La parabola trentennale della Procura della Repubblica di Milano

            A proposito delle indagini della Procura di Brescia annunciate a carico del capo della Procura ambrosiana Francesco Greco per omissione d’atti d’ufficio, almeno per ora, si può dire che tutto, o quasi tutto, cominciò a Milano nel 1992, con l’arresto di Mario Chiesa in flagranza di tangenti nel suo ufficio di presidente del Pio Albergo Trivulzio, e tutto, o quasi tutto, potrebbe concludersi a Milano.

Frank Cimini sul Riformista

            Nel 1992 Greco aveva 41 anni ed era uno dei sostituiti procuratori di Francesco Saverio Borrelli. Oggi egli regge quella Procura da cinque anni e dovrebbe andare in pensione a novembre, quando ne compirà 70. Ma il vecchio, direi storico cronista giudiziario Frank Cimini, napoletano come Greco insediato per lavoro in Lombardia, gli ha già suggerito dalle colonne del Riformista di rinunciare volontariamente e in anticipo all’incarico perché “non sembra in grado di riguadagnare l’antica credibilità”. Egli sarebbe indebolito non solo e non tanto dal procedimento avviato a Brescia, dove non è certamente la prima volta che si indaga su magistrati operanti a Milano, quanto dai contrasti esplosi su di lui all’interno della Procura, e più in generale del tribunale di Milano.

Greco è accusato, sospettato e quant’altro di non avere promosso l’azione penale sollecitata dal suo sostituto Paolo Storari per le rivelazioni di un avvocato, Piero Amara, troppo prezioso quale teste contro l’Eni in un processo di corruzione internazionale in corso per rischiare di comprometterne la credibilità. Questo processo tuttavia si è concluso con la sconfitta dell’accusa, per quanto questa avesse omesso di rendere pubblici elementi favorevoli agli imputati emersi dalle indagini.

Francesco Saverio Borrelli

            Tutto o quasi, dicevo, cominciò a Milano con Francesco Greco come uno dei sostituiti di Francesco Saverio Borrelli -famoso anche per quel “resistere, resistere, resistere” gridato in tribunale contro il governo di turno presieduto da Silvio Berlusconi, non sconosciuto di certo negli uffici ambrosiani d’accusa- e tutto o quasi potrebbe concludersi  a Milano. Cosa sia questo tutto o quasi prescinde dalle persone, a cominciare dal capo uscente della Procura ambrosiana per finire -a ritroso- con la buonanima di Francesco Saverio Borrelli, e riguarda il protagonismo assegnatosi da quella postazione e riconosciutagli da tutto il sistema giudiziario, con l’appoggio di quasi tutti i giornali. Dagli avvisi di garanzia in partenza da Milano, dalle sue richieste di arresti, quasi sempre concesse ed eseguite davanti a telecamere puntualmente presenti, cominciò a ruotare tutta la politica: sia quella della morente prima Repubblica sia quella delle successive edizioni .

            A toccare quel protagonismo, insidiato solo dalla Procura di Palermo col filone giudiziario non della corruzione ma della mafia, si rischiava grosso. Rischiavano i giornalisti con processi per diffamazione senza scampo, o quasi, e i politici. Ci rimise il posto anche un ministro della Giustizia, il compianto Filippo Mancuso, sfiduciato al Senato per avere osato ordinare un’ispezione sgradita a Milano. Sono fatti, non illazioni. E solo i fatti potranno ora dirci se e quanto le cose siano cambiate, o possano cambiare.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Il resto della riforma della Giustizia potremo farlo nelle urne referendarie

Titolo del Dubbio

Con la solita franchezza consentitami da un giornale le cui insegne culturali e civili sono il dubbio e il conseguente garantismo debbo dirvi che più leggo l’elenco dei reati esclusi formalmente o di fatto, con presunti “aggiustamenti tecnici”, dalla “improcedibilità” preferita alla prescrizione dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia nei passaggi in appello e in Cassazione, meno mi convinco dell’”addio” volenterosamente o ottimisticamente annunciato al “fine processo mai”. O alla figura barbarica dell’imputato a vita. E più mi verrebbe voglia di dare ragione, una volta tanto, al Fatto Quotidiano con quel titolo di prima pagina su “Cartabia&C.” che “cedono” a Conte, riuscito quanto meno a “limitare i danni”, dal suo punto di vista, derivanti dalla riforma del processo penale all’esame della Camera.

