Quante bugie contro il proporzionale e a favore del maggioritario

Si moltiplicano le preoccupazioni per la prospettiva del ritorno al sistema elettorale proporzionale della tanto odiata prima Repubblica perché gli elettori –si dice- perderebbero la possibilità di andare alle urne col diritto di scegliere non solo il partito ma anche la coalizione o la formula di governo. Non è però per niente vero che questo diritto fosse stato loro negato prima dell’avvento del sistema maggioritario, introdotto nel 1993 e sperimentato già l’anno dopo con la nascita, o l’illusione della nascita della cosiddetta seconda Repubblica.

Dal 1947 in poi, finita la fase emergenziale e post-bellica dei governi di unità nazionale, quando si ruppe il rapporto fra la Dc e il Pci dopo il famoso viaggio del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi negli Stati Uniti d’America, gli elettori italiani sono sempre, o quasi sempre andati alle urne sapendo con chi avrebbero poi cercato di accordarsi, per governare, i partiti ai quali avevano deciso di dare il loto voto.

Nel 1948, pur col sistema proporzionale, gli italiani andarono a votare scegliendo tra il “fonte popolare” di sinistra, composto da comunisti e socialisti, e la Dc che aveva già prenotato la prosecuzione della collaborazione con i socialdemocratici, i repubblicani e i liberali. Dalle urne uscì chiaramente una maggioranza di centro.

Nelle elezioni successive, del 1953, il centrismo degasperiano tentò addirittura di conquistare un premio di maggioranza, scambiato per “truffa” dalla sinistra, che dopo una quarantina d’anni vi fece però ricorso apprezzandone lo spirito democratico.

Si andò avanti con il centrismo per parecchio, sino a quando i socialisti e i democristiani non cominciarono, diciamo così, ad annusarsi: i primi rompendo con i comunisti e gli altri soffrendo la collaborazione con i liberali.

Prima di passare tuttavia dal centrismo al centrosinistra la Dc tenne nel 1962, con Aldo Moro segretario, un congresso a Napoli assai impegnativo per segnare la svolta. Pertanto alle elezioni del 1963 tanto gli elettori democristiani quanto gli elettori socialisti sapevano benissimo che i loro rispettivi i partiti avrebbero poi governato insieme.

Interrotto alla fine del 1975 il centrosinistra con l’annuncio del segretario del Psi Francesco De Martino di non volere più fare accordi con la Dc senza l’appoggio o il concorso del Pci, gli elettori nel 1976 votarono praticamente per la prima volta senza una prospettiva politica precisa. E il risultato fu neutro. Non uscirono vincitori. O ne uscirono due, come disse Moro parlando della sua Dc e del Pci berlingueriano. Non due vincitori diversi fra Camera e Senato, come si teme ora, ma due vincitori diversi su tutto il campo, che non potendo prevalere l’uno sull’altro in Parlamento per mancanza di alleati e di numeri, furono costretti alla cosiddetta solidarietà nazionale, con due governi monocolori del democristiano Giulio Andreotti appoggiati esternamente, e in modo determinante, dai comunisti.

Finita questa maggioranza per iniziativa del Pci, che preferì tornare all’opposizione nelle prime settimane del 1979, e cambiata la linea del Psi con il rafforzamento dell’autonomista Bettino Craxi alla segreteria, dopo le elezioni politiche anticipate di quell’anno si passò per varie fasi al cosiddetto pentapartito, che era poi la somma del centrismo col centrosinistra, comprensivo anche dei liberali. E così, sempre nella preventiva consapevolezza degli elettori, si proseguì sino alle elezioni ordinarie del 1992: le ultime svoltesi col sistema proporzionale, prima del referendum elettorale del 1993 che segnò il passaggio al metodo prevalentemente maggioritario.

 

 

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Il passaggio dal sistema proporzionale al maggioritario avvenne nella beata illusione che gli elettori avessero conquistato finalmente il diritto sino ad allora negato -ma abbiamo già visto che non era vero- di scegliere non solo il partito ma anche la coalizione o formula di governo, mettendola al sicuro da tradimenti e altre sorprese. Beata illusione, appunto.

Nel 1994 la combinazione di centrodestra improvvisata da Silvio Berlusconi con la curiosa alleanza al Nord con la Lega di Umberto Bossi e al Centro-Sud con l’ancora Movimento Sociale di Gianfranco Fini, per quanto tradottasi in un governo che si riteneva destinato a cementare col potere partiti territorialmente scontratisi fra di loro, durò poco più di sei mesi. A fine anno era già sfasciata. E fu sostituita con sollievo in quattro e quattr’otto dal capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro con un governo tecnico del ministro del Tesoro uscente Lamberto Dini.

Le elezioni anticipate del 1996 furono vinte da una coalizione di centrosinistra capeggiata da Romano Prodi ma caduta dopo due anni e mezzo per mano della Rifondazione comunista di Fausto Bertinotti. Che Massimo D’Alema sostituì nella maggioranza, pure lui in quattro e quattr’otto, alle spalle degli elettori, con un partitino di centro improvvisatogli apposta dall’immaginifico Francesco Cossiga. Ma dopo meno di due anni anche quel governo cadde, sostituito nuovamente in quattro e quattr’otto con Giuliano Amato solo per portare il paese l’anno dopo alle elezioni miracolosamente ordinarie.

Nel 2001 tornò a vincere Berlusconi con una rinnovata coalizione di centrodestra, grazie al recupero dell’alleanza con Bossi. Ma, per quanto durata un’intera legislatura fra liti e sgambetti dei centristi, riusciti persino a dividersi, come l’atomo, fra Pier Ferdinando Casini e Marco Follini, la maggioranza non riuscì neppure ad approvare unita l’ambiziosa riforma federalista della Costituzione. Che non a caso fu bocciata dagli elettori dopo un turno elettorale che aveva riportato al governo Prodi con una coalizione tanto eterogenea da cadere in meno di due anni, trascinandosi appresso la legislatura.

 

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Tornò quindi il Rieccolo Berlusconi con un centrodestra che il Cavaliere riteneva di avere cementato ben bene unificando in un solo partito -il PdL- la sua Forza Italia e la destra di un Fini promosso persino alla Presidenza della Camera. Ma costui, facendo incrociare le sue ambizioni personali, i guai giudiziari e di letto dell’alleato e una crisi economica che ancora ci trasciniamo appresso, sfasciò tutto, anche se stesso.

Abbiamo così dovuto sorbirci un anno e mezzo di duro governo tecnico di Mario Monti e persino la fine del tanto vantato “bipolarismo” prodotto -si era detto- dal sistema maggioritario. Sono subentrate le cosiddette larghe intese, dalle quali sarà ben difficile liberarsi, anche se non potranno certo essere gli elettori a stabilirne i confini. Berlusconi vi si è appena prenotato incontrando a Malta i suoi amici del partito popolare europeo.

