Lo spot consolatorio di Di Maio contro Radio Radicale dopo la debacle umbra

             Formidabile, a suo modo, cronicamente insolito. Luigi Di Maio, ingessato nei suoi abiti monopetto e ora anche nelle dimensioni ad una sola cifra cui ha ridotto domenica scorsa nelle elezioni regionali umbre il Movimento delle 5 Vignetta Fatto.jpgStelle, di cui Beppe Grillo lo tiene ancora a capo, pure lui a suo modo, tra sberleffi e semi-parolacce, è tornato a gonfiare il petto contro Radio Radicale. Che per lui è “una vergogna”. “una porcata“, “una mangiatoia” costata allo Stato, cioè a tutti noi, dal 1990 qualcosa come 250 milioni di euro. Cui il Pd, nuovo alleato di governo dei grillini, complice evidentemente di tanta ignominia, ha voluto aggiungerne altri 24 per i prossimi tre anni nell’ultima bozza di bilancio capitata nelle mani del ministro degli Esteri nei vertici di maggioranza che continuano a svolgersi sui conti dello Stato.

            Annunciata ai giornalisti con le solite procedure sommarie del microfono a portata di bocca, Di Maio ha Spot Di Maio.jpgtrasferito l’offensiva contro la radio storicamente legata alla memoria di Marco Pannella, che trasmette anche buona parte dei lavori parlamentari ignorati dalla Rai e delle attività e iniziative dei partiti e movimenti politici, sul blog delle sue 5 stelle. Egli ha invitato in una specie di improvviso referendum digitale a scegliere a chi destinare i 24 milioni rimessi sul tavolo: a Radio Radicale o ai terremotati ?

            In verità, non è seguito il coro che forse Di Maio si aspettava contro la “mangiatoia” da lui rinverdita nell’offensiva, essendosi registrati molti dissensi pari, anche per insulti, alle proteste levatesi contro il capo ancòra dei grillini dal Pd e dall’opposizione di centrodestra.

            Eppure, dopo averlo sommerso di proteste, invitato per esempio dal capogruppo piddino al Senato Andrea Marcucci a “farsene una ragione”, essendosi a suo avviso esaurita la battaglia contro Radio Radicale con la sconfitta nella formazione stessa del nuovo governo, il partito del prode Nicola Zingaretti una concessione a Di Maio l’ha voluta fare lo stesso. Magari, egli avrà pensato così di ammorbidire Di Maio su un altro fronte che gli sta evidentemente logo Radio Radicale.jpgpiù a cuore della sorte di Radio Radicale e di tutto ciò che l’emittente pannelliana ha finito per diventare nell’immaginario collettivo di tanti suoi ascoltatori: l’emblema della libertà d’informazione, da cui nascono in fondo tutte le altre libertà essendo vero che per deliberare bisogna conoscere, come dice uno degli slogan, appunto, della radio dove per tanti anni, per esempio, un uomo come Massimo Bordin, stimato in vita e in morte anche dagli avversari, ci ha abituati all’ascolto e alla lettura della politica. Il fronte che sembra stare più a cuore a Zingaretti è, in particolare, quello dell’alleanza con i grillini anche in sede locale, nonostante il fiasco umbro, che per il Pd, in verità, è stato assai relativo, pur nell’ambito della sconfitta della maggioranza giallorossa.

            Forse Zingaretti, meno sprovveduto di quanto non appaia, come il ministro dei beni culturali Dario Franceschini che gli tiene banco nel partito, pensa di riuscire in questo modo a ridurre i grillini ad una sola e sempre più decrescente cifra anche nel resto d’Italia. Che è la paura dalla quale Di Maio cerca di difendersi negando altri accordi locali, ma restando ugualmente al governo nazionale con i suoi potenziali aguzzini.

            In ogni caso Di Maio nell’offensiva contro Radio Radicale ha strappato ai suoi alleati l’impegno, o “compromesso”, come altri hanno preferito chiamarlo, di mettere a gara l’anno prossimo la concessione, e relativo finanziamento, di cui gode oggi l’emittente pannelliana. La guerra quindi continua, pure essa a suo modo.

 

 

 

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L’imprudente ricorso di Conte alla “irreversibilità” del suo governo giallorosso

              Forse a causa della recente immersione nella storia della Dc commemorando ad Avellino il centenario della nascita di Fiorentino Sullo di fronte a Ciriaco De Mita ed altri della vecchia, residua nomenklatura democristiana, Giuseppe Conte ha adottato un aggettivo galeotto per inserirsi nel dibattito apertosi fra i grillini, ma non solo al loro interno, dopo il fiasco elettorale della maggioranza giallorossa in Umbria.

            Mentre Luigi Di Maio, facendo retrocedere l’”elevato” Beppe Grillo dalla battuta minimalista del “Pensavo peggio”, ha bloccato il processo di trasferimento della formula nazionale di Rolli.jpggoverno in periferia, nel timore non infondato -credo- di ridurre anche altrove il  movimento delle 5 stelle a una sola cifra, il presidente del Consiglio ha invocato il carattere ormai “irreversibile” dell’alleanza che gli ha permesso di realizzare il suo secondo governo.

            Irreversibile fu l’aggettivo usato anche da Aldo Moro -cui il corregionale Conte più volte ha confessato di volersi ispirare, pur essendo arrivato dov’è per volontà e spinta di un movimento nel quale ben difficilmente avrebbe potuto riconoscersi il compianto statista pugliese- per difendere il centrosinistra negli anni Settanta da quanti nella Dc volevano abbandonarlo o solo sospenderlo per le pressioni dei socialisti verso i cosiddetti “equilibri più avanzati”. Che avrebbero dovuto svilupparsi in direzione del Pci anche per contenuti programmatici, oltre che per ragioni di schieramento.

