Il petto di Enrico Letta rischia di esplodere di orgoglio…fiscale

            Non vorrei che il petto di Enrico Letta si gonfiasse sino ad esplodere nel vedere tanti economisti, oltre che politici dichiaratamente di sinistra, che ridono quanto più pensano di potere far piangere i ricchi, accorrere in suo soccorso nella campagna che ha intrapreso per aumentare i prelievi fiscali sulle successioni. Ultimi, in ordine di tempo, sono arrivati oggi su Repubblica, che non sembrava originariamente molto convinta della sortita del segretario del Pd in una intervista al supplemento 7 del Corriere della Sera, i professori bocconiani Tito Boeri e Roberto Perotti.

Costoro hanno persino scritto di un “tabù” finalmente rotto dal successore di Nicola Zingaretti al Nazareno, anche a costo di procurarsi una infastidita reazione del presidente del Consiglio Mario Draghi, convinto che non sia ancora il momento di chiedere di più, anziché di dare agli italiani: un Draghi che anche per questo si è procurato per dileggio l’abbigliamento di un Re Sole, comprensivo della parrucca, su un giornale che ancora lo considera come un mezzo usurpatore, succeduto ingiustamente a Palazzo Chigi al benemerito Giuseppe Conte. Che ora, poveretto, è stato destinato a regolare il traffico dei grillini fuori e dentro il MoVimento 5 Stelle.

            I due bocconiani in un impeto di obbiettività, dopo tanti riconoscimenti dottrinari e politici al nuovo segretario del Pd, considerato di buona scuola einaudiana, hanno riconosciuto che “vi sono grossi ostacoli tecnici” sulla sua strada come “la disparità dei valori catastali tra diverse zone d’Italia, il problema della possibile liquidità degli eredi, il trattamento delle donazioni fatte in vita per eludere la tassa, e ovviamente l’evasione”, per non parlare del rischio di “impedire ai piccoli imprenditori di lasciare l’azienda ai figli”. “Ma sono problemi che, se si vuole, si possono superare. Ed ani una tassa si successione fornirebbe un ulteriore incentivo ad attivarsi per risolverli”, hanno scritto Boeri e Perotti. Che è un po’ come pensare e dire che una malattia può essere anche un affare perché attiva il medico a curarla, anziché starsene a giocare a carte.

            Ma di che cosa stiamo parlando, esimi e cari professori? Di quale proposta di Enrico Letta, in particolare, vogliamo discutere? Si continua infatti bellamente a ignorare, anche a questo livello di accademia e competenza, che il segretario del Pd ha cominciato a mettere sul piatto politico della bilancia una maggiore tassazione su un valore patrimoniale superiore a un milione di euro, pari a un paio di appartamenti o poco più, per poi parlare o lasciar parlare i suoi interpreti di cinque milioni di euro, cioè cinque volte tanto. Che non sono ovviamente la stessa cosa, anche in termini di possibile copertura per l’ambizioso progetto che il segretario del Pd si è dato di garantire una “dote” di diecimila euro a testa a circa la metà dei diciottenni, nella presunzione che l’altra metà non ne abbia bisogno, o non ne sia meritevole per ragioni sociali.

            Qui si continua a fare politica, a discutere, a mettere e a togliere le famose bandierine di cui si parla con un certo fastidio a Palazzo Chigi e al Quirinale, nella più completa indeterminatezza o confusione, scommettendo sulla possibilità più di prendere in giro che di convincere gli interlocutori. Che non è un modo serio di comportarsi, anche se si prestano a ragionarvi sopra fior di professori, emeriti e non.

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Escono dagli archivi gli abbagli americani sulle “mani pulite” italiane

Attratto dal titolo sulle “origini e aporie”, cioè contraddizioni, della cosiddetta seconda Repubblica, tali da indurre a dubitare che essa sia veramente esistita in Italia, per quanto molti parlino e scrivano anche di una terza Repubblica già trascorsa o di una quarta incipiente, un libro appena uscito per Rubbettino a  cura di Francesco Bonini, Lorenzo Ornaghi e Andrea Spiri, tre storici e docenti universitari coi fiocchi, mi ha fatto sobbalzare. Vi ho trovato la conferma, stavolta documentata a dovere, della disinformazione e approssimazione della diplomazia americana alle prese in Italia agli inizi degli anni Novanta con l’esplosione di Tangentopoli.

