Franceschini sbotta contro Enrico Letta in difesa di Mario Draghi

            Nel giorno in cui Mario Draghi ottiene dalle Camere quella che il manifesto non ha esagerato a definire “una delega in bianco” sul piano della ripresa, di cui egli si è fatto personalmente garante con l’Unione Europea grazie al prestigio di cui gode a livello internazionale, non è casuale che dall’interno del Pd si sia levata una voce di richiamo alla realtà che ha investito anche il nuovo segretario del partito Enrico Letta. Alle cui recenti e insistite spinte a Matteo Salvini ad essere coerente con le sue contestazioni delle misure antipandemiche passando all’opposizione con Giorgia Meloni, il ministro Franceschini ha preferito tutt’altro auspicio. “Questo -ha detto al Corriere della Sera- è un governo di avversari per l’emergenza….di avversari che devono collaborare….Io sono convinto che non ci vorrebbe molto a mantenere da parte di tutti un atteggiamento costruttivo nell’interesse del Paese”.

            “Da parte di tutti” significa naturalmente anche Salvini, ma pure Enrico Letta, se non soprattutto lui, vista la funzione d’ariete che l’ex esule ha preferito assumere negli ultimi giorni contribuendo ad esasperare, quanto meno, quello scontro a dir poco spropositato su un’ora in più o in meno del coprifuoco. Che peraltro il segretario del Pd ha incautamente contribuito  a tradurre in un vantaggio politico del leader leghista per ammissione anche di altri avversari dell’”Infilitrato” Salvini.

            Entrambi di provenienza democristiana, ma con Franceschini più allenato nel gioco delle correnti e, più in generale, nelle manovre interne di partito per consolidare gli equilibri esistenti o per crearne di nuovi all’occorenza, secondo le circostanze e le convenienze, i due leader del Pd non potevano dare rappresentazione più plastica delle tensioni politiche che investendo il partito pur più solido della maggioranza, sia rispetto ai grillini ormai allo sbando sia rispetto ai leghisti divisi -diciamolo pure- fra il ministro Giancarlo Giorgetti e Matteo Salvini, l’uno dentro e l’altro fuori dal governo, sono il pericolo più insidioso dal quale si deve guardare ora il presidente del Consiglio. Che parla a suocera perché nuora intenda quando dice, come ha fatto in Parlamento, che questa del piano della ripresa con più di duecento miliardi di euro a disposizione è l’occasione che il Paese semplicemente non può perdere. E sulla quale lui personalmente ha scommesso avendo in fondo più stima dei connazionali di quanta essi non mostrino di meritare con certi atteggiamenti.

            In questo quadro ha un po’ del patetico anche il tono esasperato dell’opposizione della destra di Giorgia Meloni. Che si trova senza neppure accorgersene a competere curiosamente col Fatto Quotidiano sul se e come Draghi possa essere considerato diverso dal suo immediato predecessore. Alla Meloni sarà piaciuto il fotomontaggio del Fatto in cui oggi Draghi e Conte finiscono per avere lo stesso volto deformato.

Conte fra il buon pastore e il cane del gregge di Beppe Grillo

Chissà se sono fischiate le orecchie a Giuseppe Conte domenica scorsa, che è stata una doppia festa: civile per i 76 anni trascorsi dalla Liberazione, quella con la maiuscola dal nazifascismo, e religiosa per la figura del Buon Pastore evocata nel Vangelo secondo Giovanni con le parole di Gesù, che conosce le sue pecore e ne è riconosciuto.

            Più il sacerdote parlava di questo Vangelo della quarta domenica di Pasqua e più io pensavo, al limite della blasfemia, all’ex presidente del Consiglio Conte, appunto, a causa di ciò che avevo letto il giorno prima sul Corriere della Sera in una intervista di Romano Prodi. Che parlando del “magma di stato nascente” del Movimento 5 Stelle e della “implosione” secondo lui mancata perché ne sarebbe uscita solo “una minoranza estremista”, si era consolato sapendo ormai la maggioranza dei grillini affidata in buone mani per trovare finalmente “una coerenza e un equilibrio interni”.  