            Nella teorizzazione della irreversibilità del centrosinistra, quando peraltro ne aveva già perso la guida per lo sfratto da Palazzo Chigi voluto dai “dorotei” di Mariano Rumor, che pure aveva coniato  per sé, succedendogli,  la  formula dello stesso centrosinistra “più aperto e coraggioso”, Moro si scontrò con Amintore Fanfani, l’altro “cavallo di razza” della Dc. Che dalla Presidenza del Senato, dove si era attestato per meglio scalare il Quirinale mancandolo lo stesso alla fine del 1971, obiettò praticamente che in politica vale il mai dire mai: neppure alla possibilità di un passo indietro o di una pausa.

             Fanfani, pur perdendo le elezioni presidenziali a vantaggio di Giovanni Leone, vinse la battaglia contro la “irreversibilità”, per nulla trattenuto dal fatto che era stato lui in fondo a preparare il centrosinistra prima ancora di Moro. Lo aveva fatto guadagnandosi l’appoggio esterno dei socialisti ai suoi governi delle “convergenze parallele”.

             Dal centrosinistra, con o senza il trattino, come preferite, si tornò nel 1972 al centrismo con i liberali di Giovanni Malagodi, che l’allora segretario della Dc Arnaldo Forlani preferì chiamare “centralità” affidando Palazzo Chigi a Giulio Andreotti. Sarebbe stato tuttavia  lo stesso Fanfani dopo un anno soltanto -muovendosi sempre dalla Presidenza del Senato, anche a costo di svuotare con un incontro fra i capicorrente a Palazzo Giustiniani il congresso democristiano che stava per aprirsi a Roma con una maggioranza di delegati favorevoli a Forlani e Andreotti-  a fare riesumare il centrosinistra. E così fu ancor più chiaro che tutto dovesse essere reversibile in politica.

           Impossibilitato per ragioni anagrafiche a vivere davvero quelle stagioni, avendo nel 1973 solo 9 anni, Conte non le ha probabilmente studiate con lo stesso scrupolo che si desume abbia impiegato con il diritto, viste almeno la cattedra universitaria che si è guadagnata e la proficua attività professionale di avvocato esercitata prima di farsi prestare alla politica dagli amici pentastellati.

            Adesso, inchiodato alla “irreversibilità” rivendicata per la formula giallorossa che ha realizzato a Palazzo Chigi, rischia di esserne travolto se a vincere fosse ancora una volta, invece, la reversibilità con una crisi ad evitare la quale credo che non  basti più neppure evocare le elezioni anticipate con quel titolo Repubblica.jpgdi Repubblica “Fate pace o si vota”. Al ricorso anticipato alle urne sembra ormai rassegnato anche il presidente della Repubblica, forse confortato dall’idea di poter mandare all’occorrenza il Paese al voto con un governo di garanzia non del buon Carlo Cottarelli, come aveva pensato l’anno scorso, prima dell’accordo fra grillini e leghisti, ma -senza offesa per Cottarelli- dell’ancor più prestigioso Mario Draghi, fresco di onori meritati e di feste per la fine del mandato di presidente della Banca Centrale Europea, che lo ha impegnato per otto anni a Francoforte.

 

 

 

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Le solite reticenze di stampa sulle difficoltà politiche dopo il voto in Umbria

                Puntuali all’appuntamento con la disinvoltura, a dir poco, di una rappresentazione reticente della realtà, illuminando i fuochi fatui e distraendo da quelli veri, o minimizzandoli, i giornali hanno rovesciato sui lettori titoli sul duello, scontro e quant’altro apertosi fra Luigi Di Maio e Giuseppe Conte dopo il rovescio elettorale della maggioranza giallorossa nella prima regione in cui essa ha voluto imprudentemente riproporsi, l’Umbria, per darsi un carattere strategico e non tattico, ordinario e non straordinario, permanente e non momentaneo. E in questo Il Fatto.jpgscontro, da qualcuno allargato- come sul Fatto Quotidiano– ad altri partiti della coalizione, che sarebbero “separati in casa”, c’è stata anche l’esordio ottimistico, fiducioso e quant’altro di Conte come cantante, dopo la prova d’orchestra di qualche tempo fa in un oratorio di Avellino, prima di apparire alla nomenclatura residua della vecchia Dc per commemorare Fiorentino Sullo. Stavolta Conte ha voluto cantare per volare alla maniera di Domenico Modugno sulle miserie della cronaca politica.

            In realtà, il vero, unico, o comunque prevalente scontro consumatosi dopo la batosta umbra è stato quello all’interno delle 5 Stelle, diciamo così, fra il fondatore, l’”elevato” e non so cos’altro Beppe Grillo e il capo ancòra nominale del movimento, della delegazione al governo e ministro degli Esteri Luigi Di Maio. E’ stato uno scontro in cui Grillo ha cercato di minimizzare l’accaduto ridendoci sopra con la formula “pensavo peggio”, e quindi col proposito di benedire, proteggere, difendere e quant’altro l’alleanza col Pd e dintorni, e Di Maio invece ha voluto aumentarne le distanze Nazione.jpgparlando di esperimento non riuscito e non ripetibile, non foss’altro per evitare che quel 7 per cento e rotti cui il movimento sé è ridotto in Umbria si ripeta altrove, e magari cali ancora. Ma dietro le parole giunte ai giornali deve esserci stato ben altro fra i due se Grillo, comico ma non fesso, ha rimosso dal proprio blog la sua uscita.

