Credo proprio che la più bella foto in morte di Filippo d’Edimburgo sia quella comparsa su Repubblica, anche a costo di farla scambiare, per la collocazione assegnatale infelicemente in fondo, a destra, della prima pagina, per una pubblicità del cappello levato dal consorte della regina d’Inghilterra come saluto da tutti e da tutto. Se n’è andato un principe che ciascuno si è divertito a chiamare a suo modo: l’ultimo principe, il principe pirandelliano, il principe delle gaffe, il principe del passo dietro…la regale consorte. Con la cui “profonda tristezza” annunciata alla scomparsa del consorte dopo 73 anni di matrimonio qualche giornale ha voluto scherzare senza far ridere -mi auguro- nessuno. Penso alla “cattiveria” di giornata del Fatto Quotidiano, che le ha augurato di “rifarsi una vita”, o al Tempo, che le ha fatto chiedere in romanesco ai nipoti più celebri del momento se le possono ora “presentare un amico single”. Lo spirito è una cosa che uno o ce l’ha davvero o è una disgrazia, quando lo si spreca nel momento e con la persona sbagliata.
Quel “passo dietro” tradotto felicemente da Natalia Aspesi, su Repubblica, nell’elogio della sua “secondarietà insuperabile”, Filippo d’Edimburgo l’ha saputo tenere davvero sino all’ultimo, morendo -per esempio- sulla soglia dei cent’anni, che avrebbe compiuto fra due mesi. Egli ha voluto risparmiarsi e risparmiare una festa che pure meritava, essendo il traguardo del secolo un’occasione appunto di festa e di celebrazione da vivo.
E’ stato discreto sino in fondo quest’uomo davvero eccezionale. “Averne con quello stile”, hanno giustamente scritto sul Fatto prima di scivolare, in fondo alla prima pagina, sulla consorte regale. Il cui passo adesso sarà solitario e più lento.
Capisco che le guerre di carta, come tutte le guerre commerciali, debbano contemplare posizionamenti e riposizionamenti, secondo le circostanze, fortunate o sfortunate che siano. Ma proprio perché sono di carta, e la carta resta, con le cose ben scritte -si spera- e stampate, occorrerebbe stare attenti a non contraddirsi troppo fra le varie posizioni che si assumono, e all’interno persino di ciascuna di esse.
Al netto della soddisfazione che avrà procurato a Giuseppe Conte -insofferente del “troppo zelo” col quale i giornali del gruppo guidato dal giovane erede e nipote dell’avvocato Gianni Agnelli seguirebbero benevolmente l’azione, la linea e quant’altro del suo successore a Palazzo Chigi- la prima pagina del concorrente Corriere della Sera di ieri lascia un po’ la bocca amara, fra una vignetta simil-militare di Emilio Giannelli e un editoriale di Walter Veltroni sulla “via d’uscita” ancora mancante alla pandemia e alle sue implicazioni, o complicazioni.
Cominciamo dalla vignetta, nella quale ho avvertito -magari a torto, per carità- una certa eco della bizzarra convinzione recentemente espressa dalla scrittrice Michela Murgia che un generale debba evitare di andare in giro in divisa, fuori dalla caserma, da una nave e quant’altro, per evitare di sembrare e persino diventare un aspirante dittatore, o qualcosa del genere.
In particolare, accanto ad un compiacente presidente del Consiglio in abito rigorosamente civile perché non ha divise in armadio da potere indossare, sfilano nell’immaginazione del vignettista davanti al generale e commissario straordinario della lotta alla pandemia Francesco Figliuolo, con tanto di passo dell’oca, i presidenti delle regioni che ci siamo ormai abituati a chiamare impropriamente governatori. Ma si sono in realtà rivelati un po’ indisciplinati e pasticcioni nell’esercizio delle competenze sanitarie improvvidamente affidate loro dalla Costituzione. E ciò soprattutto nell’unica parte di essa -il famoso titolo quinto- che si sia riusciti a riformare negli ultimi vent’anni, evidentemente peggiorandola.
Passiamo ora all’articolo, sempre di piacevole lettura, per carità, del mio amico Walter Veltroni. Che, pur con tutte le cautele alle quali è abituato, con quella specie di “manchismo” ironicamente attribuitogli quando da segretario del Pd apriva sempre a qualcosa “ma anche” a qualche altra, ha praticamente consigliato a Draghi di decidersi a fare come di solito si farebbe nelle società anglosassoni anche per questo immunizzatesi da rischi, tentazioni e quant’altro di dittature. E come, modestamente, fece anche lui, Veltroni, ricorrendo a date certe sia come ministro dei Beni Culturali per riaprire la Galleria Borghese e sia come sindaco di Roma per completare l’Autiditorium e la Galleria Giovanni XXIII, che collega il Foro Italico alla via Trionfale e alla Pineta Sacchetti, coprendo l’area dell’affollatissimo Policlinico Gemelli.
Ci vogliono insomma anche per i danneggiati dalla pandemia, che ormai invadono le piazze e possono perdere la testa, e magari farla perdere pure alle forze dell’ordine che cercano di trattenerli, delle scadenze precise per l’uscita dai blocchi: scadenze certe che possano creare intanto fiducia, speranza. Il gioco al lotto, o simili, si sa, è sempre una tentazione fortissima, specie per chi se la passa male.
Una data certa che Vetroni ha apprezzato e indicato come esempio è quella vicinissima del 12 aprile scelta o assegnatasi dal premier inglese Boris Johnson per riaprire bar e ristoranti oltre Manica. Un’altra data certa è quella del 4 luglio indicata o scelta dal presidente americano Joe Biden, con spirito anche patriottico coincidendo con la giornata dell’Indipendenza, per restituire gli Stati Uniti alla normalità, o a qualcosa che almeno le assomigli.
Ad un certo punto, per salvare capra e cavoli, in una variante del “manchismo”, Veltroni ha riconosciuto a Draghi di avere assunto nella conferenza stampa appena conclusa “un impegno responsabile”, ma dopo avergliene contestata la indeterminatezza rivendicando il diritto di noi tutti, sofferenti e impazienti, di “sapere la verità, quale che che sia; una data quale che sia, in cui la vita ricomincerà; un giorno, quale che sia, al quale guardare e per il quale finalizzare sforzi e sacrifici”. E ancora, insistendo sul doppio binario del fatto e non fatto, o del detto e non detto, sempre a proposito di Draghi, “programmare -ha scritto Veltroni- è necessario in una famiglia, in un’impresa, in un Paese. Se accade in Usa o nel Regno Unito perché noi non potremmo farlo?”, in divisa o senza divisa, a passo normale o dell’oca, in piedi o seduti, si e ci ha risparmiato Walter di aggiungere nel suo editoriale, scritto in questa nuova vita che si è data dopo quella “precedente” di politico, come lui stesso ha scritto dopo averne ricordato i passaggi felici -ripeto- della Galleria Borghese, dell’Auditorium e della Galleria Giovanni XXIII, tutti rigorosamente a Roma.