Le scuse proprio no per l’operazione italo-francese di “Ombre rosse”

            Trovo anch’io “lunare” -addirittura come Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, pensate un pò- il dibattito politico e mediatico che si è aperto sulla cosiddetta operazione “Ombre rosse”. Che, praticamente concordata ai massimi livelli fra il capo dello Stato francese Emmanuel Macron e il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, ha fatto scattare gli ordini di arresto a Parigi contro dieci fuggitivi dalle sentenze di condanna emesse in Italia per reati di terrorismo e dintorni. Nove di essi, arrestati o consegnatisi spontaneamente, sono adesso in libertà vigilata, in attesa delle lunghe procedure per l’estradizione chiesta dall’Italia. Uno è ancora latitante, mentre scrivo, nel tentativo di far decadere per prescrizione il 10 maggio la condanna per tentativo di sequestro e sfuggire ai 5 anni di carcere che deve ancora scontare in Italia.

            Considero “lunare”, ripeto, sia la domanda “E ora che ve ne fate?” rivolta da Adriano Sofri, come chiese Palmiro Togliatti a suo tempo a Giancarlo Pajetta che gli comunicava di avere occupato la Prefettura di Milano, sia lo scandalo denunciato con quel “Tutti a casa” da qualche giornale dopo la libertà vigilata disposta dalle autorità francesi per i catturati o consegnati. Questa giustizia praticata così, all’ingrosso, da chi pretende di sostituirsi agli organi preposti ad amministrarla, disponendo con un titolo di prima pagina ciò che i magistrati, del nostro e di altri Paesi, debbono fare o non fare è essa sì uno scandalo.

            Qui sono in gioco -oltre ai destini personali dei condannati, ricercati e quant’altro, tutti comunque al sicuro, e non come i morti nelle bare o nelle urne cenerarie dove sono stati mandati nei cosiddetti anni italiani di piombo-  questioni di principio altissime. Con le quali non può giocare, dall’alto della sua cultura, che gli riconosco, per carità, neppure Sofri sopra, sotto, dietro e accanto alla testata del Foglio di Giuliano Ferrara. Che ha ritenuto, chissà poi perché, di dargli man forte precisando di non gioire dell’operazione scattata in Francia. Ma chi gioisce, carissimo Giuliano? Qui non c’è nulla di che gioire. Qui il problema è solo quello di ripristinare il combinato delle leggi e delle più elementari regole di convivenza umana che è stato violato per una cinquantina d’anni. E per il quale tu stesso, ancora carissimo Giuliano, sentisti il dovere di mobilitarti da giovane militante e dirigente comunista, come hai voluto ricordare giustamente vantandone, con un’azione di deciso contrasto al terrorismo e di denuncia, a rischio della tua stessa incolumità fisica. Cerchiamo adesso di essere seri, e non snob.

            Personalmente, anche a costo di essere scambiato per un garantista fasullo o fallito, più che nelle domande più o meno spiritose di Sofri- “E ora che ve ne fate?”, ripeto- mi sento colpito e turbato dalla dichiarazione con la quale Andrea Casalegno, figlio di una vittima del terrorismo, e che vittima, ci ha ricordato che un assassino non può mai diventare ex perché una tale condizione è impedita all’assassinato. Il resto è chiacchiera, e comunque disciplinato da leggi che consentono sempre di commisurare le pene alle condizioni dei condannati, se applicate naturalmente con la dovuta e auspicabile  perizia e umanità.

            Non mi sento francamente dovuto, come vorrebbero i cacadubbi di turno, a scusarmi con i rifugiati in Francia per il disturbo che stanno loro procurando quei rompiscatole, evidentemente, di Macron e Draghi. Le scuse proprio no. Piuttosto, bisognerebbe aspettarsene.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Una brutta giornata per gli interessati alla crisi del governo Draghi

            Non c’entrano apparentemente nulla l’una con l’altra le due notizie di giornata, chiamiamole così. Che sono, nell’ordine che preferite, anche diverso dal mio, gli arresti in Francia di sette italiani condannati in via definitiva tanti anni fa per terrorismo, e dintorni, fra cui Giorgio Pietrostefani per il delitto del commissario Luigi  Calabresi, e il salvataggio politico in Italia del ministro della sanità Roberto Speranza. Sono due notizie che non c’azzeccano niente l’una con l’altra, direbbe Antonio Di Pietro, l’indimenticato Tonino di Montenero di Bisaccia che negli anni di “Mani pulite” fece sognare milioni di italiani smaniosi di manette o quanto meno di dimissioni, se non era proprio possibile ammanettare i politici di turno. E invece le due notizie hanno un filo che le unisce e riguarda la salute per niente precaria del governo di Mario Draghi. E ciò  proprio nel giorno in cui dall’interno del Pd torna a farsi sentire Goffredo Bettini, attivissimo nel coltivare la memoria di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, per dire al manifesto che quello in carica è un Gabinetto “di emergenza e transitorio”: tanto transitorio che “occorre prepararsi alla fase successiva”.