Ora si pretende che, nel caos politico e istituzionale creatosi con la bocciatura quasi a furor di popolo di una pasticciata ma pur sempre riforma costituzionale e con ben due leggi elettorali affidate alla sartoria della Corte Costituzionale, per non parlare dei vaffa grillini, scambiassimo il ritorno al sistema proporzionale per la fine del mondo. Via, non esageriamo.

 

 

 

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La sinistra accecata dalle guerre alle persone

A dispetto del clamore che ha provocato, per la sua natura o motivazione antirenziana il bersangrillismo – come si potrebbe chiamare il persistente inseguimento del Movimento 5 stelle da parte dell’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani- appartiene ad un fenomeno politico di lunga durata. Anzi, lunghissima.

E’ il fenomeno della personalizzazione della politica, che risale a già prima della cosiddetta seconda Repubblica, e persino della caduta del muro di Berlino, quando si ritenne invece che fosse finita la politica a sfondo ideologico. E si pensò che in Italia potesse cominciare una politica di natura pragmatica, capace persino di rinunciare alla distinzione fra destra e sinistra, senza rendersi conto che questa era già finita da un pezzo. Da quando ? Vi scandalizzerò, ma ho quanto meno il sospetto che fosse finita dal 1980. E per iniziativa, magari inconsapevole, di un leader che passa per il più orgogliosamente legato alla visione ideologica della politica: Enrico Berlinguer.

Nell’autunno di quel 1980 l’allora segretario del Pci con quella che Emanuele Macaluso definì “la seconda svolta di Salerno”, dopo quella di Palmiro Togliatti nel secondo dopoguerra, chiuse a doppia mandata la porta del “compromesso storico” aperta sette anni prima con i famosi tre articoli su Rinascita suggeritigli dalla drammatica fine dell’alternativa di sinistra in Cile, caduto sanguinosamente nelle mani del generale Pinochet.

Il compromesso storico teorizzato da Enrico Berlinguer per l’Italia, ingovernabile democraticamente secondo lui senza la collaborazione fra i due maggiori partiti, la Dc e il Pci, fu la sua ultima scelta di natura ideologica. Fu una scelta compiuta con tale rigore e fede che Berlinguer arrivò a sfidare l’impopolarità della politica di austerità e a trovarsi in un conflitto inedito con rivendicazioni salariali che Forattini su Repubblica seppe rappresentare in quella vignetta ormai storica del segretario del Pci in vestaglia e imborghesito sotto le cui finestre sfilavano fischiando i metalmeccanici.

La pubblicistica corrente attribuisce ancora la svolta berlingueriana del novembre 1980 alla delusione, anzi all’allarme procurato al leader comunista dalla prova francamente disastrosa data dallo Stato, e non solo dal governo di turno, che era presieduto da Arnaldo Forlani, nell’emergenza del terremoto in Irpinia. Fra le cui rovine il segretario del partito comunista, accompagnato da Antonio Bassolino, fu ripreso sofferente e sconvolto dai fotografi e dalle telecamere. E il presidente Sandro Pertini dal Quirinale ne amplificò la sorpresa e il dolore.

Ebbene, sbaglierò ma dopo avere a lungo riflettuto su quei fatti, ed avere letto, fra l’altro, il libro prezioso di appunti, notizie e quant’altro che gli passava allora il più stretto e fidato dei suoi collaboratori, Tonino Tatò, ho maturato la convinzione che Berlinguer avesse girato la chiave in quella toppa, e rivendicato la “diversità” della sua parte politica, per reazione ai rapporti d’alleanza che la Dc aveva ripreso, ed era ormai decisa a rafforzare, con Bettino Craxi. Non a caso meno di tre anni dopo, nell’estate del 1983, il segretario del Psi avrebbe presieduto un governo di coalizione -il pentapartito- con la Dc. E da lì avrebbe tentato di rovesciare i vecchi rapporti di forza a sinistra con i comunisti, passando per la vittoria referendaria sui tagli alla scala mobile, la revisione del Concordato, l’orgoglio di Sigonella, il socialismo tricolore, l’ammissione al G7 e altro ancora.

Fu insomma l’anticraxismo -ma un anticraxismo di natura personale, e non per vendicare la barba tagliata a Marx da Craxi qualche anno prima fra le proteste anche di Eugenio Scalfari- che spinse secondo me Berlinguer ad arroccarsi. E a tal punto da farsi distanziare sul piano dell’ammodernamento istituzionale, come ha onestamente riconosciuto Piero Fassino nel suo libro autobiografico “Per passione”.

Morto Berlinguer sul campo dello scontro con l’avversario e non più soltanto concorrente socialista, l’anticraxismo proseguì nel Pci con Alessandro Natta e con Achille Occhetto. Al quale non parve vero approfittare nel 1992 della tempesta giudiziaria di Mani pulite per liberarsi del leader socialista, nel frattempo diventato ancora più ingombrante dopo la caduta del muro di Berlino con un rilancio dell’unità socialista scambiato, a torto o a ragione, per disegno di annessione dei comunisti.

Si consumò allora la tragedia giustizialista di una sinistra che non si rese conto di spianare così la strada, una volta eliminato politicamente Craxi, a Silvio Berlusconi. Che riempì, anzi occupò il vuoto creatosi con la caduta della cosiddetta prima Repubblica, peraltro attirando un elettorato socialista a dir poco traumatizzato.

L’antiberlusconismo, ricambiato d’altronde da Berlusconi con un anticomunismo ormai in differita, essendosi il comunismo esaurito, divenne una prosecuzione dell’anticraxismo. Massimo D’Alema arrivò a pagargli nel 1995 il tributo di un grosso sdoganamento della Lega allora secessionista di Umberto Bossi, scambiata per una “costola della sinistra” nella illusione di rendere definitiva la frattura creatasi alla fine del 1994 fra Berlusconi e il segretario del Carroccio. Un altro prezzo, inutile anch’esso perché i due tornarono ugualmente ad allearsi, fu pagato dalla sinistra riformando a strettissima maggioranza, nel nome del federalismo perseguito dalla Lega, il titolo V della Costituzione. Che però si tradusse solo in una serie di conflitti di competenza davanti alla Corte Costituzionale cui si è tentato inutilmente di porre rimedio con un’altra riforma: quella bocciata nel referendum del 4 dicembre scorso.