            Il problema quindi è sotto e dentro le cinque stelle, riconducibile peraltro ad un articolo della Costituzione di cui da quelle parti non si gradisce che si parli in queste occasioni. E’ l’articolo 49, tanto breve e laconico quanto imbarazzante per il modo in cui i grillini lo interpretano e lo applicano a casa loro, superando in disinvoltura anche altre formazione dove pure lo si rispetta maluccio: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Ebbene, é proprio democratico il metodo in uso fra i grillini per decidere e cambiare la linea politica e quant’altro?  Bastano la cosiddetta piattaforma Rousseau gestita da Davide Casaleggio, le consultazioni digitali e l’ultimissima parola ad un Grillo che potrebbe anche all’improvviso cancellarla dalle sue tavolette, a garantire il “metodo democratico” reclamato dalla Costituzione ?

            Sia pure finita nelle pagine interne, senza un richiamo in prima, mi ha fatto un po’ sperare in qualche sorpresa la corrispondenza del Corriere della Sera dal Quirinale, Che riferisce sì con la firma Corsera.jpgdel solito Marzio Breda della prudente decisione di Sergio Mattarella di mettersi Breda 2 .jpgalla finestra per vedere la maggioranza alla prova parlamentare della manovra finanziaria e del bilancio, ma anche della piena consapevolezza del capo dello Stato che “la maggiore incognita” del quadro politico è il partito -quello appunto delle 5 stelle- di cui ha voluto conservare la cosiddetta centralità o prevalenza in Parlamento evitando le elezioni anticipate nella gestione della crisi di agosto.

            Un altro passaggio significativo della corrispondenza di Breda è quello finale, in cui si gira ai Breda 3 .jpglettori l’informazione “severa” fornita da Mattarella in persona ai suoi interlocutori in questi giorni che la prossima volta si andrà  davvero alle elezioni in caso di crisi, “senza tener conto -sentite bene- dei calcoli su quali forze di Camera e Senato eleggeranno il suo successore al Quirinale” nel 2022. Il Presidente della Repubblica, insomma, non è all’incanto. Nessuno gli farò salvare le Camere con la promessa -imprudentemente adombrata durante la crisi d’agosto- di rieleggerlo. E’ un doveroso avviso ai naviganti.

 

 

 

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Il viaggio di Mario Draghi da Francoforte all’Inferno della politica italiana

Temo che l’Inferno che lo aspetta in Italia col comune e curioso auspicio di amici e nemici farà presto rimpiangere a Mario Draghi le rogne avute a Francoforte negli otto anni di mandato di presidente della Banca Centrale Europea. Dove il settantaduenne economista, già governatore della Banca d’Italia e dirigente di quello che i vecchi chiamano ancora Ministero del Tesoro, oggi Ministero dell’Economia, ha dovuto vedersela sopra e sotto il tavolo, davanti e dietro la porta, con interlocutori tosti come sono quelli tedeschi. E ciò senza avere -credo per fortuna del nostro Paese- quel complesso un po’ reverenziale verso la cultura germanica, e annessi e connessi, che distingueva Carlo Azeglio Ciampi quand’era governatore della Banca d’Italia. Poi egli passò a Palazzo Chigi, chiamato all’improvviso dal trafelato presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nel 1993, sostituendolo al Quirinale nel 1999, dopo aver fatto il guardiano dei nostri conti dietro la scrivania di Quintino Sella.

L’Inferno che temo aspetti Draghi in Italia, per quanto egli possa attrezzarsi di estintori e buona volontà, ha un fuoco che continuerebbe ad intossicare anche dopo che fosse miracolosamente spento. Draghi 2 .jpgL’unica che potrà forse proteggerlo è la moglie Maria Serena Cappello. Alla quale, consapevole evidentemente dei rischi, e sicuro dell’affetto che li tiene insieme da 44 anni, lo stesso Draghi ha invitato i giornalisti a rivolgersi più o meno direttamente quando gli hanno chiesto, nella cerimonia di chiusura della propria esperienza a Francoforte, se avesse o vedesse prospettive politiche, o d’altro tipo, anche ora che avrebbe tutto il diritto di fare il pensionato. E non è certamente tipo da reddito di cittadinanza, come ha osservato l’ex sottosegretario leghista a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti, ancora in preda agli incubi quando pensa a quella misura mai digerita al tavolo con i grillini nella stagione gialloverde.

E’ stato proprio Giorgetti, diavolo di un uomo, a mettere in pista Draghi per una eventuale successione a Giuseppe Conte, a capo di un governo istituzionale, o quasi, destinato ad evitare, anzi a rievitare elezioni anticipate in caso di crisi, anche a costo di procurare un mezzo infarto al suo “capitano” Matteo Salvini e al piddino di maggior grado nella compagine ministeriale in carica, Dario Franceschini.

Salvini, si sa, smania di elezioni anticipate già dalla scorsa estate, quando vi puntò scommettendo imprudentemente sulla linea analoga adottata da Nicola Zingaretti dopo la sua elezione a segretario del Pd di fronte all’ipotesi di un’intesa di governo con i pentastellati. Egli smania dall’estate scorsa e vi lascio perciò immaginare ora che ha stravinto le elezioni regionali umbre col centrodestra a forte trazione leghista: una trazione riconosciuta in piazza San Giovanni, a Roma, da Silvio Berlusconi a tal punto da essersi procurato le proteste, le riserve e quant’altro di Mara Carfagna, Renato Brunetta, Gianfranco Micciché, Gianfranco Rotondi e via elencando.

