Quella Via Crucis di Enrico Letta così poco promettente per il Pd

            Ironia a parte, naturalmente, non hanno poi tutti i torti quelle due donne che Enrico Letta ha appena fatto eleggere alla presidenza dei gruppi parlamentari del Pd a preoccuparsi -nella vignetta di Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera- sul tipo di Via Crucis celebrato venerdì santo dallo stesso Letta. Che, avvolto in un saio, e rigorosamente scalzo, si porta sulle spalle lungo la salita del Golgota il Conte appeso al nulla del discorso con cui ha esordito su Facebook come capo del MoVimento 5 Stelle. Le penitenti si chiedono, in particolare più la deputata Debora Serracchiani parlandone con la senatrice Simona Malpezzi, se non sia “Giuseppe”, cioè Conte, piuttosto che Enrico, cioè Letta, l’uomo destinato alla Resurrezione.

            Il rischio politico di un Pd che ha meno da guadagnare dal cantiere che il nuovo segretario si è compiaciuto di avere aperto, o ereditato da Nicola Zingaretti, col movimento pentastellato dell’eterno “garante” Beppe Grillo, c’è davvero. Lo ha esposto bene il professore Giovanni Orsina, intervistato dai giornali del gruppo Riffeser, dicendo che “Pd e nuovo movimento 5 Stelle si rubano voti a vicenda”.

Pertanto è difficile pensare che da quel cantiere possa davvero uscire una coalizione impropriamente definita di centro sinistra che, recuperando tutte le distanze accumulate nelle elezioni di ogni tipo svoltesi negli ultimi tre anni dopo quelle generali del 2018, possa vincere alle prossime consultazioni politiche contro la coalizione di centrodestra. Che, pur divisa oggi tra leghisti e forzisti da una parte, imbarcatisi nel governo di Mario Draghi, e i fratelli d’Italia di Giorgia Meloni dall’altra, rimasti all’opposizione per ragioni di igiene democratica, come la stessa Meloni ha spiegato, è destinata a ripresentarsi unita al rinnovo del Parlamento, come del resto lo è al governo della maggior parte delle regioni. Non dimentichiamo questo particolare, credo, non irrilevante dello scenario politico nazionale, che rimarrà tale comunque andranno a finire nell’autunno prossimo le elezioni in programma in pur importanti città come Milano e soprattutto Roma. Dove peraltro Letta, per quanti incontri cerchi di avere dentro e fuori casa, come quello di ieri con Luigi Di Maio, non essendo evidentemente bastato il colloquio con Giuseppe Conte di qualche giorno fa a due passi dal Senato, deve ancora trovare un candidato che eviti la conferma della sindaca uscente Virginia Raggi. Che, per quanto grillina, cioè appartenente al “cantiere” accennato sopra, sarebbe una clamorosa sconfitta per il Partito Democratico. O no?

            Per quanto possa essere per lui imbarazzante ammetterlo, sia per il contenuto del titolo sia per il giornale sulla cui prima pagina è stato pubblicato, cioè La Verità di Maurizio Belpietro, di sapore indiscutibilmente leghista, e perciò indigesto per l’uomo tornato al Nazareno, il segretario del Pd sa benissimo che il Conte reduce dall’esordio come capo del movimento grillino in corso di rifondazione può ben essere definito con felice sarcasmo “il dottor Divago”. Così come non è campato in aria il titoletto del Quotidiano del Sud, sempre in prima pagina, secondo il quale “Letta è partito”, con tutti i suoi spostamenti fisici e verbali, “ma il Pd è fermo”.

            Per fortuna Mario Draghi, con l’ampia maggioranza parlamentare di cui dispone e per la sua serietà, per quanto sfottuto quotidianamente da Marco Travaglio, che se la prende con la lingua bavosa dei sostenitori del presidente del Consiglio dimenticando quella dei nostalgici del predecessore, è alla guida del governo. E può sorridere anche di chi lo insolentisce.   

Il Conte del nuovo corso grillino alla prova col caso di Del Turco

Se all’ex presidente del Consiglio, professore, avvocato ma soprattutto capo esordiente di un “suo”, “nuovo”, “rifondato”, “rigenerato” movimento 5 Stelle, o quante ne risulteranno alla fine di questo processo evolutivo, chiamiamolo così, non dispiace, o addirittura non si offende, come spero non accada, vorrei chiedere una prova dei suoi buoni propositi, pur limitati -ho paura- da quel “senza rinnegare il passato” che ha inserito nel  lungo discorso di debutto. Una formula, quest’ultima, che somiglia tanto a quel che lo stesso Conte ed altri, come il nuovo segretario del Pd Enrico Letta, rimproverano all’europeismo praticato da qualche tempo da Matteo Salvini senza rinnegare -pure lui- il passato con parole, incontri internazionali e quant’altro, alla faccia pure del suo amico, compagno di partito e ministro Giancarlo Giorgetti.