            Si sarebbe forse già passati a questa misteriosa fase successiva se ieri Matteo Salvini avesse fatto la fesseria, che i suoi avversari forse si aspettavano, di non votare al Senato contro la sfiducia al ministro Speranza proposta dai fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e da un po’ di ex grillini convinti che l’alternativa a Draghi ci fosse già prima della sua formazione accettata da Grillo in persona con le sue trasferte a Roma dopo la caduta di Conte. Ma Salvini non è il coglione -scusatemi la parolaccia, ormai sdoganata d’altronde nel dibattito politico da tempo- che i suoi avversari vorrebbero, specialmente dopo averlo visto sbagliare nel 2019 i tempi della crisi del primo governo Conte.

            Il governo Draghi, a partecipazione anche leghista, è molto più solido di quanto non vogliano Bettini e compagni, o amici. E’ tanto solido, e autorevole per l’uomo che lo guida, da avere appena strappato alla Francia di Emmanuel Macron ciò che ad altri, a cominciare dai due precedenti governi, non era riuscito: l’”ultimo atto degli anni di piombo”, come lo ha definito il quotidiano Repubblica, o “la ferita risanata”, come l’ha definita La Stampa. E’ la ferita del rifugio concesso dalla Francia di Mitterrand a un bel po’ di assassini, ormai anziani o anzianotti ma sempre assassini per le leggi e i tribunali italiani. Essi contribuirono a insanguinare il loro Paese per praticargli la rivoluzione rifiutata sistematicamente dagli elettori.

            Certo, è passato tanto tempo da quei fatti, le persone sono invecchiate e possono anche godere -come ha osservato un magistrato di valore e di esperienza come Guido Salvini- di tutti i benefici previsti dalle nostre leggi anche per i condannati, ma è pur sempre positivo che in una Europa finalmente un po’ più solidale di prima, messa alla prova anche dalla pandemia, ci sia un Paese che avverta il bisogno di sanare un torto fatto ad un altro vanificandone deliberatamente le sentenze. Capisco la sofferenza politica e forse anche umana che deve essere costata ai colleghi del manifesto la rinuncia alla tentazione di ritoccare la foto di prima pagina del cortile dell’Eliseo per mettere a mezz’asta il tricolore francese sotto il titolo “C’era una volta”. Ma “il patto Macron-Draghi”, come lo ha chiamato Il Messaggero, ha una valenza politica superiore alla stessa “fine della corsa” degli impuniti del terrorismo.   

Le monetine della grande vergogna di chi le lanciò 28 anni fa

Più si legge il libro di Filippo Facci appena pubblicato da Marsilio sul 30 aprile 1993, la giornata delle monetine, e di tutto il resto, lanciate contro Bettino Craxi per un linciaggio per niente improvvisato, visto il contesto ben ricostruito dall’autore, ben al di là degli spiccioli metallici forniti per una ventesima parte dal missino Teodoro Buontempo, e più sconcerta quell’ondata di odio che attraversò il Paese. E che in parte continua ancora a imprigionarlo, a 28 anni di distanza. E a ventuno dalla morte del leader socialista che aveva osato sfidare, più che  le leggi sul finanziamento dei partiti, peraltro in buona compagnia, l’onnipotente autoreferenzialità del Pci neppure del già defunto Palmiro Togliatti, ma di Enrico Berlinguer e dei suoi epigoni come Massimo D’Alema e Achille Occhetto.

  Mi chiedo ancora come avesse mai potuto tanta gente tutta insieme e per tanto tempo perdere letteralmente la testa per pentirsene solo in parte e dopo molto, a livelli anche altissimi. Come fu quello istituzionale di Giorgio Napolitano: il presidente della Camera che gestì con freddezza burocratica le famose sei votazioni sulle autorizzazioni a procedere contro il leader socialista, di risultati alterni, e attese dieci anni dopo la morte di Bettino per scrivere una lettera su carta intestata del presidente della Repubblica in cui certificare, diciamo così, la “durezza senza uguali” del trattamento riservato giudiziariamente, politicamente e mediaticamente a Craxi. Quelle monetine e tutto il resto della serata del 30 aprile, dopo un’intera giornata contrassegnata in varie parti d’Italia dalla intossicazione del dibattito politico e persino dei rapporti sociali, e un comizio di Occhetto a Piazza Navona  come in un avamposto quasi con vista sull’albergo-residenza romana del leader socialista, furono solo l’aspetto più fotografato o ripreso televisivamente, e curiosamente non ritrovato -come ha osservato e documentato Facci- sulla generalità delle prime pagine dei giornali della mattina seguente.

            Perché quella omissione, reticenza, autocensura e simili? In un attimo di generosità immeritata dai miei colleghi ho pensato ad un disagio per avere così abbondantemente e incivilmente partecipato alla creazione del clima necessario a quel monumento al linciaggio che fu metaforicamente innalzato la sera del 30 aprile davanti all’hotel Raphael.