Franceschini non smania di elezioni anticipate, è vero. Sarebbe troppo attribuirgliele come un vero e proprio progetto. Ma la sua musica è cambiata da quando Matteo Renzi si è messo in proprio con Italia Viva ed ha cominciato a prendere quanto meno le distanze dalla visione strategica, e non tattica, permanente e non momentanea, dell’alleanza fra il Pd e il Movimento delle 5 Stelle. Di fronte al toscano che non sembra proprio disposto a stracciarsi le vesti se il governo Conte per qualsiasi ragione dovesse poco serenamente cadere anzitempo, nonostante la popolarità del professore nei sondaggi e il suo sforzo di non perderla girando come una trottola per tutte le parti d’Italia, 54Franceschini non lascia quasi trascorrere giorno senza ammonire che questo è davvero l’ultimo governo della legislatura. In caso di crisi, quindi, anche a costo di ritrovarsi con l’odiato, temuto e quant’altro Salvini, egli sosterrebbe lo scioglimento anticipato delle Camere. E pazienza, sembra addirittura di capire, salvo precisazioni, se nel frattempo non si sarà riusciti ad arrivare, nel 2022, all’elezione del successore di Sergio Mattarella al Quirinale.

Il Quirinale: ecco un altro girone paradossale dell’immaginifico Inferno che potrebbe aspettare Draghi, vista l’imprudenza con la quale retroscenisti e simili, stavolta comprensivi anche di quel veterano, a dir poco, del giornalismo politico  italiano  che è Eugenio Scalfari, hanno cominciato a parlare di lui come del prossimo, auspicabile presidente della Repubblica. E ciò anche a costo di smentire l’occhiolino fatto, con pari imprudenza, durante la crisi di agosto all’incolpevole Mattarella per un bis.

Una regola imposta dall’esperienza alla corsa al Quirinale è che non cominci con troppo anticipo. Porta sfiga, dicono a Roma. ”Non sarà un atterraggio facile”, ha preconizzato un esperto del ramo, diciamo così,  come Romano Prodi. Che nel 2013 provò sulla sua pelle di quanti chiodi possa essere disseminata la salita al Colle più alto.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Che botto in Umbria col voto regionale e che problemi adesso, almeno per Di Maio…

                Il blitz americano che ha decapitato l’Isis con la morte del feroce Al Baghdadi, al di là delle immancabili ironie sull’aiutino del presidente americano Donald Trump all’amico “Giuseppi” Conte in affanno a Palazzo Chigi pensando alle elezioni in Umbria, non è riuscito a Donatella Tesei.jpgcontenere mediaticamente in Italia il botto della regione incautamente scelta per esportare in periferia la maggioranza giallorossa. Che non ha perso, ma straperso con i venti punti di distacco accumulati dal candidato della coalizione nazionale di governo nella improba gara con la candidata del centrodestra Donatella Tesei, scelta personalmente da Matteo Salvini. Della cui vittoria, pertanto, hannoIl Fatto.jpg ben poco da consolarsi al Fatto Quotidiano declassando a “consolazione”, appunto, nel titolo di prima pagina la festa di piazza fisica e mediatica del leader leghista, dopo la debacle della crisi agostana di governo.

             A vendicare Salvini sono naturalmente corsi altri giornali dando degli “asfaltati” agli sconfitti inutilmente ça Verità.jpgarroccatisi nelle ultime Rolli.jpgbattute della campagna elettorale nella speranza di una vittoria di misura degli avversari, magari grazie alle preghiere dei frati francescani d’Assisi annunciate con una certa imprudenza, a dir poco, da inviati speciali accorsi al Sacro Convento. Si è visto e letto, purtroppo, anche questo nei giorni scorsi.

             Emilio Giannelli nella vignetta di prima pagina sul Corriere della Sera se l’è presa, diciamo così, col presidente del Consiglio, raffigurato come un albero con i due rami del Pd e delle cinque stelleGiannelli.jpg dalle foglie cadenti, com’è del resto normale in autunno. Ma qui il Cristo in croce, col Movimento grillino sceso a una sola cifra, perdendo ancora più rapidamente di quanto non gli fosse capitato nelle prime elezioni regionali seguite alla sua alleanza con i leghisti, più che Conte è il suo ex vice presidente e ora ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Le cui già forti difficoltà nel quasi partito di cui è ancora “capo” sono destinate ad aumentare. E a tradursi, intanto, in una maggiore diffidenza, presa di distanza e quant’altro proprio da Conte, accusato solo qualche giorno fa dai ministri grillini riunitisi a Palazzo Chigi, nell’ufficietto a disposizione di Di Maio, di avere instaurato un rapporto sostanzialmente privilegiato col Pd. Che, guarda caso, è riuscito in qualche modo a contenere le perdite nell’appuntamento elettorale in Umbria, per quanto avesse sul groppone l’eredità della precedente amministrazione regionale travolta da uno scandalo nel settore della sanità.

              Il più sbrigativo e minimalista nel commentare la disfatta giallorossa è stato forse il solito Matteo Renzi, non a caso tenutosi distinto e distante dall’avventura umbra, sottraendosi a foto di gruppo e quant’altro. Egli ha detto, compiaciuto, con chiara allusione a Dario Franceschini, capo della delegazione del Pd al governo, che adesso passeranno nella maggioranza voglie e tentazioni di elezioni anticipate in caso di crisi. E si potrà pertanto scommettere di più sulla durata per intero della legislatura in corso. Ma ciò ha un sottinteso: la separazione fra la stessa legislatura e il governo in carica, per cui una crisi del secondo -contrariamente alle opinioni o minacce espresse recentemente da Franceschini, appunto- non si trascinerebbe per forza anche l’altra, essendoci peraltro tante cose da fare ancora, a cominciare dall’elezione, nel 2022, del nuovo presidente della Repubblica.

