Il passato manettaro di cui Luigi Di Maio cerca di liberarsi

            Sono state tanto rumorose quanto galeotte le scuse del ministro degli Esteri Luigi Di Maio all’ex sindaco piddino di Lodi, Simone Uggetti, per i cinque anni trascorsi nella gogna, e un po’ anche in galera, per il presunto scandalo delle piscine. Che fu cavalcato in piazza, imitato dal leghista Roberto Calderoli, dallo stesso Di Maio, allora responsabile degli enti locali del MoVimento 5 Stelle. “E’ vera svolta?”, si è chiesto prudentemente sulla Stampa Massimo Panarari.

La vignetta di Makkox

            Anche Uggetti, del resto, appena assolto in appello a Milano dall’accusa di turbativa d’asta, che gli aveva procurato nel 2016 l’arresto e le dimissioni da sindaco, e nel 2018 la condanna in primo grado a 10 mesi, pur col riconoscimento di avere agito nell’”interesse pubblico”, qualche dubbio sulle scuse di Di Maio lo coltiva se le ha accolte con riserva,. “Spero che il ravvedimento sia sincero”, ha detto commentando la lettera inviata al Foglio, e pubblicata con tanto di titolo rosso in prima pagina, dal ministro degli Esteri. Che grazie anche alla durezza praticata come responsabile degli enti locali si era guadagnato poi la promozione a capo politico del movimento grillino cercando di scalare addirittura Palazzo Chigi. Dove dovette rassegnarsi dopo le elezioni politiche del 2018 ad avere un ufficio solo come vice presidente del Consiglio.

            Ora Di Maio non è più capo del Movimento 5 Stelle, o di quel che ne rimane, né vice presidente del Consiglio e pluriministro, come nel primo governo di Giuseppe Conte, ma “soltanto”, si fa per dire, titolare della Farnesina. Dove divide il suo tempo, in realtà, fra due lavori. Uno naturalmente è quello istituzionale di ministro degli Esteri, l’altro è quello meno visibile, più discreto ma forse politicamente più concreto di rimanere in palla, diciamo così, nel movimento affidato pur sulla parola da Beppe Grillo all’ex presidente del Consiglio Conte.

            Distratto, diciamo così, dalle vertenze interne al movimento, che stanno mettendo a dura prova anche le sue competenze professionali di avvocato e professore universitario di diritto, Conte si è fatto precedere -o “spiazzare”, come ha titolato la Repubblica-  da Di Maio in un passaggio importante o significativo come quello delle scuse all’ex sindaco di Lodi, propedeutiche ad una svolta. Egli è riuscito a parlare solo di rimessa, in seconda battuta, per ripetere con Di Maio che “alimentare la gogna mediatica per contrastare gli avversari a fini elettorali contribuisce all’imbarbarimento dello scontro politico”: una pratica del passato alla quale il Movimento 5 Stelle, o come diavolo si potrà o dovrà chiamare dopo la rifondazione in corso nell’abitazione privata di Conte e dintorni, dovrebbe rinunciare. Ma chissà se questa svolta potrà più facilitare o danneggiare la scalata di Conte. Al quale II Fatto con la solita tempestività, e disinvoltura, ha ricordato che Uggetti è “reo confesso”, per quanto assolto perché “il fatto” -quello giudiziario- “non sussiste”.

            C’è tuttavia sotto le stelle anche un dissidente come Stefano Buffagni che ha proposto di offrire a Uggetti quella candidatura comune di Pd e grillini a deputato, inutilmente tentata con Conte, alle elezioni suppletive d’autunno a Siena per la sostituzione del deputato piddino dimissionario ed ex ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan, che ha preferito l’Unicredit alla Camera.  I “locali” del Pd stavolta potrebbero starci per compensare in fondo un compagno di partito che cinque anni fa meritava di essere sostenuto orgogliosamente, come non avvenne.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Un D’Alema a sorpresa in fase autocritica tra manifesto e vigneti

La partecipazione ad uno degli eventi celebrativi dei 50 anni del manifesto, il “quotidiano comunista” orgogliosamente sopravvissuto sia all’espulsione dei suoi promotori dal Pci sia alla fine dello stesso Pci dopo il crollo del muro di Berlino, ha dato a Massimo D’Alema l’occasione di una tardiva ma pur sempre significativa ammissione autocritica sul versante dei rapporti col Psi. Che fu uno dei temi  del dissenso a sinistra di cui viveva il giornale degli “eretici”. I quali non condividevano la supponenza -chiamiamola come meritava- del Pci verso il Psi persino ai tempi di Francesco De Martino, prima che arrivasse a guidarlo col garofano in mano quell’”intruso” come veniva considerato Bettino Craxi. Di cui infastidì i comunisti anche il fatto che fosse riuscito a strappare alla Dc nei rapporti di alleanza politica ciò che De Martino ammise poi di non avere osato neppure immaginare di poter chiedere: la guida socialista di un governo di coalizione.