Nel 2007, a dire il vero, con la nascita del Pd, e la fusione tra i resti della sinistra Dc e del Pci, Walter Veltroni cercò di uscire dal vicolo cieco dell’antiberlusconismo cavalcato anche come questione morale, al pari di quanto era stato fatto contro Craxi nel 1992. Nella campagna elettorale anticipata del 2008 il segretario del Pd ricorse anche all’espediente di non chiamare mai per nome Berlusconi, indicandolo solo come “il principale esponente del campo avverso”, e prospettò persino una legislatura costituente. Ma al tempo stesso egli fece l’errore, all’ultimo momento, di sacrificare la cosiddetta vocazione maggioritaria del nuovo partito alla necessità, opportunità e non so cos’altro di un apparentamento col partito giustizialista di Antonio Di Pietro. Da cui il Pd finì, volente o nolente, per risultare condizionato, per cui la legislatura da costituente divenne di lotta esasperata ad un berlusconismo nel frattempo indebolitosi di suo con la defezione di Gianfranco Fini, addirittura con la crisi mediatica dell’allora presidente del Consiglio esplosa nel mezzo di una vicenda giudiziaria pruriginosa che prese il nome di una marocchina minorenne, e infine con l’irruzione di una crisi finanziaria ed economica che per le sue stesse dimensioni e provenienza, da oltre Oceano, non poteva onestamente essere addebitata al solo Berlusconi e al suo ultimo governo.

L’antiberlusconismo si tradusse con Bersani alla guida del Pd nella metafora crozziana del “giaguaro da smacchiare” e poi, in apertura della diciassettesima legislatura, quattro anni fa, nell’inutile inseguimento di un aiuto dei grillini per un governo “minoritario e di combattimento”, piuttosto che praticare la politica delle “larghe intese” con Berlusconi. Alle strette, Bersani preferì mollare tutto -incarico di presidente del Consiglio e segreteria del partito- pur di non accordarsi col Cavaliere di Arcore, che pure aveva appena partecipato alla conferma di Napolitano al Quirinale.

Seguì nell’interregno di Guglielmo Epifani, mentre Matteo Renzi scalava la segreteria del Pd, l’estromissione di Berlusconi dal Senato, dopo la condanna definitiva in Cassazione per frode fiscale, con votazione innovativamente palese, piuttosto che affidare la cosiddetta legge Severino, con la sua contestata applicazione retroattiva, all’esame della Corte Costituzionale, come suggerito anche da Luciano Violante.

La personalizzazione del processo o confronto politico era tuttavia destinata addirittura ad aggravarsi investendo non solo i rapporti esterni al Pd ma anche quelli interni. Vi si è arrivati con l’elezione di Matteo Renzi a segretario del partito, con la sua rapida e obiettivamente brusca scalata a Palazzo Chigi, con le paure create dalle sue riforme e col rifiuto da lui opposto, una volta sconfitto nel referendum costituzionale, alle attese che egli mantenesse la promessa imprudentemente fatta di ritirarsi da tutto, e non solo dalla presidenza del Consiglio.

Che queste attese di natura tutta personale si fossero diffuse nel Pd risultò evidente quando, postosi il problema di un congresso anticipato per una rilegittimazione come segretario, Renzi si vide contestare proprio da Bersani il torto di non voler rendere “contendibile” il partito. Fu la svolta della scissione.

C’è troppo antirenzismo in giro, fu l’allarme lanciato proprio qui, sul Dubbio, all’indomani del referendum costituzionale. Un antirenzismo in funzione del quale temo –ripeto- che sia nato anche quello che ho chiamato all’inizio il “bersangrillismo”, tradottosi nella paradossale promozione del Movimento 5 Stelle, per il suo irriducibile contrasto a Renzi, a partito di “centro” da parte di Bersani. E nella prospettiva di un accordo di governo con Grillo, a parti questa volta invertite rispetto al 2013, cioè con la sinistra chiamata a funzioni di supporto piuttosto che di traino.

Il bersangrillismo, peraltro snobbato anche dal Movimento 5 stelle, per quanto l’ex segretario del Pd abbia appena riconosciuto ai pentastellati anche il merito di formulare proposte persino migliori di quelle del Pd, potrà pure spingere a destra Renzi, non a caso rappresentato come uno che ha già deciso di allearsi con Berlusconi dopo le elezioni col sistema proporzionale, ma potrebbe ancora più rovinosamente tradursi nella tomba della sinistra. Che meriterebbe invece ambizioni migliori, per quanti errori essa abbia potuto fare nella troppo lunga fase – di quasi 37 anni- della personalizzazione della politica.

Pubblicato su Il Dubbio

Quei fascicoli farlocchi di Antonio Di Pietro

         Antonio Di Pietro, Tonino per gli amici, ha raccontato in provincia di Lecco, celebrando con gli ex colleghi della Procura di Milano Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo i 25 anni trascorsi dall’inchiesta Mani pulite sul finanziamento illegale dei partiti, e la corruzione o concussione che spesso lo accompagnava, come riuscisse a strappare agli indagati confessioni, ammissioni e quant’altro.

         Egli truccava i suoi fascicoli, riempiendoli di giornali o carta straccia, in modo che apparissero, nelle cartelle che li raccoglievano, densi di chissà quale e quanto materiale probatorio.

         L’indagato di turno, sollecitato anche da parole e frasi appropriate, come “sappiamo ormai tutto” e simili, si sentiva perduto e parlava. Magari, aggiungo io senza paura di correre troppo con la fantasia, il poveretto diceva anche più di quello che sapeva, immaginando di compiacere così il magistrato che gli stava davanti coinvolgendo nelle indagini nomi grossi di politici, di aziende e simili.

         In questa frenesia di interrogare e raccogliere rivelazioni, lo stesso Di Pietro ha raccontato che si spostava da un banco all’altro, essendone stati allestiti di diversi in una stessa stanza o stanzone, per essere più produttivo. Ciò spiega i verbali di più interrogatori risultati svolti alla stessa ora, o quasi. Alcuni dei quali, se non ricordo male, finirono all’esame del Consiglio Superiore della Magistratura determinando l’apertura di un procedimento non concluso per le improvvise dimissioni di Di Pietro dalla magistratura, presentate con motivazioni a dir poco controverse, non essendosi mai ben capite le ragioni vere per le quali il pubblico ministero ormai più famoso d’Italia appese al chiodo la toga e cambiò mestiere, sorprendendo per primo il suo superiore Francesco Saverio Borrelli. Che poi commentò la nomina di Tonino a ministro dei lavori pubblici del primo governo di Romano Prodi e, ancora dopo, la candidatura a senatore offertagli dal Pds-ex Pci nel blindatissimo collegio rosso del Mugello augurandosi che il suo ormai ex collaboratore fosse finalmente riuscito a realizzarsi appieno, o qualcosa del genere.