             Un elettore probabilmente renziano ha ricordato qualche giorno fa proprio in Umbria a Conte, in uno di quei “bagni di folla” decantati da cronisti simpatizzanti, la scadenza delle elezioni presidenziali per invitare il presidente del Consiglio a tenere duro, a non farsi strattonare o coinvolgere nelle risse e manovre di una coalizione composita come quella che guida. Ebbene, anche a costo forse di deludere il suo improvvisato interlocutore, Conte gli ha risposto pressappoco così: “Non si può governare solo per aspettare l’elezione del presidente della Repubblica”. Non aveva, francamente, torto. E forse non lo pensa, in fondo, neppure Renzi. Che a quella scadenza intanto vorrà arrivare, all’interno della maggioranza che lui ha così fortemente e sorprendentemente contribuito a far nascere, un potere contrattuale superiore a quello sperimentato sinora della sua nuova Italia Viva.

 

 

 

 

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Più o meno in diretta dalla verde Umbria e dalla sua avventura elettorale

               Anche se non mancano, francamente, fuori e dentro i confini nazionali, avvenimenti un po’ più importanti nel bene e nel male, e l’Umbria con i suoi 884 mila abitanti non è l’Ohio degli 11 milioni e mezzo, oltre Atlantico, dove di solito chi vince nelle elezioni presidenziali  prenota per il suo partito la Casa Bianca, i giornaloni d’Italia si sono a loro modo mobilitati per riferire, analizzare e quant’altro il duello odierno fra i candidati del centrodestra e della coalizione giallorossa alla presidenza della regione costretta alle elezioni anticipate da una brutta vicenda giudiziaria sulla sanità.

             Più che la sorte politica di Donatella Tesei, l’avvocatessa voluta da Matteo Salvini, e di Vincenzo Bianconi, l’albergatore proposto “civicamente” dalla maggioranza giallorossa nel tentativo di riprodursi a livello locale, in gioco tuttavia sembra essere  soprattutto Luigi Di Maio, almeno a vedere e a leggere il giornale che mangia e al tempo stesso produce più politica in Italia dal giorno della sua fondazione, nell’ormai lontano 1976: la Repubblica. E con quali effetti sulla sua diffusione e sui suoi conti, una volta che la politica è sprofondata nella considerazione generale, producendo più astensione che partecipazione, lo ha di recente rivelato, o denunciato, una fonte a dir poco insospettabile come il suo ex editore Carlo De Benedetti. Che purtroppo se l’è presa forse troppo ingenerosamente con i suoi figlioli, più che con la politica nella quale lui prima di loro aveva avvolto o lasciato avvolgere il giornale assecondandone il fondatore Eugenio Scalfari.

            Con un vistoso titolo di testa, come si dice in gergo tecnico, il quotidiano ora diretto dal fantasioso Carlo Verdelli ha sistemato sopra una vignetta di Altan, nella quale Salvini dice Repubblica.jpgsarcasticamente che “non tutto il male viene per nuocere a me”, l’annuncio di quello che al plurale starebbe ALTAN.jpgdicendo in queste ore il capo ancòra delle 5 Stelle, nonché ministro degli Esteri, addirittura, e capo della delegazione grillina nel secondo governo di Giuseppe Conte: “Se perdiamo male addio coalizione”. Alla quale lo stesso Di Maio si è più rassegnato che convinto, spinto energicamente da Beppe Grillo in persona, dopo la fine della coabitazione con i leghisti. Certo, ci sarebbe da valutare quanto male debba intendersi una eventuale sconfitta arrivata in testa ai sondaggi nella corsa alle urne: quanto letali o comunque pericolosi debbano considerarsi gli eventuali punti percentuali di distacco da uno a dieci, per fermarci qui e risparmiarci il fastidio di essere scambiati per menagrami.

            Più diretto e al tempo stesso distaccato, ricorrendo alla terza persona e non alla prima al plurale, è stato il titolo dedicato all’Umbria dalla Stampa e prudentemente collocato all’interno: “Di Maio rischia la leadership”, a dir pocoLa Stampa.jpg mi permetterei di aggiungere, visto il livello dello scontro in corso fra i grillini. Di cui, pur avendovi in qualche modo contribuito per la diffusione che ha il suo giornale sotto le 5 stelle, ha dato una prova lodevolmente trasparente sul Fatto Quotidiano l’onnipresente e vigilante direttore Marco Travaglio con un editoriale godibile, diciamo così, sin dal titolo: “L’ora del cretino”. Che non è naturalmente, e una volta tanto, avendo avuto qualche volta Travaglio.jpganche lui problemi almeno con i vignettisti del Fatto, il giovane e sofferente Di Maio, ma chi gli vorrebbe fare la festa nel movimento, e fargli pagare con qualche mese di ritardo la metà dell’elettorato perduto in meno di un anno di alleanza con Salvini. “Il problema dei malpancisti” in azione o solo in letargo contro Di Maio -ha assicurato Travaglio con l’aria di chi li conosce bene- “non è la pancia ma la testa”. Cretino, del resto, secondo il dizionario della lingua italiana, anche il più sofisticato e indulgente, significa “stupido, imbecille”. Non so francamente se fra i grillini Travaglio stia maturando il sospetto di una versione anche infettiva di questo increscioso accidenti.

 

 

 

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L’assordante silenzio e assenza di Matteo Renzi in Umbria al voto

              Com’era sin troppo facile immaginare, quella sedia lasciata vuota da Matteo Renzi a Narni ha fatto più notizia, e impressione, delle altre occupate nella manifestazione conclusiva della campagna elettorale in Umbria dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, da Luigi Federico Geremicca.jpgDi Maio in rappresentanza ancòra del Gazzetta.jpgMovimento delle 5 Stelle, da Nicola Zingaretti come segretario del Pd e da Edoardo Speranza per conto della sinistra radicale di Pier Luigi Bersani e Massino D’Alema, che sono riusciti a portarlo all’ultimo momento alla guida del Ministero della Sanità. Il cui solo nome -Sanità- evoca peraltro guai politici in Umbria, dove l’ amministrazione di sinistra è stata travolta da uno scandalo naturato fra ospedali, aziende sanitarie, assessorati e segreteria regionale del Pd.