            Alla buonanima di Luigi Pintor che nel 1983, scrivendo della voglia di chi militava a sinistra di “non morire democristiani”, esortava i comunisti a cambiare musica col Psi da 7 anni ormai a direzione craxiana, D’Alema ha riconosciuto di avere ragione, e torto lui a “indignarsi” nel leggerlo.

            Ma ciò avvenne anche più avanti, in quelli che Andrea Carugati, sempre sul manifesto, ha definito “gli anni della transizione post-Pci”. Che furono intossicati dai propositi di annessione intravisti, a torto o a ragione, dai comunisti nella prospettiva  dell’”unità socialista” lanciata da Craxi dopo il crollo del muro di Berlino e dalla voglia irrefrenabile, persino scomposta, di difendersene cavalcando le difficoltà giudiziarie, a dir poco, del Psi alle prese con Tangentopoli. Di cui il sindaco non poteva che essere socialista, vista la direzione preferenziale assunta dalle indagini giudiziarie.

Nei rapporti estremamente conflittuali fra i due partiti maggiori della sinistra, in cui Achille Occhetto usò come una clava la “questione morale”, D’Alema ha riconosciuto con gli amici o compagni del manifesto che “i torti non erano tutti di una sola parte”. Ma lui, obiettivamente, quando decise di sostituire Occhetto alla segreteria del Pds-ex Pci non fece gran che per migliorare le cose. Gli venne addirittura attribuita una volta, a commento di uno dei tanti tentativi dei socialisti di tornare con le proprie forze in Parlamento, la battuta che non bisognasse fargliene tornare la voglia o l’abitudine.

            Magari non sarà stata vera, come tante altre battute al vetriolo attribuite a D’Alema e da lui smentite, a cominciare dalla liquidazione di Romano Prodi e Walter Veltroni come “flaccidi imbroglioni”, ma molti la presero almeno per verosimile conoscendo gli umori dell’uomo.  

            Il fatto è che, a parte gli “eretici” del manifesto all’esterno, per molto tempo gli unici fra i comunisti e post-comunisti a consentirsi un linguaggio e uno stile non esasperato nei rapporti con i socialisti furono i cosiddetti “miglioristi”. Che anche per questo erano considerati la minoranza d’obbligo del partito, non qualificata a guidarlo neppure quando, caduto il comunismo, furono cambiati nome e simbolo della formazione politica.

Il titolo dell’intervista a 7 del Corriere della Sera fra i suoi vigneti

  Lo stesso arrivo del migliorista Giorgio Napolitano al Quirinale nel 2006 avvenne per decisione più esterna che interna ai democratici di sinistra, per impedire che vi giungesse proprio D’Alema, al quale sembrò ad un certo punto che fosse disposto a dare una mano persino Silvio Berlusconi, consigliato in quella direzione da Giuliano Ferrara ma sottrattosi alla tentazione all’ultimo momento con una telefonata di spiegazione al “caro Massimo”. Tuttavia – un po’ diversamente da come l’ha appena raccontata lo stesso D’Alema in una intervista a Tommaso Labate per il supplemento 7 del Corriere della Sera- a impedirne la candidatura fu di fatto l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini muovendosi fra i moderati per spianare la strada appunto a Napolitano. Che da presidente della Repubblica non smentì quella specie di sensibilità diversa nei riguardi dei socialisti manifestata già nel 1976, quando si avviò l’esperienza della cosiddetta solidarietà nazionale e lui non condivise la condizione posta dal Pci per aderirvi: che il governo da appoggiare, senza potervi partecipare, fosse “monocolore” democristiano, per escludervi i socialisti prima di tutti gli altri ex alleati dello scudo crociato.

            Fu con Napolitano che nel decimo anniversario della morte di Bettino Craxi ad Hammamet partì dal Quirinale alla vedova Anna la lettera in cui si riconosceva che l’azione anche giudiziaria contro il leader socialista per la pratica generalizzata del finanziamento illegale della politica fu di una durezza “senza uguali”. D’Alema poco più di dieci anni prima si era limitato a incoraggiare telegraficamente un Craxi appena operato in condizioni disperate firmandosi impersonalmente, con la sola qualifica di presidente del Consiglio.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.policymakermag.it il 30 maggio

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