         Il racconto degli interrogatori di Di Pietro magistrato fatto da lui stesso, di cui trovo lodevole solo la sincerità, penso che sia la più plastica e involontaria dimostrazione di che cosa fosse stata quella che molti scambiarono, e scambiano tuttora, per l’epopea di Mani pulite. Quei fascicoli farlocchi, in quanto gonfiati con carta straccia e giornali, sia pure a fin di bene, come avrà pensato Di Pietro nell’inseguimento della verità e del colpevole di turno, non sono proprio il massimo che uno si aspetta nell’amministrazione della Giustizia. Almeno di quella con la prima lettera maiuscola. E almeno per un sempliciotto come me.

Bersani scambia i grillini per i vecchi compagni del Pci

 

Pier Luigi Bersani non si lascerà certamente convincere neppure dal vecchio amico ed ex compagno di partito Emanuele Macaluso. Che lo ha educatamente e amichevolmente esortato a smetterla di scambiare il Movimento 5 stelle per partito “di centro”, per quanto “arrabbiato”, e di corteggiarlo all’inverosimile, nella speranza apparente di riconquistare gli elettori una volta di sinistra che lo stanno votando da qualche tempo.

Macaluso ha, fra l’altro, ricordato a Bersani che anche il povero romagnolo Nicolò Bombacci, un insegnante e parlamentare di fede socialista, tra i fondatori nel 1921 del Partito Comunista d’Italia, s’invaghì dei fascisti finendo fucilato a Dongo nel 1945, mentre tentava con Benito Mussolini di fuggire dall’Italia dopo averla rovinata con la dittatura e la guerra. Ma dal fascismo, senza riuscire a cambiarne la natura, furono attratti anche esponenti liberali e del partito cattolico dei popolari.

Macaluso non arriva a dare del fascista a Beppe Grillo e al suo movimento, e neppure del nazista, come invece ha fatto più volte Silvio Berlusconi, ma si è fermato ad un aggettivo ugualmente pesante, che comporta per un democratico l’obbligo di combatterlo, non di inseguirlo sino ad accordarvisi, foss’anche per eliminare un comune avversario. Che sarebbe nel caso di Bersani naturalmente Matteo Renzi. L’aggettivo di Macaluso è quello di eversivo, per il proposito non certo nascosto da Grillo di sovvertire l’ordine costituito, come spiega un qualsiasi dizionario della lingua italiana: un ordine che secondo i pentastellati non basterebbe modificare, tanti sarebbero i ladri, i banchieri, i petrolieri eccetera eccetera che lo affollerebbero distorcendolo ai loro vizi e interessi.

Mancano all’elenco grillino di chi crea disordine nell’ordine solo i militari e i magistrati, specie questi ultimi, forse perché sotto sotto i pentastellati vogliono guadagnarsene i favori: quelli delle toghe di sicuro, forse anche per pescare tra di loro l’uomo giusto, abbastanza noto, per candidarlo alla guida di un governo a 5 stelle, a dispetto delle aspirazioni a premier dei vari Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, Dibba per gli amici.

 

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Il guaio, almeno per Macaluso, che conserva orgogliosamente il ricordo della sua militanza politica e inorridirebbe alla sola idea di poterla paragonare a quella dei pentastellati, è che Bersani con la sua strana teoria del centro, sia pure arrabbiato, inteso come elemento fisico e non politico, per cui è centrale tutto ciò che per una qualsiasi somma di circostanze si trova a stare in mezzo ad un incrocio, rappresenta Grillo e il suo movimento come una volta la sinistra democristiana, per esempio, rappresentava il Pci. Ripeto: il Pci, esattamente quello di cui hanno fatto parte sia Macaluso che lo stesso Bersani.

I vari De Mita della Dc degli anni Settanta e Ottanta, almeno dopo che Enrico Berlinguer cominciò a distanziarsi solo di pochi punti dallo scudo crociato di Amintore Fanfani e poi del moroteo Benigno Zaccagnini, e prima che Indro Montanelli salvasse i democristiani incitando i laici a votare per loro turandosi il naso, pur di non farli sorpassare dagli uomini delle Botteghe Oscure; i vari De Mita della Dc, dicevo, preferivano scommettere più sull’evoluzione del partito comunista che sulla prosecuzione o sulla ripresa dell’alleanza con i socialisti. E consideravano una bestemmia politica, o quasi, l’idea che si potesse creare un fronte governativo, o comunque di maggioranza, esteso sino ai confini con la destra, per isolare o non accordarsi col Pci.

Ciò è esattamente quello che oggi Bersani, come ha appena ripetuto nello studio televisivo di Lilli Gruber, a la 7, ritiene che non si debba fare per contrastare, anziché inseguire, cioè corteggiare, i grillini. Nei cui riguardi egli non condivide la qualifica di “populisti” attribuita loro, in particolare, da Matteo Renzi -e chi sennò?- per contrapporli ai “responsabili”. Alla testa dei quali Bersani immagina che il segretario uscente e ormai rientrante del Pd non veda l’ora di mettersi per formare un governo all’indomani delle elezioni politiche, ormai destinate a svolgersi col vecchio sistema proporzionale. Che consentirebbe ai partiti di andare alle urne senza vincoli di alleanze, da cercare e stipulare solo dopo il voto, secondo i rapporti di forza tra quelle rimaste in campo, e le loro convenienze naturalmente.

 

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Anche su questa storia del sistema elettorale proporzionale deplorevole in sé solo per questa libertà di azione che lascerebbe ai partiti, in grado quindi di pescare voti da una parte e poi schierarsi praticamente dall’altra, avrei da ridire, avendo avuto la possibilità, diversamente da tanti giovani o meno giovani che ne scrivono, di avere visto e raccontato da giornalista buona parte dei 50 anni anni di applicazione del sistema proporzionale, appunto, nella Repubblica italiana.

Gli elettori, fatta eccezione per l’appuntamento anticipato con le urne del 1976, hanno sempre saputo con chi poi si sarebbero alleati i partiti per i quali avevano deciso di votare. Ma ve lo racconterò meglio un’altra volta, perché ho già abusato del vostro tempo.

 

 

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Il gasdotto senza gas di Michele Emiliano

 

            Michele Emiliano, il governatore pugliese, e magistrato in aspettativa di ormai lungo corso, attribuisce al troppo poco tempo accordato da Matteo Renzi ai suoi concorrenti alla segreteria del partito, per quanto siano i tempi dello statuto del Pd, la causa del flop della propria candidatura.