L’Ambasciata degli Stati Uniti a Roma
Il Consolato Generale Usa a Milano

            Il merito dell’approccio documentatamente approssimativo della diplomazia americana operante in Italia, attivissima nel mandare rapporti e quant’altro a Washington, si deve in particolare ad Andrea Spiri. Che ha potuto consultare tantissimi documenti non del tutto desecretati, a dire la verità, perché egli ha trovato alcuni omissis che impediscono, per esempio, di fare bene i nomi e i cognomi dei magistrati milanesi contattati dagli americani per ottenere anticipazioni, confidenze, previsioni e quant’altro e informarne i superiori, a cominciare da quelli dell’ambasciata a Roma. Dove via via -a dispetto di una iniziale prudenza, causata anche da un invito al sostituto procuratore Antonio Di Pietro negli Stati Uniti reso noto benché ancora riservato- si lasciarono prendere la mano scaricando duramente un leader politico come Bettino Craxi. Cui pure gli Stati Uniti dovevano moltissimo nella vittoria della guerra fredda contro l’Urss, nonostante lo scontro diretto per telefono, e interposto interprete, tra lo stesso Craxi e  il presidente Ronald Reagan nella famosa notte di Sigonella del 1985. Durante la quale i reparti speciali degli Usa, cercarono di sostituirsi alle forze armate italiane per consegnare alla giustizia americana, sottraendoli a quella italiana, i responsabili del dirottamento della nave Achille Lauro nelle acque del Mediterraneo. Dove i terroristi palestinesi avevano ucciso e buttato a mare un paralitico di nazionalità americana e religione ebraica, ma prima ancora sequestrato passeggeri ed equipaggio di una nave battente la nostra bandiera.

            Se Craxi prima da partecipe decisivo della maggioranza di governo e poi da presidente del Consiglio non avesse reso operativo in Italia il potenziamento delle difese missilistiche della Nato, neutralizzando così il vantaggio conseguito dai sovietici schierando oltre cortina i loro SS 20 contro le capitali europee, la partita con l’Urss non si sarebbe certamente chiusa  nei tempi e modi passati alla storia a favore dell’Occidente. Eppure Craxi apparve subito ai diplomatici americani, fra Milano e Roma, un uomo degno di ogni sospetto, e forse anche di quel linciaggio d’aprile del 1993 a poche centinaia di metri da Montecitorio. Dove la sera prima i deputati avevano osato contestare a scrutinio segreto almeno alcune delle accuse di corruzione e altro formulate contro l’ex presidente del Consiglio dalle Procure che ormai si inseguivano nel dargli la caccia.

            Solo dopo il suicidio in carcere, a Milano, del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari ma soprattutto l’offensiva aperta nel 1994 dalla Procura milanese contro il neo presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, imprevisto beneficiario elettorale del terremoto giudiziario di “Mani pulite”, si cessò di pensare all’ambasciata americana che “i magistrati -si legge in un documento scovato da Spiri- seguono solo la via giudiziaria, i martelletti delle loro decisioni sono risultati efficaci come pistole….Hanno intrapreso un processo di cambiamento che non possono controllare o guidare completamente…..ma come giudici la loro responsabilità è di assicurarsi che giustizia sia fatta, non tracciare linee politiche per stabilire quando se ne ha abbastanza” perché “questo è un lavoro che spetta ad altri”.

L’ambasciatore Bartholomew

            Solo l’8 dicembre 1994, festa della Immacolata Concezione, impressionato dal trattamento riservato anche a Berlusconi, l’ambasciatore americano a Roma Reginald Bartholomew si decise a riconoscere e a scrivere: “In passato non siamo riusciti a raccogliere sufficienti elementi di prova che confermassero l’accusa rivolta ai giudici di agire per fini politici”.  Ma ora – riferì l’ambasciatore al Dipartimento di Stato americano- si capisce bene “la preoccupazione crescente fra i cittadini che l’operato dei magistrati possa rispondere a scopi di natura politica”, nonostante “uno status di quasi sanità che li ha sottratti alla possibilità di critica da parte della classe politica”. “Ci vorranno probabilmente diversi anni prima che si stabilisca un nuovo equilibrio tra i poteri dello Stato e che i rappresentanti eletti riacquistino più forza” concluse l’ambasciatore.

Barttholomew  morì a New York nel 2012, a 76 anni, senza avere neppure potuto intravvedere quel “nuovo equilibrio” in Italia che d’altronde stiamo ancora tutti aspettando. E per il quale si dovrà forse tornare a scommettere più che sui partiti ridotti come sono, sulla democrazia diretta referendaria. Che potrebbe finalmente sollevare anche le toghe dal discredito in cui sono finite pure loro, come ha appena rilevato con i suoi modi lo stesso presidente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura nel ventinovesimo anniversario  della strage mafiosa di Capaci, costata la vita a Giovanni Falcone, la moglie e la scorta.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 30 maggio

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