            La sedia vuota di Renzi -indicativa del ruolo “distinto e distante”, avrebbe detto la buonanima di Francesco Cossiga,  assunto dall’ex segretario del Pd  nella maggioranza giallorossa un attimo I 5 di Narni.jpgdopo averla fatta nascere mettendosi in proprio con la sua Italia Viva– non è stata certamente soppressa dalla foto successiva, che ha ripreso in piedi, anziché seduti, Conte, Di Maio, Zingaretti e Speranza attorno al candidato “civico” alla guida della regione, Bianconi: Vincenzo, come lo ha familiarmente chiamato il presidente del Consiglio.

            Per quanto declassata dallo stesso Conte, per numero di elettori, alle dimensioni di una provincia, in particolare quella di Lecce, e rifiutata quindi come test per le sorti o per la sola valutazione del suo secondo governo, e relativa maggioranza, l’Umbria che uscirà dalle elezioni non passerà come acqua, nel bene o nel male, sull’esperienza anche personale del presidente del Consiglio, rimasto al suo posto, dopo la crisi agostana provocata dalla Lega di Matteo Salvini, fra il plauso e l’incoraggiamento addirittura del presidente americano Donald Trump con quel suo “Giuseppi” finito all’attenzione del Copasir. Che è l’acronimo del Volpi.jpgcomitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, e per il controllo sui servizi segreti, finito a sua volta per effetto proprio della crisi e del cambiamento della maggioranza sotto la presidenza del leghista Raffaele Volpi. Da cui francamente Conte non può attendersi un aiuto alla confusione che ha mostrato di desiderare, dopo una lunga audizione, fra il Russiagate di Trump e quello di Matteo Salvini, almeno per ora nelle mani solo della Procura di Milano. Dove si sta indagando sulle trattative intercettate in un albergo di Mosca fra il leghista Gianluca Savoini e altri su un affare petrolifero svanito poi per strada, da cui si presume che dovesse derivare un finanziamento al Carroccio.

            Sui possibili effetti delle elezioni umbre, con cui si torna peraltro all’orario solare da quello legale che ha segnato la crisi del governo gialloverde e l’avvento di quello giallorosso, non credo che Il Foglio.jpgsi sia fatto prendere troppo la mano dalla fantasia il direttore del Foglio Claudio Cerasa scrivendo di “un’operazione Mario Draghi”. Che potrebbe scattare in caso di sconfitta di quello che il capo della delegazione governativa del Pd Dario Franceschini è appena tornato a definire ottimisticamente sulla Stampa “il primo passo” di un cammino “insieme in tutte le regioni”.

            Ora che è finalmente libero dai suoi impegni a Francoforte come presidente della Banca Centrale Europea, il povero Draghi è entrato quasi di prepotenza, ma suo malgrado, nei retroscena della politica italiana. C’è già chi lo immagina, magari spinto proprio da Renzi per la sua richiesta di un “presidente europeista della Repubblica”, candidato al Quirinale quando scadrà, fra più di due anni, il mandato di Sergio Mattarella. Cui pure durante la crisi agostana sembrava essere stata adombrata la conferma da piddini e grillini se ne avesse in qualche modo favorito l’accordo di governo. Cerasa invece si è limitato ad immaginare Draghi, senza tuttavia compromettere -credo- la tappa finale del Colle più alto di Roma, come un possibile successore di Conte a Palazzo Chigi se la maggioranza giallorossa dovesse uscire ammaccata dal voto umbro e da quelli che seguiranno, sempre a livello Rolli.jpgregionale, nei prossimi mesi. Draghi, sempre secondo Cerasa, potrebbe garantire l’estensione dell’area giallorossa, non memo rissosa e da maschere anti-gas di quella gialloverde, verso il centro con le adesioni che si è proposto di raccogliere Renzi alla sua Italia Viva. Dove è atteso, auspicato e quant’altro l’arrivo di un bel po’ di parlamentari forzisti, anche se nelle ultime ore, a dire il vero, vi è appena arrivata dalla sponda di Pier Luigi Bersani la deputata molisana Giuseppina Occhionero.

 

 

 

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Ultime battute della campagna elettorale umbra, anche nel Convento d’Assisi

               Sono le ultime ore ormai della campagna elettorale in Umbria, la piccola ma dannatamente significativa regione in cui la maggioranza giallorossa del secondo governo di Giuseppe Conte ha deciso di riproporsi anche a livello locale, non si sa francamente se con più coraggio o imprudenza. Lo diranno naturalmente i risultati, dai quali tuttavia lo stesso Conte, seguito dagli alleati, ha voluto prendere anticipatamente le distanze negando che possano essere scambiati per un test della sua coalizione. Sarà magari solo un toast, servito a pezzettini come in un antipasto, e pensando alle elezioni regionali che seguiranno nei prossimi mesi, sempre col proposito della maggioranza giallorossa di tentare almeno un accordo, sulla strada di quella che si vorrebbe un’alleanza strategica, non solo tattica, o momentanea, come sempre più esplicitamemte dice, o avverte, invece Matteo Renzi. Che non a caso, del resto, non volendosi risparmiare proprio nulla per insospettire i suoi interlocutori, si è sottratto alla partecipazione alla manifestazione unitaria giallorossa organizzata dal Pd e soci  per chiudere la campagna elettorale umbra.