Titolo del Fatto Quotidiano

            Potrei, sempre una volta tanto, condividere anche il fotomontaggio del giornale diretto da Marco Travaglio in cui il pugno destro dell’ex presidente del Consiglio è infilato in un guantone rosso da pugile e Draghi e Cartabia hanno l’occhio destro livido e occultato con una lente nera.

Fotomontaggio del Fatto Quotidiano

            Dirò ancora di più. Sempre una volta tanto, immedesimandomi in un elettore di quelli ai quali si rivolge con l’aria del consigliere e del protettore il direttore del Fatto Quotidiano, potrei condividere la sua lettura delle decisioni prese dal Consiglio dei Ministri dopo le convulse trattative sulle modifiche alle modifiche del governo alla riforma del processo penale. In particolare, Travaglio ha scritto che “i pericoli peggiori (anche se non tutti) della schiforma Cartabia sembrano sventati: basta confrontare il testo originario con quello stravolto dall’accordo di ieri. I 5 Stelle, dopo mille cedimenti e sbandate, ridanno agli elettori un motivo per votarli”.

La liberatoria di Marco Travaglio

            Che cosa dovrebbe fare allora uno come me, che non ha mai votato e tanto meno condiviso le aspirazioni di un movimento come quello delle 5 stelle, neppure le istanze all’onestà perché contraddette spesso dalla pratica dei loro portavoce e dall’arbitraria applicazione della disonestà a comportamenti legittimi? Dovrebbe aggiungere il presidente del Consiglio e la ministra della Giustizia in carica, con tutto il loro prestigio, e la loro storia professionale alle spalle, al lungo elenco degli opportunisti o dei pavidi che hanno fatto mettere la politica, il Parlamento, la democrazia e chissà cos’altro sotto i piedi di una certa magistratura stravolgendo la Repubblica, sino a renderla più giudiziaria che parlamentare? E, di conseguenza, avendo presuntivamente tutti fallito nell’azione di contrasto a questo andazzo cominciato tanti anni fa, forse ancor prima della famosa Tangentopoli esplosa nel 1992 con l’arresto di Mario Chiesa a Milano, aderire al vero partito di maggioranza che è diventato quello delle astensioni? Beh, non ci penso neppure.

            A costo di apparire ingenuo, superato lo sgomento iniziale, sono invece tentato dalla volontà di giustificare in qualche modo sia Draghi sia Cartabia con le ragioni superiori della lotta alla pandemia e delle altre emergenze per fronteggiare le quali è stato formato l’attuale governo. Penso allo scrupolo, forse anche incoraggiato dietro le quinte dal presidente della Repubblica ormai in semestre cosiddetto bianco,, senza possibilità di sciogliere le Camere, di evitare una crisi da irresponsabilità dei grillini. La cui esplosione finale si è forse preferito a Palazzo Chigi ritardare al momento in cui si potrà davvero tornare alle urne e farla finita con questa legislatura appesa dal primo momento agli umori e ai problemi tutti interni ad un movimento nato e cresciuto allo scopo, neppure tanto nascosto, di destabilizzare un sistema che già di suo era in notevole sofferenza.