            Egli sta rischiando di non ottenere neppure il 5 per cento dei voti degli iscritti, necessari invece per potere partecipare a fine aprile alle primarie congressuali aperte ai non iscritti. Fra i quali “don Michele”, come lo chiamano a Bari, pensava e forse pensa tuttora, in caso riesca a rimanere in gara, di poter guadagnare tanto da contendere almeno il secondo posto in classifica al guardasigilli Andrea Orlando. Che Renzi sta distanziando di una trentina di punti. 

            Non passa mai per la testa di Emiliano che a nuocergli siano state sinora non le scadenze congressuali per lui troppo forti, ma le sue scelte comportamentali e politiche. Quel suo lungo indugiare fra andare via, con Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e altri, dal Pd e rimanere, sino a scusarsi con Renzi per avergli attribuito a torto il progetto di elezioni anticipate a giugno. Quel suo protagonismo continuo, saltando su tutte le contestazioni di turno: dalle trivelle in Adriatico, con annesso referendum naufragato nelle astensioni, al gasdotto in arrivo sulle coste pugliesi con tutti i timbri di legge, compresi quelli del Consiglio di Stato, dagli ulivi all’acqua. Quella sua pretesa di restare in magistratura, maturando scatti di carriera e pensione, nonostante il divieto d’iscrizione ai partiti anche per i magistrati in aspettativa, o fuori ruolo. Quel suo inseguimento dei grillini, ora in piena concorrenza con Bersani, spintosi ad offrire un aiutino ai pentastellati se dopo le prossime elezioni si troveranno come lui nel 2013: primo nella classifica elettorale ma senza i numeri parlamentari per governare.

            Il minimo che possa capitare ad un corridore del genere è finire fuori strada: in auto, in moto, in bicicletta, e persino a piedi.

            Di lui, uno che lo conosce bene per ragioni territoriali, l’ex direttore pugliese dell’Unita’ Peppino Cardarola, ha scritto che il suo antirenzismo esasperato è un fenomeno più psicologico che politico, dovuto al fatto che in fondo è un altro Renzi, ma non realizzato. Una specie insomma di gasdotto senza gas.

Se a un conte capita di diventare un pallone

Più guardo Paolo Gentiloni nelle foto, nelle riprese televisive e, quando mi capita d’incrociarlo, nei suoi attraversamenti dei corridoi in Parlamento, più mi viene voglia di solidarizzare con lui per l’abuso che ne stanno facendo da tutte le parti.

Più che la testa di una persona, più che la faccia di un pacatissimo conte disponibile sempre al sorriso e alla comprensione, capitato quasi per caso a Palazzo Chigi proprio perché potesse con quel viso e con quei modi garantire una pacata transizione fra il primo governo di Matteo Renzi e non si sa ancora francamente cos’altro, quella di Gentiloni mi sembra diventata una palla. Anzi, un pallone. Che in una partita è destinato ad essere preso a calci da tutti, proprio da tutti, spesso anche dai portieri, ai quali non è prescritto di afferrarlo o raccoglierlo solo con le mani. Anche i portieri lo possono calciare, mandandolo il più lontano possibile verso l’altra metà del campo.

Matteo Renzi, che pure è stato il primo a mandarlo a Palazzo Chigi, suggerendone la nomina al presidente della Repubblica quando, sconfitto nelle urne referendarie del 4 dicembre, egli ha ritenuto di doversi dimettere almeno dalla guida del governo, rinunciando alla promessa originaria di rinunciare anche alla guida del partito, ogni tanto lo incalza, lo corregge, prende le distanze dai suoi ministri, specie quelli tecnici, che sono poi due: Pietro Carlo Padoan al Tesoro e Carlo Calenda allo Sviluppo Economico. Non dico che Renzi stia ripetendo a Gentiloni il trattamento Letta -da Enrico, il presidente del Consiglio da lui detronizzato tre anni fa- ma qualche volta ne dà l’impressione, a torto o a ragione.

Di Beppe Grillo e dei suoi “portavoce” parlamentari non ne parliamo. Non c’è una cosa del governo Gentiloni che vada bene agli onorevoli pentastellati e ai loro amici “pennivendoli”, direbbe il compianto Ugo La Malfa. Che definiva così i giornalisti quando li considerava appiattiti su qualche partito diverso dal suo.

 

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Neanche del segretario leghista Matteo Salvini e della sorella dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni vale la pena parlare, tanto costante è il loro rifiuto di riconoscere un merito al governo in carica. Che pure ha un ministro dell’Interno -Marco Minniti- provvisto di un polso ragguardevole, abbastanza efficace per garantire quella cosa che alla destra una volta piaceva sopra ogni altra: l’ordine.

Neppure della sinistra cosiddetta estrema, o della sua galassia, tante ne sono le sigle, sottosigle e “anime”, è il caso di parlare perché nessun governo sarà mai in grado di soddisfarne le attese, neanche se dovesse un giorno capitare di guidarlo a Nichi Vendola, che lo ha già fatto in Puglia, o all’ormai pensionato ma sempre in buona salute Fausto Bertinotti.

Dagli appena fuoriusciti dal Pd per formare un nuovo movimento e gruppi parlamentari rovesciandone la sigla in Dp Gentiloni poteva attendersi forse una mano, visto che Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni consumarono la loro scissione con l’aria di volerne difendere il governo dalla voglia di Renzi di liberarsene al più presto per andare alle elezioni anticipate. Invece Bersani in persona ha appena annunciato a Repubblica, che ha giustamente titolato in prima pagina: “Non sosterremo Gentiloni a tutti i costi”. Che è poi la posizione assunta dallo stesso Bersani quando nacque il governo del conte e l’allora minoranza del Pd, ancora indecisa se andarsene via, avvertì che esso avrebbe dovuto guadagnarsene l’appoggio di volta in volta. Fu dopo, invece, che quella minoranza scoprì l’utilità del governo in carica, quando pensò che poteva calciarlo come un pallone contro Renzi per trattenerlo dalla convocazione del congresso e dal tentativo di farsi confermare in tempi brevi alla segreteria del partito.

A dire il vero, Bersani non si accontenta di giocare contro Renzi solo il pallone Gentiloni, diciamo così. Nelle sue manovre quotidiane, anzi orarie, perché l’ex segretario del Pd non sta mai fermo, Bersani gioca contro Renzi anche il pallone Grillo. Il quale però, non essendo fesso, lo ha capito bene e ne rifiuta il sempre più insistente corteggiamento, consistente in quello che altre volte ho chiamato qui “bersangrillismo”. Esso fu già sperimentato inutilmente all’inizio di questa legislatura, sfociando in uno streaming a dir poco umiliante per l’allora presidente incaricato, o pre-incaricato, del Consiglio.

