Mario Draghi a “rischio ragionato” dal 26 aprile. In bocca al lupo…

            Mario Draghi ha dunque deciso di correre quello che ha definito il “rischio ragionato” di una data -il 26 aprile- da offrire in pasto alla speranza degli italiani per la “riapertura del Paese”, come gli ha attribuito enfaticamente la Stampa con un titolo su tutta la prima pagina, o per una “boccata d’aria”, come più prudentemente ha titolato Avvenire, il giornale dei vescovi. O per scatenare, suo malgrado, la fantasia dei nostalgici del suo predecessore a Palazzo Chigi, Giuseppe Conte, e farli scommettere su un fatale errore di calcolo per cercare di inchiodare il governo già il 27 aprile alla vignetta nella quale Stefano Rolli, sulla prima pagina del Secolo XIX, fa chiedere “Ora cosa mi invento?” a  Matteo Salvini. Che è considerato  il responsabile del coraggio datosi dal presidente del Consiglio sventolando la “bandiera gialla” messagli metaforicamente in mano dai giornali del gruppo Riffeser Monti.

            C’è solo l’imbarazzo di scegliere fra le varie rappresentazioni e interpretazioni dell’annuncio di Draghi. In nessuna delle quali -temo- si sarà riconosciuto questa mattina il presidente del Consiglio. Che a sua difesa non ha neppure il vizio o la virtù, come preferite, di un ormai lontano suo predecessore a Palazzo Chigi: Giovanni Leone. Il quale si riempiva tasche e taschini di amuleti scaramantici e, ciò nonostante, all’occorrenza si lasciava tentare dalle corna digitali, intese naturalmente non nel senso elettronico ma di mani protese a respingere o restituire -come lui diceva- il malocchio sempre in agguato. Draghi non mi sembra il tipo di ricorrere a questi mezzi.

            Eppure gliene hanno scritte e attribuite di tutti i colori in questa sortita vagamente ottimistica: persino di avere voluto sottrarre così agli “artigli” di Salvini il ministro della Salute Roberto Speranza troppo rigorista nel contrasto alla pandemia, come ha titolato Il Tempo”, o -al contrario- di segnare contro di lui “la rete decisiva”, come ha sospettato il Corriere della Sera immaginando una partita di “calcetto” con la partecipazione del presidente del Consiglio in funzione di attaccante contro la porta del suo ministro. Non parliamo poi del solito Fatto Quotidiano, che ha improvvisato non un campo di calcetto ma un ring col ministro leghista Giancarlo Giorgetti deciso a trattenere sul tappeto il collega di governo Speranza fra gli applausi o la soddisfazione, presumo, di Draghi in persona. “Duro scontro nella maggioranza: la Lega comanda, Speranza è isolato, il Pd tace e il M5S non ne può più”, racconta il giornale di Travaglio ai suoi lettori omettendo tuttavia di informarli, a proposito degli umori e delle abitudini dei pentastellati, che lo stesso Beppe Grillo ha appena definito “psicopatici” i suoi fans, portavoce e simili. E questo giusto per incoraggiare il povero Conte, visto che adesso è libero da impegni di governo, ad accelerare la rifondazione del MoVimento lasciatogli ancora da vivo in eredità.

            In queste condizioni mi sembra che con “rischio” anch’esso “ragionato” ci sia solo da augurare le migliori fortune a Draghi e ai suoi ministri, compreso quello delle Infrastrutture Enrico Giovannini, che ha appena proceduto a nominare finalmente 29 commissari per sbloccare 57 cantieri, 83 miliardi di euro e centomila posti di lavoro. Con i tempi che corrono, non mi  sembrano pochi.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Enrico Letta senza pattini su una lastra di ghiaccio fuori stagione

Non so se più per lo stato di grazia, diciamo così, in cui si trovava il mio amico Paolo Mieli in veste di gatto contro il topo, o per le difficoltà obbiettive in cui si trovava e si trova, in generale, Enrico Letta alla guida di un partito complesso come il Pd lasciatogli in eredità da Nicola Zingaretti, lo spettacolo che i due hanno dato nel salotto televisivo di Corrado Formigli, su la 7, è stato succulento. E per niente scorretto, perché Mieli ad un certo punto, con l’esperienza che ha sulle spalle di direttore di giornali, e che giornali, dalla Stampa al Corriere della Sera, ha lealmente avvertito il suo interlocutore della posta in gioco. Che era quella di qualche titolo imbarazzante per la funzione che il segretario del Pd si è data, volente o nolente, di acrobata, o di uno costretto a correre senza pattini su una lastra di ghiaccio fuori stagione. Le temperature infatti sono tornate a salire, fortunatamente a scapito di quella carogna che continua ad essere il covid.

