Notizie di ordinaria e straordinaria disamministrazione della giustizia

            In un giorno in cui troneggiano più o meno sulle prime pagine di tutti i giornali le notizie sulla giustizia a parti invertite, cioè non di magistrati che indagano su cittadini comuni, o anche su personalità autorevoli della politica, dell’imprenditoria e simili, ma di magistrati che indagano su altri magistrati, e di procure che si contendono competenze ballerine, con schizzi di fango che volano un po’ dappertutto e sfiorano persino il Quirinale, passano purtroppo per minori le notizie di ordinaria disamministrazione degli affari penali. E’ quella, per esempio, sottolineata dal Dubbio di un detenuto ostinatamente trattenuto in carcere tra carteggi allucinanti dai quali non ha potuto difendersi alla fine che uccidendosi in cella nel mese di gennaio del 2020.  Egli era imputato con altri sei che sono stati appena assolti nel tribunale calabrese di Locri dopo un’operazione chiamata “Canadian ‘ndragheta connection”.  

            Oltre ad essere innocente, com’è risultato dalla sentenza di assoluzione dei coimputati, il poveretto -Giuseppe Gregoraci, di 51 anni- aveva la disgrazia di essere invalido per avere perduto in un incidente di strada una gamba, sostituita con una protesi dipendente, per la sua funzionalità, da una fisioterapia che nel primo carcere di destinazione non era praticabile. Egli era stato pertanto trasferito a Voghera, dove neppure era stato possibile provvedere alle cure necessarie, mancando le quali non solo la protesi si rese inutilizzabile ma lui cadde in una depressione ancora maggiore di quella di cui già soffriva prima. E che era stata inutilmente segnalata dai difensori chiedendone quanto meno la detenzione domiciliare.  

            Mentre giudici di sorveglianza, periti, avvocati si scambiavano i soliti carteggi  fra lo sgomento degli stessi uffici penitenziari, le cui segnalazioni e sollecitazioni non producevano effetti, persa ogni speranza di ottenere almeno di cercare di curarsi a casa,  il poveretto si impiccò in cella. Sul caso ora sono aperte -ha raccontato l’avvocato Giuseppe Calderazzo- due inchieste: una a Pavia contro ignoti e una a Salerno su due giudici di sorveglianza per i quali però i pubblici ministeri hanno già chiesto l’archiviazione.

            Non so a voi, ma a me una storia come questa, destinata probabilmente a chiudersi senza che nessuno ci rimetta il posto,  procura uno sgomento ancora maggiore di un Pier Camillo Davigo, per esempio, passato in pochi giorni dalle stelle del magistrato severissimo, implacabile e altro ancora all’imbarazzo, credo, di un ex consigliere superiore della magistratura interrogato dalla Procura di Roma per fascicoli giudiziari di Milano passati anche per le sue mani su una presunta loggia massonica partecipata da giudici e capace di interferire in carriere, sentenze e quant’altro.

 Se neppure negli affari semplici, come dovrebbero ritenersi quelli di un detenuto invalido e in condizioni così rovinosamente depressive da averlo portato alla morte, si riesce a venire a capo di nulla, come pensate che il cittadino comune possa o debba avere fiducia nella possibilità di venire a capo di un affaraccio come quello di cui Davigo è stato chiamato a parlare in una Procura come persona informata dei fatti? E non condividere piuttosto, tra tanti palleggiamenti di responsabilità e competenze per presunte mancate o scarse indagini, il sospetto di Piero Sansonetti sul Riformista che “così stanno affossando l’inchiesta sulla loggia Ungheria”, sembra dall’omonima piazza di Roma.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it 

Processo al Pd in memoria di Franco Marini a tre mesi dalla morte

A meno di tre mesi dalla morte di Franco Marini, lo storico ex segretario generale della Cisl, poi ministro, segretario del Partito Popolare, presidente del Pd e presidente del Senato spentosi il 9 febbraio all’età di 87 anni, vittima anche lui della pandemia, l’ex parlamentare Giorgio Merlo ne ha descritto la figura con fedeltà pari all’amicizia in un libro delle Edizioni Lavoro che va ben oltre una commemorazione.

