I cedimenti di Draghi, ma solo di carta, alle date reclamate dalla piazza

            Uno legge il titolo di apertura di un giornale mica da poco, un giornalino o giornaletto di provincia, ma della Stampa, che Giuseppe Conte ha appena scoperto  come la nave ammiraglia -altro che Repubblica– della flotta di carta degli eredi di Gianni Agnelli schierata con “troppo zelo” a favore di Mario Draghi, e non crede ai propri occhi stropicciandoseli.  Vengono attribuite al presidente del Consiglio queste testuali parole, con tanto di virgolette che non dovrebbero lasciare dubbi e potrebbero suonare come la vittoria dei dimostranti tornati ieri in piazza a reclamare la riapertura un po’ di tutto’per non essere sequestrati a vita dalla pandemia: “Due settimane per riaprire”.

            Avevamo appena opposto la serietà di Draghi alle richieste affannose, compresa quella di Walter Veltroni sul Corriere della Sera, di date certe per allinearsi alle società e ai governi “anglosassoni”, immuni dalle tentazioni autoritarie proprio per questa precisione con l’orologio o il calendario al polso, e scopriamo che anche lui ha ceduto. E’ sembrato come il compianto Fernando Santi soleva dire del suo compagno di partito, e compianto pure lui, Francesco De Martino negli anni in cui trattava con la Dc la formazione di governi di centro sinistra: “Resiste fino a un momento prima di cedere”. Viene quasi la voglia, a guardare la prima foto di Draghi a portata di mano o di computer, di togliergli via e buttare il più lontano possibile quegli occhiali che contribuiscono a farlo apparire severo.

            Calma, però. Lasciategli pure gli occhiali al loro posto perché il presidente del Consiglio non ha smesso di fare e soprattutto di essere la persona seria. Gli hanno solo attribuito quello che non ha detto. Egli si è preso sì “due settimane”, o -se preferite- 14 giorni, dei quali uno diamolo pure per trascorso, ma solo per valutare i dati dei tecnici, o scienziati, nel frattempo elaborati sull’andamento dei contagi anche alla luce degli effetti della riapertura delle scuole, e decidere quindi se, come e quando riaprire anche il resto. Non siamo insomma alle date come coriandoli, sia pure anglosassoni e perciò apprezzati da Veltroni come antidoto, addirittura, alle tentazioni dittatoriali di casa altrove.

            Non rinunciamo quindi alla speranza di vedere Draghi misurarsi con la realtà della pandemia e delle emergenze collegate più seriamente del suo predecessore. Che aveva un rapporto con i fatti un po’ troppo elastico, diciamo così, come dimostrò resistendo all’apertura formale della crisi anche dopo le dimissioni di due ministre e di un sottosegretario dal suo secondo governo, e le motivazioni datene in conferenza stampa dal leader del loro partito: il non gradito -da Conte- ma pur vivo Matteo Renzi. I cui voti al Senato l’allora resistente presidente del Consiglio non riuscì a sostituire del tutto con “volenterosi”, “responsabili” e quant’altri, seppure aiutato a distanza dal sindaco di Benevento Clemente Mastella e, più da vicino, nello stesso Senato, dalla moglie Sandra Lonardo.

            Di Speranza, al maiuscolo, sembra essere a rischio politicamente in questi giorni solo l’omonimo ministro della Sanità, almeno secondo le anticipazioni del Messaggero, salvo che non si rivelino un po’ troppo azzardate come quelle della Stampa su Draghi, perché in questo caso alle varie emergenze in corso bisognerebbe aggiungere anche quella dell’informazione.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Quel colpo di Stato più temuto che tentato nell’estate del 1964

Ogni tanto può capitare che una polemica politica e storica venga condotta civilmente, senza lasciare vittime sul campo, e non solo perché i protagonisti della contesa, cioè della crisi politica dell’estate 1964, sono tutti morti. E non vi è magistrato, per quanto disinvolto lo si possa immaginare, capace di imbastirci sopra -per il presunto colpo di Stato che sarebbe stato tentato o solo adombrato allo scopo di indirizzare quella crisi verso una certa direzione- un processo simile a quello interminabile ancora in corso sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia. Che un effetto politico assai negativo, in attesa di conoscere quello prettamente giudiziario, lo ha già raggiunto: schizzi di fango un po’ dappertutto, persino sull’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Che fu sentito al Quirinale come teste ma scambiato da qualche inquirente, vero o di carta, per un possibile complice di dirottamento d’indagini e quant’altro, con tanto di intercettazioni per la cui distruzione dovette essere praticamente scomodata anche la Corte Costituzionale.