            Purtroppo si sono lasciati quanto meno lambire da questa campagna elettorale anche nel Sacro, o sacrissimo, Convento di Assisi. Dove i francescani non sono riusciti a contenere con nessuno, ma proprio nessuno, la preoccupazione che a vincere sia il centrodestra salvinizzato del raduno romamo in Piazza San Giovanni. Non più tardi di mercoledì Roncone 3 .jpgscorso Fabrizio Roncone ha rRoncone 2 .jpgaccontato sul Corriere della Sera, con tanto di virgolette di chi gli è capitato a tiro, l’ostilità del Convento a Matteo Salvini e alleati, tanto che il custode, frate Mauro Gambetti, ha dovuto mandare una lettera al giornale per precisare, o assicurare, che “la Comunità di Assisi è un luogo di preghiera” e non una sezione di partito, di movimento e quant’altro, per quanto Roncone avesse immaginato “preghiere al tramonto” per chiedere a San Francesco “il miracolo” di far perdere le elezioni al centrodestra e farle Roncone 1 .jpgvince vincere invece ai giallorossi. E avesse anche cercato di coinvolgere in queste preghiere l’arcivescovo locale, diciamo così, che incidentalmente, ma solo incidentalmente, per carità, è anche il presidente della Conferenza Episcopale Italiana: Gualtiero Bassetti.

            Nella sua lettera di religiosa precisazione al Corriere il guardiano del Sacro Convento ha voluto assicurare che le preghiere sue e dei confratelli sono solo perché “le coscienze degli elettori siano illuminate” e perché “tutti i candidati” -fra i quali per fortuna il tanto temuto Salvini non si è personalmente proposto- “siano animati dall’amore per il prossimo”. Siamo, insomma, al minimo sindacale, diciamo così.

            Mentre il povero frate Gambetti scriveva al Corriere, padre Enzo Fortunato, quello che di solito accoglie il presidente del Consiglio Giuseppe Conte al Convento quando vi si reca come fedele e fratello di un frate, non so francamente se francescano pure lui, si preoccupava di fiancheggiare in Chiesa Silvio Berlusconi per chiedergli di rendere finalmente mansueto, secondo gli insegnamenti di San Francesco, quel lupo che è Salvini. E che il Cavaliere, peraltro, ritiene di avere già ammorbidito a dovere, contando anche su un certo “complesso di inferiorità” che il leader leghista avrebbe verso di lui: tutto sentito e scritto da un inviato di Repubblica che ne ha riferito il 24 ottobre.

            Non vorrei, francamente, che a causa dei frati di Assisi tutti i Franceschi simpatizzanti ed elettori del centrodestra abituati da una vita a festeggiare il loro onomastico il 4 ottobre, giorno anche del Patrono d’Italia, si lasciassero adesso tentare di festeggiarlo invece il 3 dicembre, giorno di San Francesco Saverio, il gesuita spagnolo vissuto molto dopo il pur ’incolpevole Francesco d’Assisi.

 

 

 

 

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Un’altra brutta giornata per l’informazione e la politica in tema di giustizia

             A vedere e a leggere i giornaloni, che continuano a pagare caro nelle edicole l’attenzione che riservano più al Palazzo, e alle lotte al suo interno, che ai lettori e ai problemi concreti che li circondano, assediano e a volte travolgono, la questione più attuale, più incombente, più assillante è lo scontro -l’ennesimo, direi- consumatosi più o meno a distanza fra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il suo ex vice e ministro dell’Interno Matteo Salvini. Dei quali, dopo l’audizione di Conte al Copasir, acronimo del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, non si riesce ancora a capire bene chi abbia più da nascondere, o non abbia ancora chiarito bene l’uno sui rapporti con la Casa Bianca e dintorni, l’altro sui rapporti col Cremlino, e dintorni, anche lì.

            Di loro, Conte e Salvini cioè, si sono occupati nei titoli principali di prima pagina i due giornali Corsera.jpgpiù diffusi: il Corriere della Sera e Repubblica.jpgla Repubblica, l’uno riferendo che “Conte attacca Salvini” e l’altro pure ma in forma più diretta, equivalente a Salvini, rispondi su Mosca”, anche se Salvini non era né di fronte, né dietro né di lato al presidente del Consiglio nella sala del Copasir.

            Conte accusa praticamente Salvini di sottrarsi all’obbligo della chiarezza sui suoi rapporti col collega di partito ed almeno ex collaboratore Gianluca Savoini sorpreso, diciamo così, a Mosca -in una intercettazione su cui sta indagando la Procura di Milano- a trattare un affare petrolifero poi dissoltosi per strada, o per aria, presuntivamente destinato a procurare un finanziamento per milioni di dollari alla Lega. Salvini si fa forte proprio dell’inchiesta giudiziaria in corso, dai tempi al solito assai lunghi, per invitare ad attenderne i risultati e replica a distanza vedendo nell’attacco di Conte un segno di debolezza e non di forza di fronte al problema che il capo del governo ha di fronte. E che consiste nel far davvero credere che quella sponsorizzazione ottenuta dal presidente americano in persona, Donald Trump, durante la crisi agostana di governo, con quel “Giuseppi” straordinariamente bravo e meritevole di conferma a Palazzo Chigi, non abbia proprio nulla in comune con i contatti da lui precedentemente autorizzati, sin da giugno, fra il ministro della Giustizia statunitense e i servizi segreti italiani sul cosiddetto Russiagate.  Che tormenta l’inquilino attuale della Casa Bianca a tal punto da fargli rischiare il posto per il sospetto di essere stato aiutato, in pratica, da Mosca a vincere a suo tempo la campagna elettorale contro Hillary Clinton.