Ora addirittura, senza con questo riuscire a smuovere il comico genovese, Bersani anziché chiedere un aiuto ad un proprio governo minoritario lo offre a quello che Grillo potrebbe tentare all’inizio della prossima legislatura, se prendendo più voti di tutti, pur senza disporre della maggioranza in Parlamento, reclamasse ed ottenesse dal capo dello Stato per qualcuno dei suoi amici l’incarico, addirittura, di primo ministro.

 

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Tutto sommato, chi procura meno problemi a Gentiloni e al suo governo è Silvio Berlusconi. Al quale, per quanto possa notoriamente piacere il gioco del calcio, non conviene trattare come un pallone la testa o la faccia del presidente del Consiglio in carica. Che egli contribuirebbe volentieri a fare rimanere a Palazzo Chigi anche dopo le elezioni se Renzi, di cui l’ex Cavaliere non si fida più tanto, dovesse decidersi o rassegnarsi per ragioni meramente numeriche da segretario del Pd alla formazione di una maggioranza di cosiddette larghe intese col pur frammentato mondo centrista.

Ma per ora, in attesa o nella speranza che dopo le elezioni la situazione possa migliorare, Gentiloni deve accontentarsi di avere da Berlusconi solo il riguardo, appunto, di non scambiarlo per un pallone.

Quando il governo è costretto a ricorrere alla fiducia per portare avanti i suoi provvedimenti, o deve giocare in difesa se qualcuno dall’opposizione prova a sfiduciare lui o qualche ministro di cui non può fare politicamente a meno, Gentiloni può attendersi da Berlusconi, al massimo, l’ordine ai suoi senatori e deputati di non partecipare alla votazione. Che è poi un modo per dire: non volendoti o potendoti dare la fiducia per non perdere la faccia con i miei elettori, o espormi il meno possibile alla concorrenza dei miei ex o potenziali alleati, mi limito a salvarti dalla sfiducia.

“Così è (se vi pare)”, direbbe il grande Luigi Pirandello, che diede questo titolo ad un suo famosissimo dramma. Ripeto: dramma, non commedia.

 

 

 

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Quelle scarpe chiodate dell’euro

            Nel tentativo di piacere sempre di più alle mamme tedesche, che lo considerano notoriamente il genero ideale, anche se non possono apprezzarne le performance televisive italiane nel salotto a lui familiare di Lilli Gruber, della quale è inutile indicarvi, con quel nome, la orgogliosa origine, Mario Monti è tornato a scrivere la storia dell’euro come di una moneta subita, e non voluta dalla Germania. E ciò diversamente da quanto sostengono i perfidi “sovranisti” italiani, e loro simili altrove, convinti di essere stati colonizzati da Berlino con quei soldi che sono stati condannati a portare in tasca.

            In particolare, il senatore a vita ed ex presidente del Consiglio ha ricordato che i tedeschi non volevano saperne di rinunciare al loro fortissimo marco, di carta e di metallo, per cui punirono severamente nelle urne il loro cancelliere di allora, Helmut Kohl, quando decise di adottarlo per restare fedele agli ideali europei del suo predecessore Konrad Adenauer. Il cui inconfondibile profilo da Riace i più giovani hanno potuto conoscere in questi giorni vedendo i documentari degli anni Cinquanta, quando in una giornata sfortunatamente piovosa di primavera furono firmati in Campidoglio i trattati europei.

            Peccato però che la storia di Monti, per essere digerita come una favola, si ferma qui, a metà del suo percorso. Ma forse anche a meno della metà.

            Monti omette o dimentica deliberatamente di dire che, una volta unificata ben bene anche la loro moneta dell’ovest e dell’est grazie allo sforamento delle regole dell’Unione Europea autorizzato dagli altri soci, i tedeschi hanno preteso e ottenuto altre cosette come il patto di stabilità e il fiscal compact che, pur nella “stupidità” lamentata non da un turista di passaggio a Bruxelles ma da Romano Prodi, hanno ribaltato la situazione.

            È con quelle cosette un po’ stupide che l’euro romanticamente immaginato da Kohl ha messo i chiodi, o cingoli, sotto le scarpe. Ed è diventato un incubo per la maggior parte di quelli che dalla tasca se lo ritrovano adesso sulla testa.

L’irruzione di Mario Monti nel cortile italiano

Quelli del senatore a vita Mario Monti, di cui non starò qui a ricordare inutilmente il lungo curriculum accademico, culturale, amministrativo e infine politico, non si sa mai se definirli più processi o esami. Ma sono sempre severi, puntuti. L’uomo sceglie gli aggettivi e gli avverbi sempre con precisione chirurgica. Pochi, davvero pochi scampano alle sue rasoiate, specie se hanno avuto la dabbenaggine di provocarlo, come ha fatto, anzi rifatto quell’imprudente di Matteo Renzi accomunandolo a Silvio Berlusconi e ad Enrico Letta. Che avrebbero fatto tutti peggio di lui nella gestione del deficit italiano.

“Polemiche da cortile”, le ha liquidate il senatore a vita, avvolto nel solito, sobrio completo grigio e collegato con lo studio televisivo di Lilli Gruber, a la 7, da Bruxelles. E da dove sennò ? L’uomo, si sa, è più europeo che italiano, da fondazione rovesciata a quella – Italineuropei- fondata a suo tempo da Massimo D’Alema. Egli vive più fra Bruxelles e Berlino che fra Milano e Roma. Ma di ciò che accade nel “cortile” della politica italiana tuttavia non gli sfugge niente perché lui sa informarsi, leggere e ascoltare, diversamente da Renzi, che “parla molto -ha detto- e ascolta poco”. Ma al posto di molto Monti voleva forse dire troppo, e al posto di poco voleva dire naturalmente niente.

Ciò che Monti non perdona a Renzi, più ancora dell’Imu tolta dalla prima casa, sfidando i pareri di Bruxelles e di Berlino, e più delle “mance” elettorali con le quali avrebbe sprecato, fra votazioni europee del 2014 e referendum costituzionale del 2016, tutte le “flessibilità” strappate alla Commissione comunitaria, è soprattutto di averlo scambiato in questi giorni per uno dei concorrenti alla segreteria del Pd. Cioè, per un Andrea Orlando o un Michele Emiliano qualsiasi, anche se fra i due, anzi fra i tre, comprendendo lo stesso Renzi, il senatore a vita riconosce al ministro della Giustizia in carica almeno il merito di avere sfilato per le strade di Roma sabato scorso con gli europeisti: peraltro, nello stesso corteo che Monti, refrattario alle marce, ha voluto onorare della sua presenza.