            Facci ha scritto, fra l’altro, che quella sera “morì la politica”, al minuscolo e non a torto, perché essa aveva già perduto molta della sua lucentezza da tempo: almeno dal 1978 con la gestione del sequestro di Aldo Moro. In difesa della cui vita non a caso quella di Bettino Craxi era stata la sola o la voce più alta levatasi: persino più di Papa Montini. Che aveva pregato “in ginocchio” quei macellai delle brigate rosse di rinunciare all’epilogo tragico del sequestro “senza condizioni”, come forse gli aveva suggerito il presidente del Consiglio Giulio Andreotti e avrebbe desolatamente commentato lo stesso Moro in una delle ultime lettere dal covo in cui era rinchiuso.

            La politica sopravvisse per 15 anni, sino al 1993, solo grazie a Craxi. Che l’anno dopo la morte di Moro, scongelando il Psi dal freezer in cui l’aveva rinchiuso nel 1976 Francesco De Martino, liberò la Dc dalla catena del rapporto col Pci diventato asfissiante proprio con la tragedia Moro. E tornò a garantire in qualche modo la governabilità del Paese, guidandolo personalmente per quattro, faticosissimi anni, dal 1983 al 1987. La fermezza lui l’adottò non per  lasciare uccidere un leader indifeso, anzi così mal difeso da poter essere rapito e diventare ostaggio delle brigate rosse, ma per difendere -per esempio- il valore reale dei salari dall’inflazione galoppante che li divorava fra l’indifferenza dei tutori a parole della classe operaia o. più in generale, delle classi più deboli.

            L’Italia impazzita del 1993 era quella, fra l’altro, con larghissimo anticipo rispetto ai tempi di Beppe Grillo, che lasciava dire impunemente ad un professore dell’Università Cattolica e “ideologo” della Lega come il senatore Gianfranco Miglio che “il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più alto della parola”. E il suicidio di un indagato o di un imputato -in sintonia con un magistrato come Gerardo D’Ambrosio- la forma quasi più alta di pentimento, o rimorso.

            Aldo Moro nel 1959 aveva trovato Miglio nell’elenco dei consulenti del suo predecessore alla segreteria della Dc, Amintore Fanfani. Egli volle pertanto conoscerlo e rimase tanto scioccato dalle sue proposte di modifica della Costituzione in vigore da soli 11 anni, con tutti i suoi meccanismi di garanzia, che rinunciò ad avere con lui altri incontri. Immagino che nei giorni del sequestro del leader democristiano anche Miglio fosse per la linea della fermezza contestata dal segretario socialista.

Moro e Craxi, come vedete, ancora una volta abbinati, come Facci nel suo libro fa riferendo di quando il premier inglese Blair chiese a Marcello Sorgi perché mai in Italia avessero lasciato morire in quel modo Craxi all’estero, senza permettergli di curarsi libero in Italia. L’ex direttore della Stampa gli rispose che i governi italiani avevano trattato su tutti e  con tutto “fuorché con le brigate rosse per Moro e con la magistratura per Craxi”. E’ vero. 

Pubblicato sul Dubbio

L’informazione ha qualche problema di rapporto con la politica e i lettori

            Uno legge non il solito Fatto Quotidiano, secondo il quale al governo “stanno impazzendo” per contrasti, confusione e quant’altro, ma la più compassata Repubblica della nuova proprietà torinese con l’annuncio, sempre su tutta la prima pagina, di un Draghi che “chiede lealtà a Salvini”, e pensa a chissà quale crisi scongiurata all’ultimo momento. O ancora a rischio di esplosione, nonostante l’approvazione parlamentare del piano di ripresa, avvenuta peraltro al Senato con l’astensione e neppure il voto contrario della destra di Giorgia Meloni, pur critica nel dibattito.

Insospettito o allarmato, come preferite, il lettore cerca nelle cronache della stessa Repubblica il racconto di questo Draghi nervoso con Salvini, a dir poco, e non trova nulla, proprio nulla, neppure dieci parole virgolettate, o ancora meno, che possano documentare, diciamo così, la notizia sparata nel titolo. Trova solo l’imbarazzo di un Draghi che più volte nella sua replica a Palazzo Madama ha scambiato i senatori per deputati, scusandosene prontamente, non so se più con i senatori o con i deputati. E fra i senatori, particolarmente quelli della maggioranza, il presidente del Consiglio ha avuto la possibilità di sentirsi ringraziare da entrambi i Mattei accomunati in una rappresentazione movimentista -Renzi e Salvini, in ordine rigorosamente alfabetico- per la restituita “autorevolezza” all’Italia. Da Salvini poi -come se non dovesse o potesse bastare la presenza fisica, a stretto contatto di gomito ai loro posti dello stesso Draghi e del ministro leghista dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti- è arrivato anche questo testuale annuncio, per quanto potrà essere risultato sgradito ad altri nella stessa maggioranza: “Non ci muoveremo dal governo”.