            Mi piace pensare -magari illudendomi, ripeto, e facendo la figura dell’ingenuo- che Draghi e Cartabia abbiano voluto mettere in sicurezza quel poco della loro riforma -altro che la “schiforma” denunciata da Travaglio e contrastata da Conte nel suo rodaggio di presidente del MoVimento 5 Stelle designato, prima bocciato e poi recuperato da Grillo- e scommettere pure loro sui sei referendum sulla giustizia promossi da leghisti e radicali. Cui a questo punto, dopo l’adesione dei cinque consigli regionali previsti dalla Costituzione, non sarebbero più necessarie neppure le 500 mila firme anch’esse richieste dalla Costituzione. Più della metà delle quali comunque sono state già raccolte, a dimostrazione di quanto le prove referendarie siano condivise dall’opinione pubblica: tanto condivise quanto osteggiate dall’ala più militarizzata, diciamo così, della magistratura e dai partiti, correnti, giornali eccetera che la fiancheggiano.

Il cappio leghista a Montecitorio nel 1993

            Sono passati ormai troppi anni dal 1987 e successi troppo guai da allora, a scapito della Giustizia con la maiuscola, per pensare che possa ripetersi -magari con Draghi ancora a Palazzo Chigi e la Cartabia guardasigilli- ciò che accadde 34 anni fa, quando la responsabilità civile dei magistrati, per esempio, fu reclamata dalla stragrande maggioranza degli elettori referendari e sostanzialmente negata, dopo pochi mesi, in una legge che avrebbe dovuto semplicemente disciplinarla.

            Per non sbagliare o essere più semplicemente coerente con ciò che ho scritto, appena trasmesso questo articolo al Dubbio andrò a firmare, alla prima postazione più vicina a dove mi trovo, i moduli di tutti i referendum in cantiere. Dei quali non deploro ma apprezzo che si siano convinti gli stessi o gli eredi di quei leghisti che il 16 marzo 1993 si unirono ai forcaioli applaudendo o incoraggiando con risate il loro collega deputato Luca Leoni Orsenigo che ostentava un cappio nell’aula di Montecitorio.

Pubblicato sul Dubbio

L’amaro ripiegamento di Draghi e Cartabia per ritardare la dissoluzione grillina

Titolo del Riformista
Titolo del Foglio

            Magari fosse vero il titolo non strillato del Foglio in cui si riconosce a Draghi e al suo governo, compresi i quattro ministri grillini che alla fine sono tornati a votare a favore, di avere “archiviato Bonafede”, cioè la sua prescrizione praticamente abolita con l’esaurimento del giudizio di primo grado, e di avere “sventato il blitz di Conte”. Che è attaccato come un’ostrica a ciò che aveva permesso di fare al suo ministro della Giustizia nel 2019. Magari, ripeto, pur senza gridare con la gioia del Riformista per i “Cinque stelle allo sbando” che “alla fine cedono”. Ma non per questo smettono di sbandare.

La vignetta di Giannelli sul Corriere della Sera

            Se dovessi scegliere un titolo in cui riconoscermi di più dopo la nuova versione della prescrizione, o “improcedibilità”, uscita dalle trattative su quelli che dovevano essere “piccoli aggiustamenti tecnici”, tradotti  in tante, troppe licenze concesse ai processi senza fine per le assoluzioni in primo grado contestate dall’accusa,  mi fermerei a quello del manifesto. Nel cui orgoglio di sentirsi “quotidiano comunista” non mi riconosco per niente, naturalmente, ma di cui apprezzo la sagacia con la quale riesce spesso, molto spesso, a rappresentare in poche parole certe situazioni. Ebbene, quel “mistero della giustizia” stampato in prima pagina sulla foto del Consiglio dei Ministri lo trovo appropriato dopo i rospi che la titolare del Ministero di via Arenula, pur con la sua autorevolezza di presidente emerita della Corte Costituzionale, ha dovuto ingoiare. E ciò sino a lasciarsi guidare bendata, come l’ha immaginata Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera, nel “passo avanti” voluto, accettato e quant’altro dal presidente del Consiglio Mario Draghi.