Non solo non è candidato a segretario del Pd, ma a Monti non salta neppure in testa, ora che non dispone più di un suo partito, avendolo abbandonato o sciolto poco dopo averlo fondato, l’idea di partecipare il 30 aprile alle primarie piddine. Figuratevi se poteva farsi convincere dalla troppo incalzante “dottoressa” Gruber a dire chi preferisse fra Renzi e Orlando, pur dopo avere già mostrato chiaramente la sua simpatia per il secondo, almeno come collega di marcia. Dire “compagno” per uno come Monti sarebbe stato oggettivamente troppo.

 

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Come serata di processo o di esame, quella di Monti in collegamento da Bruxelles non è stata confortante neppure per Enrico Letta, suo diretto successore a Palazzo Chigi e predecessore di Renzi. Non parliamo poi di Berlusconi, che Monti comunque continua deferentemente a chiamare “presidente”. Fra i due, quando l’allora Cavaliere gli ritirò la fiducia parlamentare, ormai in campagna elettorale, calò un sipario che neppure una gru potrebbe mai rimuovere, neppure se Berlusconi all’improvviso riscoprisse le qualità tecniche dell’uomo che per primo mandò nella Commissione Europea a rappresentare l’Italia.

Di Enrico Letta il senatore Monti apprezza i toni ma non i contenuti, diciamo così, trovandoli troppo modesti o contraddittori nei riguardi della severità imposta dai nostri vincoli europei. Pertanto all’ipotesi prospettatagli dalla solita, invadente Gruber di un ritorno di Letta alla politica, se mai se ne fosse davvero allontanato andando a insegnare a Parigi, Monti ha cercato a lungo di restare indifferente. E poiché la “dottoressa” conduttrice non mollava, spalleggiata nello studio da quel sornione di Paolo Mieli, che in politica ne ha viste di cotte e di crude per farsi sorprendere da qualsiasi svolta o ritorno, a Monti è riuscito solo di dire che “non sarebbe un male” se la palla dovesse proprio tornare ad un giocatore che pure non l’ha saputa giocare al meglio nella prima partita.

In che cosa consista esattamente la colpa di Enrico Letta è presto detto, secondo il rimprovero fattogli esplicitamente da Monti: avere pasticciato durante i suoi pochi mesi di governo, meno di un anno, per non conservare l’Imu sulla prima casa messa dall’esecutivo tecnico dello stesso Monti con una manovra fiscale sulle proprietà immobiliari di cui purtroppo nessuno nello studio televisivo ha osato ricordargli il risultato, non so se più per cortesia o per dimenticanza. Il gettito si rivelò superiore al previsto esattamente nella misura dell’imposta sulla prima casa, di cui pertanto si poteva tranquillamente fare a meno per assicurare al provvedimento del governo le entrate volute.

Evidentemente quella del prelievo fiscale sulla prima casa è per Monti, e non solo per lui, una questione di principio, di dottrina, persino di moralità. Che quel “matto” di Renzi, come lo stesso Renzi si è appena vantato di essere stato e di voler tornare ad essere nei rapporti con Bruxelles, ha voluto imbrattare.

 

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Temo che anche il conte Paolo Gentiloni rischi di fare la fine di Enrico Letta nel giudizio o nei voti di Monti. Il presidente del Consiglio ha infatti colto l’occasione di un incontro già programmato con i presidenti delle giunte regionali per non lasciar cadere nel vuoto l’appello lanciato da Renzi a non farsi dettare supinamente le scelte di governo da Bruxelles. I cui vincoli -ha riconosciuto il presidente del Consiglio- “non sono intoccabili”. Di quanto si potrà verificare entro aprile, fra documento di programmazione economica e manovra o manovrina di aggiustamento dei conti reclamata dalla Commissione europea per 3,4 miliardi di euro. Ma ancor più si verificherà in autunno, quando si dovrà procedere alla legge finanziaria del 2018, se non dovessero intervenire le elezioni anticipate e un conseguente ricorso al cosiddetto esercizio provvisorio. Che proprio in quanto provvisorio potrebbe o dovrebbe sottrarsi a interventi comunitari.

Pur essendo stato spiazzato dalle distanze prese nei giorni scorsi da Renzi rispetto alla decisione del governo di abolire i buoni di lavoro accessorio -i famosi voucher- per non rischiare il referendum promosso dalla Cgil di Susanna Camuso, il presidente del Consiglio ha quindi voluto ristabilire una linea di continuità col suo predecessore sul tema dei rapporti con i partner europei. E’ una scelta che appare destinata, ad occhio e croce, ad avere conseguenze anche all’interno del Pd, dove Gentiloni non si è messo nella posizione neurale assunta da Enrico Letta nel 2013, durante la prima scalata di Renzi alla segreteria.

Gentiloni sostiene il segretario uscente e rientrante del Pd. E non avrà probabilmente motivo di temere contraccolpi alla conclusione del congresso, anche perché i fuoriusciti dal Pd stanno già litigando fra di loro per impensierire più di tanto quelli vi sono rimasti.

 

 

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L’elogio zoppicante dell’obesità di Giuliano Ferrara

Sarà pure interessata, in pieno e sfacciato conflitto d’interessi, si sarebbe detto ai tempi dell’amico Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, ma bisogna togliersi a prima vista il cappello davanti all’elogio dell’obesità fatta sul suo Foglio da Giuliano Ferrara con l’abituale firma dell’elefantino. Che avrà pure il diminutivo, ma resta pur sempre un elefante, che fa vibrare le bilance.

         Al governatore pugliese Vincenzo De Luca, che di solito piace al fondatore del Foglio ma si è lasciato scappare di recente della “chiattona” ad una esponente grillina del Consiglio regionale della Campania, Giuliano Ferrara ha giustamente ricordato l’obesità non solo di Churchill ma anche di Buddha.

         Persino Napoleone, seppure non citato da Giulianone, ad un certo punto dovette rassegnarsi ad una certa pinguedine.

         “Fortuna, intelligenza, talento non stanno nel punto vita, ma nel giro di testa e per i sentimentali nel cuore”, ha scritto Ferrara. Il quale si è avventurato a testimoniare che “essere bene in carne è attributo quasi divino”. E che “i grassi spesso ne hanno capito una più degli altri”. Come non dargli ragione, anche se qualcuno dei suoi consigli non ha forse aiutato molto Berlusconi quando gli faceva da ministro per i rapporti col Parlamento, nell’ormai lontano 1994? Allora non sarebbe stato forse sbagliato un consiglio di Ferrara al suo presidente del Consiglio a dimettersi piuttosto che rinunciare alla conversone in legge di un decreto che aveva limitato il ricorso alle manette nella fase delle indagini preliminari. Con quella rinuncia, reclamata minacciosamente dai pubblici ministeri di Milano e condivisa dai leghisti, l’allora Cavaliere del Lavoro dimostrò una vulnerabilità che, a mio modestissimo avviso, lo avrebbe danneggiato negli anni successivi, pur riuscendo lui a cadere e a rialzarsi più volte nelle elezioni.