            “Letta contro Draghi”, ha suggerito lo stesso Mieli ai colleghi di redazione in orario di chiusura dopo averli messi l’uno contro l’altro, per esempio, sul presidente turco Erdogan. Che il presidente del Consiglio, con una zampata apparsa a torto involontaria, essendo stata  voluta nella congiuntura appena apertasi con un suo viaggio sull’altra sponda del Mediterraneo, ha definito “dittatore” e il segretario del Pd soltanto “autarca”, riconoscendogli l’origine formalmente democratica del suo potere per l’esistenza di un Parlamento eletto. Mentre Draghi -aveva peraltro appena risposto Erdogan dandogli del “maleducato”- non è stato eletto. Ma -aggiungerei- quando viene fiduciato da un Parlamento eletto il presidente del Consiglio diventa indirettamente eletto pure lui, a meno che non si voglia sostenere che le nostre Camere siano ormai abusive, come d’altronde sostengono quelli che ne reclamano lo scioglimento anticipato un giorno sì e l’altro pure, durante e dopo la crisi di turno.

            Vedo peraltro che anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ex capo politico dei grillini e non so a cosa destinato nel suo movimento dopo la rifondazione che ne avrà fatto Giuseppe Conte, in una intervista al Corriere della Sera non ha voluto dare a Erdogan del dittatore rivendicando la diplomazia cui è tenuto per funzioni di governo. E così, volente o nolente, si è meritato anche lui, nei rapporti con Draghi, il titolo malizioso suggerito contro il segretario del Pd ai giornali in quel momento – ripeto- di chiusura, in tempo quindi per cadere in tentazione. Così ci capitava  quasi ogni sera negli ultimi anni del mandato presidenziale di Francesco Cossiga, che dopo cena giocava come picconatore con le sue esternazioni per niente improvvisate. C’era del sadico nella sua scelta degli orari contro i giornali, gli dissi una volta procurandomi non delle scuse, ma una bella risata di soddisfazione.

            Sempre su quella lastra immaginaria di ghiaccio, e senza pattini, Enrico Letta ha dovuto prendere posizione, nella piazza pulita di Formigli, anche sul complotto addirittura internazionale che dall’interno del suo Pd Goffredo Bettini ha ripetutamente visto e indicato dietro la fine dell’esperienza a Palazzo Chigi di Giuseppe Conte.  Che non sarebbe caduto su spinta di Matteo Renzi, ma “fatto cadere” da Renzi su spinta, a sua volta, di chissà quali e quanti poteri forti italiani e stranieri, non esclusi evidentemente quelli che invitano il senatore di Scandicci  a fare a pagamento conferenze e interviste all’estero. Non a caso si è ormai guadagnato il soprannome di Matteo d’Arabia.

            Di fronte ai comprensibili tentativi di Letta di sottrarsi al gioco del gattone travestito da giornalista, storico e quant’altro, mi è quasi mancato il fiato quando il segretario del Pd è stato invitato a dire chiaramente se avesse condiviso o no la decisione del presidente della Repubblica di chiudere quasi d’autorità una crisi che si trascinava da troppo tempo chiamando al Quirinale Mario Draghi. Sì, ho  condiviso, ha dovuto ammettere Enrico Letta. E l’altro: pienamente condiviso? Sì, pienamente, ha dovuto rispondere la “vittima”. E così Bettini, Conte e tutti gli altri interessati cultori espliciti o impliciti del colpo di Stato di turno nel nostro Bel Paese sono stati serviti con la parola della personalità politica di cui avrebbero maggiore bisogno non tanto per sostenere la tesi golpista quanto per trarne prima o poi gli effetti politici riparatori nei riguardi dell’ex presidente del Consiglio.

            Vedete come riesce ad essere persino divertente la politica italiana? Purtroppo però fuori contesto, perché quest’ultimo non è affatto divertente, continuando tutti a vivere nelle emergenze -sanitaria, sociale ed economica- che hanno portato Draghi a Palazzo Chigi, e il generale Francesco Paolo Figliuolo nei dintorni, avvolto in quella tuta mimetica che indossa forse anche a letto e ha contribuito a far perdere la testa a qualche giallista, in pantaloni o gonna che sia.

Pubblicato sul Dubbio

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