            Quest’ultimo, sicuramente più attrezzato, con la sua storia professionale alle spalle, in materia finanziaria che giuridica, senza volere con questo avallare  l’accusa di  Marco Travaglio di essere solo un “figlio di papà”, peraltro orfano dall’età di 15 anni, ha ritenuto politicamente più utile tutelare la parte residua del testo originario delle modifiche del governo alla riforma del processo penale piuttosto che rischiare l’esplosione non più soltanto del movimento grillino quanto dell’intera maggioranza di emergenza: E ciò a pochi giorni dall’inizio del cosiddette semestre bianco, in cui Mattarella in scadenza di mandato perde la possibilità di fronteggiare una crisi di governo rimandando gli elettori alle urne. Non escludo neppure che Draghi abbia fatto la sua scomoda scelta confortato dal parere del capo dello Stato.

Diagnosi di Travaglio
Editoriale del Fatto Quotidiano

            Se tutto questo fosse vero, anche con l’effetto di sentir gridare Alessandro Di Battista dalla Bolivia, o dove diavolo si trova, che la riforma targata Draghi e Cartabia era un quintale di cacca -lui, in verità, ha usato una parola più consona alla propria cultura- e rimane tale per un’ottantina di chili; o con l’effetto altrettanto sgradevole di vedere chiamare da Travaglio “Scartabia”, come “schiforma” il suo originario progetto, la ministra della Giustizia ordinandone il ritorno a casa, altro che l’elezione al Quirinale; se tutto questo -ripeto, fosse vero, potremmo consolarci solo all’idea che fortunatamente sono e restano sul tappeto i sei referendum sulla giustizia promossi da leghisti e radicali. Per i quali sono state già raccolte più di 250 mila delle 500 mila neppure più necessarie dopo l’adesione già arrivate da cinque consigli regionali. Con essi potremmo davvero chiudere l’anno prossimo la partita ingaggiata da una minoranza agguerrita di toghe contro la democrazia e la Costituzione. Che quando reclama la “ragionevole durata” perla del processo, in assoluto e al singolare, non solo di quelli che di volta in volta la politica in senso lato considera degni di una simile tutela.  

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

L’ultimo miglio della prescrizione breve, o finta, del grillino Alfonso Bonafede

Titolo del Riformista

            L’ultimo miglio del percorso carcerario dei condannati a morte negli Stati Uniti almeno una volta era verde, dal colore del pavimento che ispirò nel 1999 un celebre film. L’ultimo miglio del percorso della prescrizione breve introdotta nel 2019 dal primo governo di Giuseppe Conte, e in vigore dal primo gennaio dell’anno scorso, in forza della quale i processi in appello e in Cassazione potrebbero durare all’infinito, meriterebbe il colore dell’umore del presidente del Consiglio Mario Draghi: tanto nero che da Palazzo Chigi sono partite telefonate d’insofferenza a tutti i leader, esperti di partiti e quant’altri, invitati a farla finita col cosiddetto gioco al rialzo. In forza del quale ad ogni concessione che ottiene un partito c’è n’è un’altra, ritorsiva o compensativa, reclamata dal vicino o dal dirimpettaio al tavolo, reale o metaforico, della maggioranza.

  Più giorni sono passati da quando il Consiglio dei Ministri varò all’unanimità le modifiche alla riforma del processo penale per stabilire a tre anni la durata massima dei passaggi in appello e a diciotto mesi quella dei passaggi in Cassazione, pena la cosiddetta “improcedibilità” escogitata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, più si è allungata la lista dei reati d’eccezione, chiamiamoli cosi: quelli che per la loro gravità andrebbero esonerati dalla improcedibilità, appunto, e lasciati appesi a vita al collo dell’imputato di turno.

Giulia Bongiorno

L’ultimo invocato in coda a questa lista è il reato di stupro, reclamato dalla senatrice leghista Giulia Bongiorno. Che solo per caso, per carità, difende la giovane che ha denunciato per violenza sessuale Ciro Grillo, il figlio del fondatore, elevato e quant’altro del MoVimento 5 Stelle. Che nelle trattative sulla riforma -o “schiforma”, come la chiamano al Fatto Quotidiano– della prescrizione brevissima targata Adolfo Bonafede, l’ex ministro grillino della Giustizia, è rappresentata da Giuseppe Conte nella veste singolarissima di potenziale presidente della “comunità”, come lui chiama la formazione che lo  mandò tre anni fa a Palazzo Chigi da non iscritto, quale peraltro è tuttora.