            Ma cos’è allora accaduto, magari dietro le quinte, più da retroscena che da scena, per indurre anche quelli del manifesto a titolare su un Salvini che “spacca il governo” pur continuando a tenervi i suoi bravi ministri e sottosegretari e a garantire che non ha nessuna intenzione di ordinare loro di dimettersi? E’ accaduto solo -pensate un po’ quanto gravemente, inaspettatamente, clamorosamente ed altro ancora- che la maggioranza ha concordato un ordine del giorno che impegna il governo, come aveva già annunciato peraltro il presidente del Consiglio, di riesaminare nell’ormai imminente mese di maggio il problema degli orari del cosiddetto coprifuoco, valutando i dati dell’andamento della pandemia.

            In coerenza con questo ordine del giorno, che certamente non esclude di accorciare il coprifuoco, i leghisti e i forzisti si sono astenuti su un ordine del giorno della destra meloniana, contribuendo quindi a farlo bocciare, non approvare, che voleva anticipare, anzi saltare la verifica di maggio e cambiare subito gli orari del tutti a casa. Mi chiedo dove sia lo scandalo, la gravità, lo sconquasso che possa spiegare o giustificare l’allarme di quei titoli su Draghi fuori dalla grazia di Dio, del tutti “impazziti” o in via di impazzimento e della spaccatura irrimediabile, per niente stuccata per cercare di nasconderla.

            Se questo è lo stato dell’informazione in Italia, speculare solo ai giochi o alle trame politiche per fare da sponda a questa o a quella parte che si riposiziona continuamente e cerca di smarcare le altre, i giornali sono messi francamente male: peggio della politica e degli attori che cercano di scimmiottare, più che raccontare.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it   

Franceschini sbotta contro Enrico Letta in difesa di Mario Draghi

            Nel giorno in cui Mario Draghi ottiene dalle Camere quella che il manifesto non ha esagerato a definire “una delega in bianco” sul piano della ripresa, di cui egli si è fatto personalmente garante con l’Unione Europea grazie al prestigio di cui gode a livello internazionale, non è casuale che dall’interno del Pd si sia levata una voce di richiamo alla realtà che ha investito anche il nuovo segretario del partito Enrico Letta. Alle cui recenti e insistite spinte a Matteo Salvini ad essere coerente con le sue contestazioni delle misure antipandemiche passando all’opposizione con Giorgia Meloni, il ministro Franceschini ha preferito tutt’altro auspicio. “Questo -ha detto al Corriere della Sera- è un governo di avversari per l’emergenza….di avversari che devono collaborare….Io sono convinto che non ci vorrebbe molto a mantenere da parte di tutti un atteggiamento costruttivo nell’interesse del Paese”.

            “Da parte di tutti” significa naturalmente anche Salvini, ma pure Enrico Letta, se non soprattutto lui, vista la funzione d’ariete che l’ex esule ha preferito assumere negli ultimi giorni contribuendo ad esasperare, quanto meno, quello scontro a dir poco spropositato su un’ora in più o in meno del coprifuoco. Che peraltro il segretario del Pd ha incautamente contribuito  a tradurre in un vantaggio politico del leader leghista per ammissione anche di altri avversari dell’”Infilitrato” Salvini.

            Entrambi di provenienza democristiana, ma con Franceschini più allenato nel gioco delle correnti e, più in generale, nelle manovre interne di partito per consolidare gli equilibri esistenti o per crearne di nuovi all’occorenza, secondo le circostanze e le convenienze, i due leader del Pd non potevano dare rappresentazione più plastica delle tensioni politiche che investendo il partito pur più solido della maggioranza, sia rispetto ai grillini ormai allo sbando sia rispetto ai leghisti divisi -diciamolo pure- fra il ministro Giancarlo Giorgetti e Matteo Salvini, l’uno dentro e l’altro fuori dal governo, sono il pericolo più insidioso dal quale si deve guardare ora il presidente del Consiglio. Che parla a suocera perché nuora intenda quando dice, come ha fatto in Parlamento, che questa del piano della ripresa con più di duecento miliardi di euro a disposizione è l’occasione che il Paese semplicemente non può perdere. E sulla quale lui personalmente ha scommesso avendo in fondo più stima dei connazionali di quanta essi non mostrino di meritare con certi atteggiamenti.

            In questo quadro ha un po’ del patetico anche il tono esasperato dell’opposizione della destra di Giorgia Meloni. Che si trova senza neppure accorgersene a competere curiosamente col Fatto Quotidiano sul se e come Draghi possa essere considerato diverso dal suo immediato predecessore. Alla Meloni sarà piaciuto il fotomontaggio del Fatto in cui oggi Draghi e Conte finiscono per avere lo stesso volto deformato.

