili sia le vicende politiche sia le vicende giudiziarie che le incrociano.

            Goffredo Bettini, questa specie di sibilla romana del Pd, non ha dovuto aspettare molti giorni per smerciare bene politicamente quella che pure sembrava la solita bufala, la solita esagerazione: un complotto, o qualcosa del genere, per tagliare nei mesi scorsi l’erba sotto ai piedi di Giuseppe Conte e farlo cadere, sostituendolo con un uomo più gradito ai cosiddetti poteri forti che infestano non l’Italia, non l’Europa ma il mond intero. No, caro Bettini, non cerchi più di sottrarsi all’onda di ridicolo da cui sembrava minacciato con quella storia del complotto contro il suo amico Conte.  Non dica più, come gli è capitato in questi giorni di esordio della sua nuova corrente o area nel Pd, che il precedente governo è “morto di freddo”, come dicono di Gesù sulla croce gli infedeli.  

Ormai le cronache giudiziarie, o para-giudiziarie, per la loro alta tossicità politica, sono arrivate in soccorso dei complottisti. E gli amici inconsolabili di Conte, che fanno le pulci ad ogni provvedimento o dichiarazione di Draghi per accusare di plagio il nuovo presidente del Consiglio, possono con qualche apparente fondamento sostenere che l’ex avvocato del popolo, ora rifondatore del Movimento 5 Stelle, era stato messo da tempo sulla graticola del discredito dall’avvocato Piero Amara con accuse e insinuazioni troppo a lungo coperte nella Procura della Repubblica che le aveva raccolte, a Milano. E ciò fino a quando un magistrato non più capace di rassegnarsi alla rete di protezione stesa attorno all’ancora presidente del Consiglio non ne ha riferito a Piercamillo Davigo, con tutto ciò che ne è seguito, tra gli uffici dell’allora consigliere superiore della Magistratura, redazioni di giornali e non so cos’altro ancora. E questo per non parlare della stessa  iniziativa annunciata da Davigo di riferirne a sua volta a “chi di dovere”, cioè al presidente della Repubblica nella sua doppia veste anche di presidente del Consiglio Superiore.  

Adesso mancano solo le vignette -ma arriveranno presto anch’esse- di un Draghi senza più artigli e autorità, mandato abusivamente da Mattarella a Palazzo Chigi e destinato a fare la stessa fine opaca di tutti, o quasi, i suoi predecessori. Che pena. Anzi, che schifo. Né si può dire, come una volta Amintore Fanfani con qualche ministro del suo partito, che chi la fa grossa deve coprirla, perché ormai si fanno tanto grosse da non poter essere umanamente più coperte da niente e da nessuno.

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Quando Craxi e Scalfaro lasciarono scappare Toni Negri in Francia

Una volta tanto hanno attribuito a Bettino Craxi una cosa meno clamorosa o grave -dal loro punto di vista- di quella effettivamente compiuta: di avere da presidente del Consiglio, nel 1983, chiesto al presidente francese e amico Francois Mitterrand  di tenersi al sicuro a Parigi Toni Negri. Che infatti riparò in Francia insegnando per alcuni anni alla Sorbona e riscuotendo regolarmente, con la dovuta procura, l’indennità di deputato perché eletto alla Camera nelle liste radicali, pur avendo pendenze giudiziarie assai pesanti che gli avevano procurato l’arresto.

            Assolto dall’originaria accusa di terrorismo rivoltagli dal giudice di Padova Pietro Calogero nel famoso processo che prese il nome dalla data  -7 aprile 1979- di una sostanziale retata di esponenti di Autonomia sospettati di lotta armata e simili, il professore universitario di filosofia Toni Negri fu condannato per associazione sovversiva e concorso morale in una rapina ad Argelato, nel Bolognese.

            Di originaria militanza socialista, Negri aveva scritto di tutto e di più, e vagato fra associazioni estremistiche prestandosi alla fama appiccicatagli dagli inquirenti di cattivo maestro. Qualcuno addirittura pensò che fosse lui il famoso “grande vecchio” delle brigate rosse e, più in generale, del terrorismo rosso in Italia.