La copertina del libro di Giorgio Merlo

 La rievocazione dell’impegno politico e morale di Marini è quasi la premessa di un giudizio sostanzialmente liquidatorio del Pd. Di cui diventando presidente egli fu leader ritenuto più “onorario” che reale, quale invece avrebbe meritato di essere considerato.  E’ un giudizio liquidatorio conclusivo di un processo che direi scontato per quell’offesa immeritata, e persino disumana l’anno dopo la morte della moglie Luisa, riservatagli il 18 aprile 2013 con quei 151 voti negatigli a scrutinio segreto dai “franchi tiratori” del Pd per l’elezione a presidente della Repubblica. “Ci fu -avrebbe poi raccontato l’amico Pier Luigi Castagnetti- fuoco amico e in gran parte anche esplicito dei renziani e parte dei prodiani”, che poi non avrebbero tratto alcun vantaggio dall’operazione perché naufragò anche la candidatura dell’ex presidente emiliano del Consiglio.

            Stento tuttavia a credere -scusate la sincerità- che non avessero partecipato al boicottaggio di Marini anche esponenti della componente post-comunista, peraltro la più numerosa, del Pd: una componente ostinatamente educata, diciamo così, durante la cosiddetta prima Repubblica a scambiare uomini della Dc come Carlo Donat-Cattin e Franco Marini per nemici, considerati abusivamente di sinistra con l’aggiunta dell’aggettivo sociale. Nel Pci l’unica e vera sinistra della Dc era considerata quella chiamata “Base”, che aveva scommesso tutto sulla cosiddetta evoluzione del partito comunista e riteneva alla fine  gli alleati socialisti meno affidabili, oltre che meno numerosi.

Una foto d’archivio di Franco Marini con Giorgio Merlo

            Il giudizio liquidatorio del Pd, alla cui fondazione pure aveva contribuito Marini confluendovi con la Margherita, dove con più soddisfazione e rispetto aveva condotto precedentemente il Partito Popolare succeduto alla Dc, è rimasto nel libro di Merlo anche dopo l’avvicendamento avvenuto al vertice fra il post-comunista Nicola Zingaretti e il post-democristiano Enrico Letta.  ll cui arrivo non è bastato ad attenuare l’accusa di Merlo al Pd di avere inseguito i grillini sulla strada del populismo, dell’antipolitica e di tutto il resto che ha liquefatto i partiti. Non mi spingo a immaginare Merlo di fronte all’abbraccio metaforico di ieri di Letta a Fedez.

            Del Pd “plurale” al quale Marini volle credere dev’essere rimasto assai poco, diciamo pure niente, se Merlo ne ha in qualche modo testimoniato e provato -preferendo poi partecipare alla “Rete bianca” dei “cattolici in movimento”- l’articolazione in “correnti, gruppi, gruppuscoli, sottocorrenti e bande il più delle volte legate a un capo che usa queste estemporanee aggregazioni per ragioni di puro potere, a prescindere da ogni valenza politica e culturale” (pagina 105). Persino i popolari -quelli che dovevano ispirarsi a Marini- avrebbero finito per diventare una replica dei “dorotei”. Che furono la parte più opportunistica e discreditata della pur gloriosa Democrazia Cristiana.

            Contro la politica “liquida e improvvisata” dei nostri tempi, alla prospettiva di lasciare senza eredi la pur “grande eredità” di Marini, vista l’occasione perduta dal Pd, Merlo preferisce quella di “disseminarla in più formazioni politiche, senza un preciso ancoraggio ad un solo partito”.

            Arricchito da una prefazione dell’ex segretaria generale della Cisl Annamaria Furlan e da una introduzione di Gerardo Bianco, compartecipe di Marini nelle avventure post-democristiane del Ppi e della Margherita, ma non del Pd, il libro di Merlo si distingue anche per la forza documentativa con la quale ricostruisce la continuità al vertice della sinistra sociale democristiana fra Carlo Donat-Cattin, morto nel 1991,  e lo stesso Marini: altro che il quasi andreottiano di complemento, come qualcuno cercò di spacciarlo e che Merlo non ha degnato neppure di un riferimento esplicito.

Una foto d’archivio di Franco Marini e Giulio Andreotti

  Nelle elezioni politiche del 1992, con la preferenza unica imposta dal referendum dell’anno prima e Giulio Andreotti esentato dalla prova perché senatore a vita, Marini fu eletto a Roma nella lista scudocrociata con 116 mila voti contro i 114 mila dell’andreottiano Vittorio Sbardella. E nel 2006 sarebbe stato sempre e proprio Marini a contendere e strappare la presidenza del Senato a un Andreotti sostenuto dal centrodestra.

L’investitura di Marini a capo della sinistra sociale rimase quella del convegno annuale della corrente del 1990 a Saint Vincent, dove Carlo Donat-Cattin disse testualmente di “sentirsi più che mai vicino a Marini, quasi come passando il testimone…il che avverrà”, come se avesse avvertito l’epilogo della sua vita straordinaria, densa di grandi battaglie, e anche di grandi dolori.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it l’8 maggio

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