Conte fra il buon pastore e il cane del gregge di Beppe Grillo

Chissà se sono fischiate le orecchie a Giuseppe Conte domenica scorsa, che è stata una doppia festa: civile per i 76 anni trascorsi dalla Liberazione, quella con la maiuscola dal nazifascismo, e religiosa per la figura del Buon Pastore evocata nel Vangelo secondo Giovanni con le parole di Gesù, che conosce le sue pecore e ne è riconosciuto.

            Più il sacerdote parlava di questo Vangelo della quarta domenica di Pasqua e più io pensavo, al limite della blasfemia, all’ex presidente del Consiglio Conte, appunto, a causa di ciò che avevo letto il giorno prima sul Corriere della Sera in una intervista di Romano Prodi. Che parlando del “magma di stato nascente” del Movimento 5 Stelle e della “implosione” secondo lui mancata perché ne sarebbe uscita solo “una minoranza estremista”, si era consolato sapendo ormai la maggioranza dei grillini affidata in buone mani per trovare finalmente “una coerenza e un equilibrio interni”.  

            “Con Conte?”, gli aveva chiesto Massimo Franco, non so se con più scetticismo o curiosità. E Prodi a sua volta: “E chi altro? Il cane pastore dei Cinque Stelle è lui”.

            Da fedele migliore o meno tentato di me dalla blasfemia, Prodi dunque non aveva scomodato Gesù e aveva paragonato Conte solo al “cane pastore” e suoi simili. Che -aveva spiegato il professore emiliano- “girano, vanno da una pecora, poi dall’altra. Ne mordono qualcuna riluttante al garetto per portarla dove c’è l’erba verde”.  Io invece ho avuto più riguardi di Prodi verso Conte e, piuttosto che paragonarlo a un cane, l’ho immaginato all’altezza di almeno un buon pastore al minuscolo, comunque diverso dal “mercenario” ricordato da Gesù nel Vangelo come quello che “non è pastore, al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, le abbandona e fugge”, per cui “il lupo le rapisce e le disperde”. Il cane lupo indicato da Prodi è invece solo l’animale del Buon Pastore, al maiuscolo, che lo aiuta a governare le pecore.

            Insomma, a conti fatti, anche evangelici, pensando a lui durante la predica del sacerdote io sono stato con Conte  più carino del suo pur amico politico Prodi, per quanto lo avesse promosso ad affidabile interlocutore, anzi alleato del suo Pd: suo, cioè di Prodi, nonostante le brutte sorprese riservategli in passato, specie nella corsa del 2013 al Quirinale, boicottato con impietoso successo da cento e più “franchi tiratori”. Che si erano evidentemente rivoltati alla scelta di Prodi come candidato per acclamazione, dopo l’insuccesso  già spiacevole del presidente del partito Franco Marini.

            Prodi ne rimase tanto scioccato, al di là delle risatine opposte agli amici come per rassicurarli, facendo loro credere che in fondo non aveva davvero creduto di potercela fare, che ha tenuto nella già ricordata intervista al Corriere a tirarsi fuori dalla prossima edizione della corsa al Quirinale. Cui invece alcuni giornali lo hanno già iscritto d’ufficio con un bel po’ di colleghi di partito come Walter Veltroni, Dario Franceschini, Paolo Gentiloni, Davide Sassoli ed Enrico Letta: neppure una donna, come vedete, per quanto lo stesso segretario abbia recentemente sventolato la bandiera della parità di genere per cambiare entrambi i capigruppo parlamentari.

            “Non ho l’età, come cantava Gigliola Cinquetti: nel senso però che ne ho troppa, quasi 82 anni”, ha motivato Prodi la sua rinuncia a correre aggiungendovi tuttavia un altro motivo ancora: “Sono stato un uomo di parte, e in fondo lo sono ancora”, come per giustificare generosamente i franchi tiratori di otto anni fa. Ma, per favore, non credetegli più di tanto, specie nel passaggio canoro dell’età, perché gli 82 anni sulle spalle non impedirono nel 1978 l’elezione di un presidente della Repubblica che è stato probabilmente il più popolare tra quelli succedutisi al Quirinale: Sandro Pertini. Anzi, l’età fu paradossalmente tra gli elementi a favore della sua candidatura, avanzata dopo quelle tentate o fallite del suo compagno di partito Giuliano Vassalli e del suo ex compagno Antonio Giolitti, approdato da tempo fra i comunisti senza guadagnarsi tuttavia il perdono della sua origine.

            Il democristiano Flaminio Piccoli si lasciò scappare un rassegnato consenso a Pertini proprio per i suoi 82 anni, che avrebbero potuto statisticamente renderne breve il mandato. Pertini invece volle e seppe condurre regolarmente a termine il suo incarico, in forma quasi come il primo giorno, anzi con la voglia o la disponibilità neppure tanto nascosta di raddoppiarlo alla scadenza, se solo glielo avessero proposto. Al Quirinale egli avrebbe forse trovato l’adrenalina necessaria alla seconda missione. Atro che morire nel 1990, a 94 anni.