            La prova che chiedo a Conte è una direttiva, un consiglio, una raccomandazione, come preferisce lui, a chi parteciperà giovedì prossimo per conto del suo movimento alla riunione dell’Ufficio di Presidenza del Senato, con tutte le maiuscole che gli spettano, sulla vicenda del vitalizio dell’ex parlamentare, ex ministro, ex sindacalista, ex segretario socialista Ottaviano Del Turco. Al quale, per quanto ammalato contemporaneamente di cancro, Parckinson e Altzeimer, praticamente in fin di vita, sono stati tolti i 5.500 e rotti euro percepiti prima dell’intervento punitivo perché condannato definitivamente a 3 anni e 11 mesi per “induzione indebita” come presidente della regione Abruzzo.

In quella veste Del Turco -è bene ricordarlo agli smemorati-  incorse in un processo procuratogli dalle accuse ritorsive di un imprenditore della sanità privata che lui aveva danneggiato facendone controllare senza sconti, diciamo così, conti e rapporti da convenzioni con gli uffici regionali.

            I millesettecento euro mensili di pensione che percepisce l’ex senatore per la sua attività sindacale, giustamente protetti da una legge dello Stato valida per tutti, anche i condannati e i detenuti,  dovrebbero bastare, e forse pure avanzare, secondo le valutazioni già espresse dall’Ufficio di Presidenza del Senato prima di riconvocarsi, a far vivere con la necessaria e costosa assistenza gli ultimi mesi o anni che restano a Del Turco.

 Ma se c’è una legge che ne tutela la pensione da sindacalista perché a Del Turco è negata la pensione di ex parlamentare che si chiama vitalizio, peraltro già ridotta dai tagli apportati a tutti i trattamenti di quel tipo per rapportarli meglio ai contributi effettivamente versati? Gli è negata per una delibera congiunta, che ne porta i nomi, dei presidenti delle Camere della scorsa legislatura, Pietro Grasso e Laura Boldrini, emessa sulla spinta della campagna anti-casta condotta dai grillini, allora peraltro ancora in minoranza in Parlamento ma già scambiati per i vendicatori di tutte le ingiustizie e di tutti i privilegi, veri o presunti che fossero, o siano ancora.

            Via, professore, avvocato, rifondatore del movimento ancora di maggioranza relativa nel Parlamento eletto nel 2018, per quanto esso  abbia perduto per strada un bel po’ di senatori e deputati, per non parlare dei punti perduti nelle varie elezioni di diverso livello svoltesi negli ultimi tre anni e dei sondaggi che spulciamo una settimana sì e l’altra pure sui vari giornali che li commissionano, dia un taglio a questa storia che francamente mi sembra coerente solo con una logica perversa, farcita di demagogia, populismo e -diciamolo pure- cattiveria. Alla quale è doveroso opporsi per un minimo sentimento di “pietà” o “umanità” non a torto invocate in questi giorni da chi sta cercando di difendere la dignità di un uomo, prima ancora di un ex parlamentare, ex ministro, ex sindacalista, ex politico, e padre -non dimentichiamo neppure questo- di un figlio incaricato dall’autorità giudiziaria di amministrarne, cioè tutelarne, diritti e interessi.  

            Cerchi, professore, almeno lei, di non avere imbarazzo, diciamo così, a guardarsi nello specchio pensando a ciò che si è fatto e si vorrebbe continuare a fare contro l’inerme Del Turco. E torni a ripetere ai suoi compagni ormai di movimento, anche se non mi pare che vi sia ancora iscritto, visto che lo sta rifondando, il danno che procurano anche a chi le pronuncia le parole che ha definito “aggressive”. E anche certi gesti che le accompagnano, come quelle forbici gigantesche pur di carta sventolate davanti al Parlamento. O certe gazzarre in aula.

Qui se c’è qualcosa da tagliare davvero è -creda a me, professore- la giustizia amministrata dai politici. I quali, come ha giustamente osservato l’ex guardasigilli Claudio Martelli, riescono a fare più danni, materiali e morali, dei peggiori magistrati.

Pubblicato sul Dubbio

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