            “Con Conte?”, gli aveva chiesto Massimo Franco, non so se con più scetticismo o curiosità. E Prodi a sua volta: “E chi altro? Il cane pastore dei Cinque Stelle è lui”.

            Da fedele migliore o meno tentato di me dalla blasfemia, Prodi dunque non aveva scomodato Gesù e aveva paragonato Conte solo al “cane pastore” e suoi simili. Che -aveva spiegato il professore emiliano- “girano, vanno da una pecora, poi dall’altra. Ne mordono qualcuna riluttante al garetto per portarla dove c’è l’erba verde”.  Io invece ho avuto più riguardi di Prodi verso Conte e, piuttosto che paragonarlo a un cane, l’ho immaginato all’altezza di almeno un buon pastore al minuscolo, comunque diverso dal “mercenario” ricordato da Gesù nel Vangelo come quello che “non è pastore, al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, le abbandona e fugge”, per cui “il lupo le rapisce e le disperde”. Il cane lupo indicato da Prodi è invece solo l’animale del Buon Pastore, al maiuscolo, che lo aiuta a governare le pecore.

            Insomma, a conti fatti, anche evangelici, pensando a lui durante la predica del sacerdote io sono stato con Conte  più carino del suo pur amico politico Prodi, per quanto lo avesse promosso ad affidabile interlocutore, anzi alleato del suo Pd: suo, cioè di Prodi, nonostante le brutte sorprese riservategli in passato, specie nella corsa del 2013 al Quirinale, boicottato con impietoso successo da cento e più “franchi tiratori”. Che si erano evidentemente rivoltati alla scelta di Prodi come candidato per acclamazione, dopo l’insuccesso  già spiacevole del presidente del partito Franco Marini.

            Prodi ne rimase tanto scioccato, al di là delle risatine opposte agli amici come per rassicurarli, facendo loro credere che in fondo non aveva davvero creduto di potercela fare, che ha tenuto nella già ricordata intervista al Corriere a tirarsi fuori dalla prossima edizione della corsa al Quirinale. Cui invece alcuni giornali lo hanno già iscritto d’ufficio con un bel po’ di colleghi di partito come Walter Veltroni, Dario Franceschini, Paolo Gentiloni, Davide Sassoli ed Enrico Letta: neppure una donna, come vedete, per quanto lo stesso segretario abbia recentemente sventolato la bandiera della parità di genere per cambiare entrambi i capigruppo parlamentari.

            “Non ho l’età, come cantava Gigliola Cinquetti: nel senso però che ne ho troppa, quasi 82 anni”, ha motivato Prodi la sua rinuncia a correre aggiungendovi tuttavia un altro motivo ancora: “Sono stato un uomo di parte, e in fondo lo sono ancora”, come per giustificare generosamente i franchi tiratori di otto anni fa. Ma, per favore, non credetegli più di tanto, specie nel passaggio canoro dell’età, perché gli 82 anni sulle spalle non impedirono nel 1978 l’elezione di un presidente della Repubblica che è stato probabilmente il più popolare tra quelli succedutisi al Quirinale: Sandro Pertini. Anzi, l’età fu paradossalmente tra gli elementi a favore della sua candidatura, avanzata dopo quelle tentate o fallite del suo compagno di partito Giuliano Vassalli e del suo ex compagno Antonio Giolitti, approdato da tempo fra i comunisti senza guadagnarsi tuttavia il perdono della sua origine.

            Il democristiano Flaminio Piccoli si lasciò scappare un rassegnato consenso a Pertini proprio per i suoi 82 anni, che avrebbero potuto statisticamente renderne breve il mandato. Pertini invece volle e seppe condurre regolarmente a termine il suo incarico, in forma quasi come il primo giorno, anzi con la voglia o la disponibilità neppure tanto nascosta di raddoppiarlo alla scadenza, se solo glielo avessero proposto. Al Quirinale egli avrebbe forse trovato l’adrenalina necessaria alla seconda missione. Atro che morire nel 1990, a 94 anni.

Pubblicato sul Dubbio

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