            Mario Segni, Mariotto per gli amici, intervistato per il Corriere della Sera da Aldo Cazzullo sul libro appena scritto per Rubbettino in difesa del padre, Antonio, capo dello Stato all’epoca dei fatti, ha classificato come la più falsa notizia della storia repubblicana – “la madre di tutte le fake news”- il colpo di Stato al quale pure ha dedicato il titolo del volume, tanto  quell’evento è entrato e si è consolidato nella immaginazione collettiva.

            Egli ha giustamente sottolineato l’incongruenza fra la convinzione attribuita all’allora ministro degli Esteri Giuseppe Saragat -e forse anche condivisa dal presidente del Consiglio Aldo Moro in un’animata discussione conclusasi con la trombosi del presidente della Repubblica-  che al Quirinale si fosse quanto meno pasticciato fra Segni e l’allora comandante generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo in direzione di una svolta politica a destra e la decisione presa meno di due anni dopo, e condivisa dallo stesso Saragat nel frattempo succeduto a Segni, di promuovere De Lorenzo a capo di Stato Maggiore dell’Esercito.

Quella carica, è vero, gli fu tolta dopo neppure un anno ma non certo per il presunto colpo di Stato del 1964, scoppiato nel 1967 solo sulle pagine dell’Espresso diretto da Eugenio Scalfari, ma per altre controversie risalenti agli anni in cui De Lorenzo era stato comandante del Sifar, come allora si chiamavano i servizi segreti. Controversie, peraltro, ritenute in fondo da Moro non dico così naturali ma quasi per servizi di quel tipo da offrire, peraltro inutilmente, al generale una onorevole via d’uscita come ambasciatore non ricordo più in quale paese, comunque importante, del Sud America.  De Lorenzo preferì piuttosto darsi alla politica accettando una candidatura da indipendente offertagli per la Camera dal Movimento Sociale.

Lo storico ed ex senatore del Pd Miguel Gotor in un articolo su Repubblica ha mostrato di credere a Mario Segni -di cui penso abbia condiviso le celebri battaglie referendarie contro le preferenze e il sistema elettorale proporzionale-  più come figlio del compianto presidente della Repubblica  che come ricercatore. E ha dato una lettura più interventista, diciamo così, del piano predisposto da De Lorenzo contro eventuali disordini di piazza e peggio ancora e dell’attenzione che gli riservava Antonio Segni, spintosi a riceverlo al Quirinale durante la crisi del primo governo di centro sinistra di Aldo Moro. Che comunque, sempre secondo Gotor, avrebbe subìto uno spostamento a destra nelle edizioni successive, come avrebbe voluto Segni, pur nel frattempo uscito di scena col malore che ne aveva impedito la permanenza al Quirinale. In particolare, il centro sinistra avrebbe subìto “nei mesi e anni successivi un processo di progressiva normalizzazione”, sino a diventare “un centrismo aggiornato”.

In verità, da semplice cronista di quelle vicende non troppo lontane da essere dimenticate, vorrei ricordare a Gotor che proprio le correnti democristiane considerate sensibili alle spinte conservatrici di Segni avrebbero poi prodotto, pur di scalzare Moro da Palazzo Chigi, edizioni del centro sinistra “più coraggioso e incisivo”. L’effetto fu di destabilizzare l’alleanza fra la Dc e il Psi sino all’interruzione e alla sopraggiunta “strategia della tensione” per cercare di spostare veramente a destra gli equilibri politici.

Ma la cosa che più mi rincresce dell’intervento di Gotor, forse sorpreso pure lui da tanto zelo,  è l’immagine con la quale Repubblica ha voluto, diciamo così, accompagnarlo se non addirittura documentarlo: una foto d’archivio di una parata militare nella quale Antonio Segni, ancora felicemente e signorilmente in carica, col suo stile inconfondibile, saluta con molta cordialità e simpatia il generale De Lorenzo: una foto, direi, galeotta messa a quel posto.

Pubblicato sul Dubbio

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