Anche a Conte deve essere arrivata dai suoi ex uffici di presidente del Consiglio, forse dallo stesso Draghi in persona, una telefonata di sollecito a chiudere un negoziato che doveva durare pochi giorni, se non poche ore dopo quella seduta del Consiglio dei Ministri, e riguardare “aggiustamenti tecnici”, non di più, al cosiddetto impianto della riforma del processo penale all’esame della Camera.

Editoriale di Marco Travaglio
Titolo del Fatto Quotidiano

A Conte tuttavia sono arrivate contemporaneamente pressioni di segno opposto, fra le quali si distinguono almeno per vivacità di espressioni quelle del Fatto Quotidiano. Che Stefano Folli su Repubblica indica abitualmente come “il giornale ufficioso” proprio dell’ex presidente del Consiglio. Giornale o un po’ anche Bibbia, visto che non si limita a rappresentarne pensiero, umori e quant’altro ma spesso li anticipa o li attribuisce all’interessato? Oggi, per esempio, “giorno della verità”, secondo il manifesto, per la riforma del processo penale e dintorni, Il Fatto Quotidiano in un titolo di prima pagina ha liquidato come “briciole” le concessioni strappate nella trattativa da Conte, fra le quali c’è pur l’esclusione della cosiddetta improcedibilità dei reati di terrorismo e di mafia, compreso quello evanescente di “concorso esterno”. “Delenda Cartabia”, è -testuale, in tanto di titolo dell’editoriale- l’ordine, la direttiva, l’attesa del direttore in persona del Fatto, Marco Travaglio.  

Anche i pranzi in foresteria con Mattarella nel “dossier” contro Cartabia al Colle

Dal Fatto Quotidiano del 26 luglio

In questa edizione ormai avviata della corsa al Quirinale, in prossimità del semestre ultimo e bianco del presidente della Repubblica in carica, è nato forse un nuovo genere di accertamento –l’animascopìa, chiamiamola  così- a carico dei candidati, non importa se veri o presunti, volontari o iscritti d’ufficio, uomini e donne questa volta più che in altre occasioni, perché più si è allungata la lista esclusivamente maschile degli inquilini dell’ex Palazzo dei Papi e dei Re, più è cresciuta l’attesa di un cambiamento finalmente di genere sul Colle più alto di Roma.

Tra le donne in corsa, ripeto, immaginaria o effettiva spicca sempre di più la figura della ex presidente, o presidente emerita, della Corte Costituzionale e ora guardasigilli Marta Cartabia. Che è favorita nella scalata quanto meno alle prime pagine dei giornali dal protagonismo guadagnatosi nello scontro sulla giustizia scoppiato dentro e fuori la maggioranza. 

Titolo di Domani
Titolo di Domani del 26 luglio

Il Fatto Quotidiano- col direttore Marco Travaglio che ci ha appena attribuito la colpa di avergli attribuito solo “panico” e non anche voglia di “vomito”-  non è più solo nella campagna contro la Cartabia. Lo rincorre adesso Domani, il giornale dell’ex editore di Repubblica Carlo De Benedetti, che lunedì ha esplorato culturalmente, socialmente, religiosamente e politicamente con un lungo, minuzioso articolo-referto di Giorgio Meletti , “l’enigma Cartabia”, secondo un titolo da copertina, o “la ministra che sogna il Quirinale”, nonostante le manchino qualità, condizioni e quant’altro necessario per arrivare davvero al traguardo.

Titolo di Domani

“L’ambiziosa ciellina” -dice un titolo che riassume presumibilmente concetti dell’autore dell’articolo e di chi lo ha, diciamo così, arredato nella confezione grafica- tenta di “imporsi definitivamente sulla politica italiana dopo una defilata carriera accademica” mista a “rapporti preziosi tessuti negli anni”. Ma, poveretta, “non si rende conto che la militanza nei partiti si inizia a fare da giovani e che il sistema italiano non sia pronto a spalancare le porte a creature aliene che girano senza targa riconoscibile”.