Pubblicato sul Dubbio

Mario Draghi fra la mancata brava gente dell’altro ieri e di oggi

            Mario Draghi, che il 25 aprile 1945, data simbolica della liberazione dell’Italia dal nazifascismo arroccatosi al Nord, non era ancora nato ma avrebbe poi appreso dai familiari, dai libri, dai giornali e da quant’altro abbastanza per poter dire a ragione ieri, e in prima persona  generosamente al plurale, che “non fummo tutti brava gente”. Che non tutti seppero o vollero scegliere la parte giusta. Che forse peggiori di quelli che scelsero la parte sbagliata furono gli indifferenti.

            Ben detto, naturalmente. Ma nello stesso giorno di così onesta e rude rievocazione del passato al povero presidente del Consiglio -che purtroppo non potrà dolersene pubblicamente per ovvie ragioni di diplomazia politica, diciamo così- è capitato di sentire un esponente importante dell’ampissima maggioranza che lo sostiene spingere un altro partito ad uscirne, pur sapendo che ciò indebolirebbe il governo d’emergenza voluto dal capo dello Stato e regolarmente fiduciato dalle Camere. Neppure oggi, quindi, pur fatte le debite proporzioni, per carità, siamo tutti brava gente come comunità politica.

            Chi spinge per la crisi, almeno con le parole, è il segretario del Pd Enrico Letta, pur insediatosi di recente al posto che fu di Nicola Zingaretti riconoscendosi pienamente nel governo Draghi, che sembrava invece essere stato più subìto che gradito al predecessore. Il quale tanto poco si era occupato, o così male, della squadra dei ministri da imbarcarvi o lasciarvi da dimenticarsi del tutto delle donne. Che il successore ha poi compensato in qualche modo mandandole ai vertici di entrambi i gruppi parlamentari.

            La componente del governo che non piace al nuovo segretario del Pd, come al vecchio, è quella leghista agli ordini politici di Matteo Salvini. Che, secondo Enrico Letta, vorrebbe essere di lotta e di governo insieme, come se le altre componenti, compresa quella del Pd, per non parlare dei grillini in corso di rifondazione sismica -scusate l’ossimoro- e perciò in pieno caos, fossero di cristallo governativo, non preoccupate pure loro di proteggere gli interessi veri o presunti dei loro elettorati dagli effetti della pandemia virale.

            Ciò di cui Enrico Letta ha mostrato di mancare con la sua sortita, che ha in qualche modo sorpreso anche la conduttrice televisiva che lo intervistava, Lucia Annunziata, è il realismo. Che pure egli ha insegnato a Parigi nei sei anni e più di esilio assegnatosi dopo essere stato in malo modo allontanato da Palazzo Chigi da Matteo Renzi. Parlo del realismo, per esempio, col quale un supercritico di Salvini come Giuliano Ferrara, che lo chiama “l’Infiltrato”, gli ha onestamente riconosciuto proprio oggi sul suo Foglio, grazie proprio agli errori di Enrico Letta e simili, che non ha vinto ma stravinto la battaglia per intestarsi i meriti delle cosiddette aperture nella gestione della pandemia e scaricare sugli altri i demeriti delle perduranti chiusure, o delle aperture mal fatto e peggio amministrate.

            E’ proprio delle ultime ore lo scontro fra un sottosegretario grillino all’Interno e la ministra forzista dei rapporti con le regioni: il primo smanioso di vedere multati e denunciati da stasera quanti saranno sorpresi per strada alle ore 22 e un minuto, la seconda -sostenuta a Palazzo Chigi, se non ho capito male- disposta a lasciare ai reduci dalla cena il tempo per tornare a casa. E Salvini naturalmente gode politicamente: “l’irreversibile” Salvini, secondo il titolo viola del giornale Domani.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Decisivo il “fattore Draghi” nel varo del piano per la ripresa fra i dubbi europei

Nel convulso finale della gestazione governativa del piano della ripresa, plasticamente rappresentato dai rinvii delle sedute del Consiglio dei Ministri cui anche Mario Draghi ha dovuto ricorrere scusandosene, c’è solo da decidere, o scegliere, dov’è la notizia di quella che il Corriere della Sera ha definito nel titolo di prima pagina la “prova di forza con l’Europa”. E’ nella “strigliata di Ursula” gridata dal Fatto Quotidiano, con relativo fotomontaggio della presidente della Commissione europea col dito sull’orologio al polso e un braccio sulla spalla di un mortificato presidente del Consiglio italiano? O è nel “rispetto” per il nostro Paese reclamato al telefono, con la stessa Ursula Von der Layen, da un Draghi in grado, diversamente dal suo predecessore Giuseppe Conte, di concludere la discussione su contenuti, tempi e modalità di attuazione del piano dicendo “Garantisco io”, senza sentirsi rispondere con una risata?