         Alla nobile e un pò castale difesa dei chiattoni da parte di Giulianone è tuttavia mancato qualcosa. Anche lui in fondo ha pagato un prezzo al compromesso. Per non smentire forse la sua puntuale e non immotivata polemica con i grillini, il simpatico chiattone del Foglio non ha ritenuto di citare una sola volta, con nome e cognome, la grillina incorsa nell’insulto di quel maleducato del governatore campano. Così, volente o nolente, egli ha finito per dimezzare la sua solidarietà di obeso.

         All’omissione di Giulianone rimedio, nel mio piccolo, scrivendo che la malcapitata grillina si chiama Valeria Ciarambino, capogruppo del Movimento 5 stelle nel Consiglio regionale della Campania.

                                           

Renzi promette di “fare il matto” in Europa

Rimastosene educatamente zitto, oltre che assente dalla festa capitolina del sessantesimo compleanno dei trattati europei, per non sovrapporsi -ha detto- all’amico e presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, essendo tutta sua “la giornata” come padrone di casa, Matteo Renzi è tornato a farsi sentire alla propria maniera. Cioè, rilanciando l’insoddisfazione per la troppa austerità praticata nel vecchio continente negli ultimi anni, a spese della ripresa economica: l’opposto di quanto fatto dall’allora presidente Obama negli Stati Uniti. Ed ha avvertito che è ora di finirla a dire che l’Europa ci chiede questo o quello, magari più tasse, perché è arrivato invece il momento che a Bruxelles imparino a dire che è Roma a chiedere più flessibilità e meno regole, specie quando queste sono definite “stupide” anche da uno come l’ex presidente della Commissione comunitaria Romano Prodi.

La polemica di Renzi con i suoi ex colleghi degli ultimi vertici europei si riflette anche nei rapporti con alcuni ministri, in particolare quelli del Tesoro e dello Sviluppo Economico, Pietro Carlo Padoan e Carlo Calenda, più sensibili al rigore reclamato a Bruxelles, anche a costo di usare la leva del fisco.

La sortita renziana più esplicita contro i due esponenti tecnici del governo è venuta dalla vice di Calenda, Teresa Bellanova. Che ha rivendicato il primato della politica nelle scelte che attendono a breve l’esecutivo per la manovra di aggiustamento dei conti italiani chiesta dalla commissione europea entro aprile, in coincidenza con le primarie congressuali del Pd. Che non sono certamente per Renzi, il segretario uscente e ormai rientrante del maggiore partito di governo, la circostanza più adatta a frenarlo sulla strada della polemica. Non a caso egli si è vantato di avere cominciato a fare “un po’ il matto” nei rapporti con i soci europei nei suoi anni a Palazzo Chigi, col sottinteso che riprenderà a farlo se gli dovesse capitare di tornarvi, o di condizionare il governo di turno, come d’altronde spera di fare con quello in carica.

 

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Ad una settimana dalla conclusione della fase delle primarie limitata agli iscritti agli oltre 6300 circoli del Pd, Renzi vanta di avere raccolto il 64 per cento dei voti, contro il 29 del concorrente e ministro della Giustizia Andrea Orlando, sostenuto adesso nella corsa anche dall’ex presidente del Consiglio Enrico Letta. Quasi non pervenuto sarebbe invece il risultato del governatore pugliese Michele Emiliano, che pensa di rifarsi nelle primarie alle quali potranno partecipare i non iscritti, fra i quali egli ritiene di essere più popolare, specie al Sud.

Tanto Emiliano – al quale non viene mai nessun dubbio sulla ricaduta negativa che può avere il suo doppio ruolo di candidato alla segreteria, oltre che governatore regionale, e di magistrato in aspettativa che continua però a maturare pensione e carriera- quanto Orlando hanno rimproverato a Renzi una scarsa partecipazione degli iscritti alle votazioni nei circoli come prova della crisi disaffettiva provocata dalla sua gestione del partito. E già sfociata nella scissione a sinistra di Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni, ora, del Dp. Che è la sigla rovesciata del Pd.

Ma i dati portati da Renzi sembrano smentire la rappresentazione dei suoi avversari e concorrenti, rivelando un’affluenza del 61 per cento, contro il 55 delle analoghe primarie del 2013: quelle della sua irresistibile scalata alla guida del partito.

Di dispute sui dati provvisori delle campagne congressuali se ne sono avute sempre nella storia dei partiti, anche di quelli della cosiddetta prima Repubblica, per cui conviene a questo punto aspettare la conclusione delle operazioni di voto fra gli iscritti per farsi un’idea precisa sullo stato delle cose piddine.

 

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A destra del Pd non ci sono congressi da seguire, ma solo le solite cronache degli incontri, delle telefonate, compresa quella che si sarebbero appena scambiati Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, delle manovre locali, specie ora che si preparano le liste per le elezioni amministrative dell’11 giugno, per quanto non ancora fissate formalmente, e delle manifestazioni. Fra le quali ci sarà il primo giorno di aprile quella del movimento fondato da Stefano Parisi, caparbio abbastanza per non arrendersi al colpo infertogli da Berlusconi. Che prima lo mise in pista, l’anno scorso, per riorganizzare insieme Forza Italia e il centrodestra, e poi lo esonerò con una semplice dichiarazione per essersi scontrato troppo con la Lega. E ciò peraltro senza che Berlusconi riuscisse poi a sottrarsi alla polemica con Salvini, alimentata anche con incontri e offerte di candidature da indipendente nelle liste di Forza Italia a Umberto Bossi, contestatore a viso aperto della linea lepenista del suo successore alla guida del Carroccio.

Proprio la linea lepenista ha appena indotto Salvini a condividere la forte repressione del dissenso avvenuta a Mosca, dove la candidata all’Eliseo Marine Le Pen ha preferito recarsi in visita da Putin proprio mentre a Roma il presidente uscente della Repubblica francese partecipava alle celebrazioni dei 60 anni dei trattati europei.

Compiacersi degli oltre 600 arresti eseguiti in un giorno nella capitale russa, fra i quali quello dell’ormai notissimo blogger AleKsej Navalny, non è proprio il massimo per un segretario di partito in Italia. Nè potrebbe risultare il massimo la stessa visita di Marine Le Pen da Putin in vista delle elezioni presidenziali francesi.

Una sconfitta lepenista in Francia sarebbe un durissimo colpo anche per Salvini in Italia, dove il segretario della Lega contende a Berlusconi la leadership di un’eventuale riedizione del centrodestra.

 

 

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