A parte la bizzarria di quel congiuntivo, temo per l’esploratore che egli si sia fermato un po’ ad una politica molto datata, quando in effetti le targhe contavano molto più di adesso per raggiungere certe posizioni. Non mi pare, per esempio, che ne avesse una ben “riconoscibile” Carlo Azeglio Ciampi quando arrivò, per giunta neppure giovane ma già anziano, al Quirinale succedendo a Oscar Luigi Scalfaro e precedendo Giorgio Napolitano, le cui targhe invece erano addirittura fosforescenti. Non parliamo poi di Palazzo Chigi, dove Mario Draghi è arrivato proprio e grazie alla mancanza di una targa partitica. E, solo se volesse, potrebbe facilmente succedere a Mattarella facendo drizzare i capelli a Romano Prodi, appena spesosi nell’auspicio che egli rimanga alla guida del governo almeno sino alle elezioni ordinarie del 2023.

La consistente parte religiosa dell’esplorazione o animascopia della Cartabia evoca Comunione e Liberazione, di cui il marito della guardasigilli è stato anche tesoriere, e la frequentazione dei cui raduni le avrebbe procurato nel 2011 il “jolly pazzesco” di un incontro con l’allora presidente della Repubblica Napolitano, e la successiva, quasi immediata nomina alla Corte Costituzionale. Vi sarebbe tuttavia in lei anche un po’ della “parte ipocrita del gesuitismo” non affrancato evidentemente dall’arrivo del gesuita Jeorge Mario Bergoglio al vertice della Chiesa.

Giorgio Meletti su Domani

Da giudice costituzionale un altro “jolly pazzesco” della Cartabia, per restare all’immagine del suo incontro a Rimini con Napolitano, sarebbe stato l’incontro alla Corte Costituzionale col collega Sergio Mattarella. Dal quale sarebbe stata “invitata spesso a pranzo nella foresteria della Consulta” guadagnandosene a tal punto, evidentemente, la stima e la simpatia da trovarsi già nell’estate del 2019 nelle cronache giornalistiche tra i possibili successori di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, dopo la rottura dell’intesa di governo fra i grillini e i leghisti. Ma quel diavolo di Conte riuscì a farsi confermare da Mattarella alla testa di una combinazione politica pur di segno opposto. E alla Cartabia, salita alla fine di quell’anno alla presidenza della Corte Costituzionale, non restò che attendere un’altra occasione per passare all’avventura politica. Essa è arrivata nello scorso mese di febbraio con la nomina a ministra della Giustizia nel governo di Mario Draghi, di tendenza gesuitica pure lui avendo studiato in una loro scuola a Roma.

Ciò che non torna nella ricostruzione della storia e persino dell’anima della Cartabia sul giornale di Carlo De Benedetti è l’accusa rivoltele di non voler “fare mai una scelta”, neppure nello “scontro sulla giustizia” in corso. Il che è francamente un ossimoro perché in questo scontro  da una parte si è trovata la guardasigilli, sostenuta da Draghi,  e dall’altra un’associazione di fatto tra Giuseppe Conte, i grillini che più si riconoscono in lui e i magistrati che accusano  la Cartabia di avere escogitato non il “colpo di genio” della “improcedibilità”, attribuitole da Carlo Nordio  per vanificare l’abolizione della prescrizione, ma una “schiforma”, come la chiamano al Fatto Quotidiano. Essa renderebbe impunibili corrotti e mafiosi con processi in appello e in Cassazione dai tempi troppo stretti -rispettivamente di 3 anni e di 18 mesi- per essere rispettati. Alla faccia della “non scelta”, verrebbe da dire dissentendo naturalmente dagli attacchi alla ministra. Che paradossalmente finirebbe tuttavia per avallarli se veramente accettasse, col capo mezzo cosparso di cenere immaginato da Travaglio,  di escludere dalla sua “improcedibilità” e  lasciare a vita gli imputati, per esempio, di reati controversi ed evanescenti come il concorso esterno in associazione mafiosa.