            Finito in prigione, il professore fu politicamente adottato da Marco Pannella, che volle farne un simbolo di come la magistratura -anticipando in qualche modo la vicenda di Enzo Tortora presunto camorrista- potesse scambiare lucciole per lanterne e il legislatore adottare nella sacrosanta lotta al terrorismo leggi per niente garantiste, comunque esposte alle applicazioni peggiori. In questa ottica il leader radicale nel 1983 candidò alla Camera il detenuto  Negri. Che, una volta eletto, fu liberato e andò a ritirare la medaglietta parlamentare a Montecitorio, salutato sul portone dal militare di turno con tutti gli onori dovuti agli onorevoli rappresentanti del popolo.

            La magistratura tuttavia azionò immediatamente le procedure per chiedere e alla fine ottenere l’autorizzazione all’arresto del deputato. Che però, sottraendosi anche ad uno stravagante scenario predisposto per lui -come vedremo- dall’immaginifico Pannella, tagliò in tempo la corda, diciamo così. Egli insomma scappò in Francia. Dove comunque, essendo di pasta obiettivamente diversa dagli altri sottrattisi oltr’Alpe alle loro responsabilità e ai loro debiti con la giustizia, il professore non rimase più di tanto. Già alla fine della legislatura, peraltro durata un anno meno dell’ordinario per lo scioglimento anticipato delle Camere voluto nel 1987 dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita spedendo a Palazzo Chigi Amintore Fanfani per sloggiare Craxi, il professor Negri patteggiò il suo rientro in Italia. Dove sarebbe tornato in carcere per restarvi a regime pieno sino al 1999, e in semilibertà per qualche anno ancora, sino ad uscirne definitivamente nel 2003.

            A sentire i ricostruttori della vicenda attualizzata in qualche modo dall’operazione “Ombre rosse” appena scattata in Francia con l’arresto di nove condannati definitivi per reati di terrorismo e dintorni, essendo stata per esempio risparmiata al più anziano di loro, Giorgio Pietrostefani, per il delitto del commissario Luigi Calabresi l’aggravante  del terrorismo; a sentire, dicevo, i ricostruttori della vicenda Negri, allora il presidente del Consiglio italiano avrebbe quindi chiesto a Mitterrand di tenersi stretto il nuovo ospite.

            Nossignori, nemici di Craxi, al quale siete tornati -fra l’altro- ad attribuire indulgenze agli estremisti “in chiave anti-Pci”, cui i terroristi rimproveravano l’imborghesimento e il tradimento degli ideali della rivoluzione. L’allora presidente socialista del Consiglio fece ben più di quello che ora gli rimproverate anche da morto. Come una volta mi raccontò personalmente, egli autorizzò l’allora suo ministro democristiano dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro, che gliene aveva chiesto il “parere”, ad allentare la sorveglianza di Negri mentre la Camera si accingeva ad autorizzarne l’arresto, anzi il riarresto.

            Più ancora di una fuga del professore essi concordarono nel ritenere un danno per lo Stato e le istituzioni lo scenario allestito da Panella, col quale peraltro avevano entrambi buoni rapporti personali e politici. Esso contemplava il deputato Negri di giorno  a Montecitorio– con le dovute autorizzazioni del magistrato di turno, chiamato a valutare perciò l’importanza dei lavori parlamentari- e del detenuto Negri di notte, salvo sedute notturne della Camera.

            Mi sono chiesto maliziosamente -lo ammetto-se quella vicenda non avesse poi pesato sull’atteggiamento curiosamente giustizialista di Pannella messo giustamente a nudo  da Filippo Facci nel suo libro appena uscito sul linciaggio delle monetine del 30 aprile 1993. In particolare, Pannella annunciò il voto a favore delle autorizzazioni a procedere contro Craxi, pur solidarizzando poi con lui per le conseguenze. Cose che solo Pannella sapeva fare, e solo Craxi  in fondo perdonargli.

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