            Non so voi come la pensiate, ma a me sembra che la notizia sia la seconda, con buona pace di quanti ancora rimpiangono il precedente inquilino di Palazzo Chigi e si ostinano a negare l’evidenza di quello che chiamerei “il fattore Draghi”. Su cui non a torto ha scommesso il presidente della Repubblica, con un largo consenso del Parlamento, e dello stesso Conte espresso in piazza, fra Palazzo Chigi e la Camera, in un improvvisato monologo davanti alle telecamere, e i microfoni appoggiati su un banchetto.  

            Ora Conte, grazie a Dio, più ancora che a Matteo Renzi, messosi in competizione con tutti per attribuirsene il merito, è alle prese con altri problemi che penso più consoni al suo imprevisto esordio politico direttamente da presidente del Consiglio, tre anni fa. Sono i problemi dei grillini lasciatigli in eredità da Grillo in persona. Il quale adesso, preso com’è anche da problemi familiari, diciamo così, non avrebbe né la voglia, né il tempo di affrontare e risolvere, prigioniero anche del groviglio dei rapporti gestiti in passato con Casaleggio padre prima e con Casaleggio figlio poi. Il quale -se non ho capito bene leggendo le ultime cronache sotto le cinque stelle- reclama dopo il “divorzio” dal MoVimento una liquidazione di circa mezzo milione di euro, alla cui raccolta pare stia provvedendo nella sua veste di rifondatore, e non so cos’altro, lo stesso Conte.

            Poi dei grillini o di quel che ne rimarrà politicamente, fra piazze, Camere e urne, staremo tutti a vedere, col fiato più o meno sospeso, a cominciare -credo- dal nuovo segretario del Pd Enrico Letta. Ma tenendoci intanto ben stretto il già ricordato “fattore Draghi”, specie in questo giorno di festa della Liberazione in cui molti celebrano in anticipo di 24 ore anche un’altra liberazione, sia pure parziale e un po’ pasticciata- bisogna ammetterlo- dalle restrizioni pandemiche. Fra le quali c’è un coprifuoco rimasto ancora per un po’ sulla carta, per il suo inizio, alle ore 22 ma con la precisazione appena fornita dalla ministra forzista dei rapporti con le regioni, Mariastella Gelmini, che non sarà multato, e tanto meno denunciato, chi dopo quell’ora -e presumo almeno sino alle ore 23 reclamate inutilmente da Matteo Salvini- sarà colto in flagranza, diciamo così, di ritorno a casa.  

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Il destino da pecore profetizzato da Romano Prodi per i grillini con Conte

            Manca solo la cinematografica “polvere di stelle” all’elenco delle definizioni della crisi dei grillini dopo l’ultimo scontro fra l’associazione di Davide Casaleggio intitolata a Rousseau, che ha messo in cassa integrazione i dipendenti, e il vertice ormai anonimo del movimento maggiormente rappresentato in Parlamento dalle elezioni del 2018. Vi offro solo alcune delle parole o immagini offerte dai titoli e dalle cronache dei giornali: transizione, rottura, strappo, divorzio, distacco, bancarotta, addio, big bang, agonia, funerale. A pensarci bene, oltre alla polvere di stelle, manca anche il naufragio, ma solo per non fare confusione -credo- con quello vero e proprio appena scoperto al largo della Libia con più di cento morti e finito giustamente su tutte le prime pagine dei giornali fra le solite grida di dolore, proteste, polemiche e palleggi di responsabilità nella gestione di questa continua  tragedia di migranti.

            Come una sibilla ambrosiana, dai suoi uffici milanesi  Davide Casaleggio ha emesso frasi aperte a ogni tipo di interpretazione e scenario. “Noi siamo movimento”, ha detto omettendo l’articolo al sostantivo, per cui si può immaginare ma anche scartare la scissione. L’articolo invece compare in quest’altra fase:“Il movimento è dov’è chi ne rispetta i principi”, per cui si potrebbe addirittura pensare che il giovanotto consideri ormai abusivo tutto ciò che è fuori dalla sua associazione pur in crisi di sopravvivenza con quella foto di piazza sul blog delle stelle  e il riconoscimento scritto che “oggi siamo a terra” e la certezza, non speranza, che “ci rialzeremo”, si vedrà in che modo ed eventualmente in quanti movimenti, al plurale.

            Immagino lo sconcerto di Giuseppe Conte, forse costretto a rinviare ancora, spinto anche dagli sviluppi di alcune vertenze giudiziarie alle quali ne stanno sopraggiungendo altre, il debutto da “rifondatore” annunciato per il 29 aprile. E continuo a pensare che l’ex presidente del Consiglio sia sotto sotto tentato dalla rinuncia, trattenuto solo dal desiderio di fare un dispetto a quel rompiscatole di Matteo Renzi avventuratosi a prevederla, o consigliarla.