            Non sono cose da poco, d’accordo, ma francamente dubito che interessino i lettori italiani più di come stiano sempre più scoprendo sull’amministrazione, chiamiamola così, della giustizia nel loro Paese. E ciò mentre il governo giallorosso guidato da Conte, pur fra tensioni all’interno della maggioranza dai confini volubili e non sempre chiari, sta affidando praticamente alla magistratura anche la lotta all’evasione fiscale, col solito ricorso alle manette, Bonafede e Conte.jpgall’ingrosso, rivendicato in particolare dall’asse grillino Luigi Di Maio-Alfonso Bonafede. Al quale asse il presidente del Consiglio sta mostrando la stessa disponibilità dei tempi del suo primo governo, con i leghisti, quando lasciò inserire nella cosiddetta legge spazzacorrotti la supposta dell’abolizione della prescrizione con l’emissione della sentenza di primo grado, a cominciare dal 1° gennaio prossimo, anche in mancanza di una seria, concreta riforma del processo penale. Si sta così avvicinando la prospettiva allucinante di un imputato a vita, anche se assolto nel primo giudizio.

            Su questo modo, diciamo così, disinvolto con cui si pretende che venga amministrata la giustizia italiana è caduta nelle ultime 48 ore una doppietta, chiamiamola, garantista di grande valenza giuridica e morale, aggiungerei. Il primo colpo l’ha sparato la Cassazione bocciando clamorosamente l’enfatica aggravante mafiosa alla malavita romana: aggravante che negli anni scorsi, sulla spinta dell’accusa e nelle more del processo, ha determinato la conquista del Campidoglio da parte dei grillini come un assalto alla Bastiglia. Il secondo colpo l’ha sparato la Corte Costituzionale contro l’automatismo incivile, caro ai giustizialisti di sinistra e di destra, con la quale la legge ha sinora consentito l’applicazione del carcere duro, senza permessi e quant’altro, agli ergastolani non collaborativi con  la magistratura, privata tuttavia della possibilità di giudicare caso per caso, come invece hanno ora e finalmente imposto i giudici del Palazzo della Consulta.

            I signornò hanno subito protestato contro i rischi cui la Corte Costituzionale avrebbe deciso di far vivere i magistrati di sorveglianza, ricattabili anche di morte se non dovessero assecondare le attese del criminale di turno. Ma questa reazione  dovrebbe offendere, non gratificare la magistratura, dopo tutte le garanzie rivendicate e ottenute a tutela della loro autonomia e sicurezza. E’ una reazione, infine, che ignora o sottovaluta il supporto dei pareri che il magistrato di sorveglianza è tenuto a chiedere alla Procura antimafia e al comitato provinciale di turno per l’ordine e la sicurezza pubblica.

 

 

 

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Anche “Mafia Capitale” finisce tra i rifiuti di Roma, col timbro della Cassazione

            Tra i rifiuti a Roma, in condizioni di ormai cronica emergenza, è dunque finita dopo la sentenza definitiva della Cassazione la “Mafia Capitale”, con le virgolette tutte al loro posto, scoperta e fatta processare dalla Procura dei tempi di Giuseppe Pignatone. Il quale, già smentito dalla sentenza diGiuseppe Pignatone.jpg primo grado rifiuti a roma.jpgrovesciata però in appello, non avrà accolto bene la notizia -penso- nella nuova postazione di capo del tribunale del Vaticano. Dove è approdato il 3 ottobre scorso per volontà personale del Papa, spero non nella presunzione, sospetto e quant’altro che la mafia si sia affacciata anche oltre le Mura, visto ciò che vi accade da qualche tempo e che ha procurato al Pontefice un bel po’ di delusioni e preoccupazioni.

            Non hanno preso bene il verdetto della Cassazione, pur nel dovuto e dichiarato “rispetto” per il suo verdetto, neppure la sindaca di Roma Virginia Raggi e il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra, accomunati dall’appartenenza al Movimento delle 5 Stelle e dalla convinzione che a Roma la mafia ci fosse stata davvero, con il Campidoglio costituitosi parte civile nel processo. Per i due pentastellati la delusione è stata doppia, avendo voluto accorrere insieme al processo a sentire il verdetto, prevedendolo evidentemente di tutt’altro segno.

            La malavita romana è di natura diciamo così ordinaria, da associazione a delinquere, per la quale gli imputati si vedranno perciò ricalcolare, cioè ridurre, le pene che naturalmente meritano. E’ una consolazione modesta, d’accordo, come ha praticamente sostenuto nella sua imbarazzata reazione la sindaca Raggi. Che però è nella condizione, diciamo così, scomoda di essere riuscita a scalare il Campidoglio perché una parte almeno dei suoi elettori era stata autorizzata dall’autorità giudiziaria a sospettare che i suoi predecessori avessero lasciato devastare il Comune anche dalla mafia, e non solo dalla criminalità comune. O no? La Il Foglio.jpgsindaca fu aiutata a vincere la sua partita, di cui i romani stanno in  prevalenza non godendo ma subendo gli effetti, da quella “fiction”, come giustamente l’ha definita nel titolo di prima pagina Il Foglio, che si è rivelata “Mafia Capitale”.

            L’esito del processo dovrebbe ispirare fiducia nella Giustizia, con la maiuscola, che alla fine riesce a ristabilire una certa differenza tra la fiction, appunto, e la realtà, per quanto anch’essa assai grave, per carità. Eppure c’è qualcosa che lascia ugualmente l’amaro in bocca. E’ ciò che politicamente è o può essere accaduto fra il momento dell’accusa e il momento del verdetto finale, e cui non c’è sentenza che possa rimediare. Ciò riporta al problema del rapporto fra la giustizia e la politica, o fra la giustizia e l’opinione pubblica: quella che recentemente, parlando d’altro e più in alto, e ispirandosi al Manzoni dei Promessi Sposi, il presidente della Repubblica ha definito “il senso comune” quando prende ingiustamente e rovinosamente il posto del “buon senso”.  

 

 

 

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