            L’unico incoraggiamento a Conte, per quanto relativo, è arrivato in una intervista al Corriere della Sera dall’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, che temeva di peggio da quello che ha definito “il magma di stato nascente” del Movimento 5 Stelle, cioè la “implosione”. A me, in verità, essa sembra evidente ma non a Prodi, che probabilmente se ne intende di più con la sua pur sfortunata esperienza con i  movimenti che non hanno mai fatto durare i suoi governi più di 19 mesi: 17 il primo- fra il 1996 e il 1998-  e 19, appunto, il secondo dieci anni dopo

            Evidentemente convinto che Casaleggio non abbia munizioni per un suo eventuale progetto davvero scissionistico, Prodi sostiene che dal “magma” grillino sia “uscita solo una minoranza estremista” e che quelli rimasti “trovino una coerenza e un equilibro interni” grazie a quel “cane pastore dei Cinque Stelle” che sarebbe Conte. “Un po’ esitante”, gli ha fatto notare l’intervistatore. “Ma i cani pastore girano, vanno da una pecora, poi dall’altra”, ha risposto olimpicamente Prodi. Che ha insistito, sempre parlando dei cani pastore alle prese con le pecore: “Ne mordono qualcuna riluttante al garretto per portarla dove c’è l’erba verde. E poi, quelle riluttanti sono già andate via: per ora meno del previsto, in realtà”. Ma, appunto, “per ora”, caro il mio professore.

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La sottosegretaria che sorpassa Grillo richiamata dalla ministra Cartabia

            Non credo, o almeno mi auguro che non sia stata solo la mancanza del dovuto “riserbo su un caso giudiziario aperto” ad essere stata rimproverata dalla guardasigilli Marta Cartabia alla sottosegretaria grillina alla Giustizia Anna Macina. Che è intervenuta sulla vicenda, appunto, giudiziariamente aperta del figlio di Beppe Grillo con una intervista al Corriere della Sera per spingersi dove neppure il padre si era avventurato nel suo clamoroso video di attacco a “giornalisti o giudici” che avrebbero fatto del suo Ciro e dei tre amici indagati a Tempio Pausania degli “stupratori seriali”. E non solo dei “coglioni” divertitisi quasi due anni fa in Sardegna “col pisello” in libertà su due coetanee “consenzienti”. Una delle quali ci avrebbe poi ripensato presentando una denuncia col ritardo sospetto di otto giorni, pensate un po’, pur avendo peraltro a disposizione un anno, concessole da una legge del 2019 voluta anche dai grillini contro lo stupro e altre violenze sulle donne.

            Ciò che Grillo si era  risparmiato di gridare nel suo video lo ha aggiunto, sorpassandolo, la sottosegretaria nell’intervista di solidarietà umana e politica in cui ha attaccato l’avvocato difensore della giovane denunciante per il suo doppio, anzi triplo ruolo di legale della presunta vittima, di senatrice della Lega e di avvocato di Matteo Salvini nei processi evitati o in corso per sequestro di persone e altro come ministro dell’Interno nell’azione di contrasto all’immigrazione clandestina. Sarebbe stata lei -ha insinuato la sottosegretaria rimediando dall’interessata, Giulia Bongiorno, l’annuncia di una querela e da altri la richiesta di dimissioni o rimozione dalla carica di governo- a riferire a Salvini delle informazioni ancora riservate sulle indagini dei magistrati sardi per consentirgli di partecipare alle polemiche scatenate da Grillo col suo intervento in difesa del figlio.

            Per fare valutare dai lettori il comportamento, oltre che di Grillo padre, della moglie e del figlio fiero della difesa dei familiari, anche della sottosegretaria -ahimè- alla Giustizia e della Guardasigilli limitatasi sinora ad un richiamo, che è sempre meglio di niente, per carità, ma anche meno -a mio avviso- della opportunità o necessità, credo che bastino e avanzino i fatti nei termini appena adoperati. Che non mi sembrano francamente arbitrari, esagerati e quant’altro. Sono i fatti nella loro semplicità e durezza.  

           La motivazione ufficiale dell’intervento della Guardasigilli si è peraltro prestata ad una campagna subito aperta dal Fatto Quotidiano, e condivisa dal debenedettiano Domani, contro il doppio mandato di parlamentare e di avvocato. E’ una materia incandescente, a dir poco, che complica ulteriormente la vicenda Grillo nella doppia dimensione, a sua volta, familiare e politica. Se era questo, in previsione di un rinvio a giudizio del figlio, l’obbiettivo perverso perseguito con la sua sfuriata telematica dal “garante”, “responsabile” e quant’altro del Movimento 5 Stelle in corso di rifondazione, bisogna ammettere che con l’aiuto della fedele sottosegretaria Macina, di nome e di fatto, esso è stato raggiunto. Chapeau.

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