Pubblicato sul Dubbio

Più che sul processo penale, si tratta ormai sulla sorte pentastellare di Conte

            Sono quanto meno incerte le notizie sulle trattative nella maggioranza per la riforma del processo penale: processo a rischio di ghigliottina -secondo la rappresentazione della vignetta di Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera- se in appello non si arriva a sentenza dai due ai tre anni, secondo i reati, e in Cassazione dai 12 ai 18 mesi. Così prevedono le modifiche messe a punto dal Consiglio dei Ministri una ventina di giorni fa e contestate dai grillini, per quanto i loro ministri le avessero approvate concorrendo ad un voto unanime.

Marta Cartabia

            Secondo le informazioni di alcuni giornali, fra i quali Il Dubbio, si sarebbe arrivati ad un accordo dietro le quinte della Commissione Giustizia della Camera, dove il provvedimento è rimasto per un’altra settimana dopo il rinvio dell’approdo nell’aula di Montecitorio originariamente fissato per il 23 luglio. L’intesa consisterebbe nel mettere al riparo dalla ghigliottina, che sarebbe la “improcedibilità” coniata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, tutti i reati in qualche modo configurabili come terrorismo e mafia, compresi quelli di cosiddetto e controverso concorso esterno in associazione mafiosa o quelli comuni per i quali l’accusa chiede però l’aggravante mafiosa. Ciò avvenne a Roma, si ricorderà, per la cosiddetta “Mafia capitale”. Che fu negata poi dai giudici nelle sentenze, limitate alla criminalità comune.

Titolo del Mattino
Titolo di Repubblica

            Secondo altri giornali -anche per effetto delle modifiche di carattere in qualche modo ritorsivo annunciate dalle componenti di centrodestra della maggioranza su più versanti, come quello dell’abuso d’ufficio contestato ai sindaci con tale frequenza, e arbitrarietà, da paralizzare le amministrazioni locali- si sarebbe ancora nel “pantano”, come ha titolato la Repubblica, o appesi “a un filo”, secondo Il Mattino. Altri giornali per non sbagliare hanno escluso l’argomento delle prime pagine. Di scrupoli non se n’è posti invece il Consiglio Superiore della Magistratura, dove la sesta commissione ha in tutta fretta aggiornato il suo parere estendendolo dalla improcedibilità a tutto il provvedimento per farne discutere nel plenum già domani. Sarà un esame non si sa se più in concorrenza o in coincidenza con la Commissione Giustizia della Camera, senza quindi potere materialmente conoscere il testo destinato all’aula di Montecitorio.

Giuseppe Conte

            A parte i pur rilevanti aspetti “tecnici”, come vengono spesso con troppa disinvoltura definiti da chi cerca di ridurne l’impatto politico, di tutta la vicenda delle trattative apertesi nella maggioranza sulle modifiche originariamente predisposte all’unanimità dal Consiglio dei Ministri, con tanto di prenotazione della cosiddetta questione di fiducia per blindarne l’esame in aula alla Camera, si è fatto sempre più forte il sospetto che sia diventata centrale una questione estranea al merito della riforma del processo penale. E’ la sorte della leadership allo stato ancora virtuale di Giuseppe Conte nel MoVimento 5 Stelle: una leadership condizionata dalla capacità del professore e avvocato di strappare agli interlocutori Mario Draghi e Marta Cartabia modifiche digeribili della maggioranza dei turbolenti parlamentari grillini.  

Più che il futuro del processo penale, sembra insomma in gioco il futuro di Conte nel MoVimento che dovrebbe eleggerlo digitalmente presidente, accano o sotto -si vedrà solo nei fatti- al fondatore, garante e quant’altro Beppe Grillo. Così è se vi pare, direbbe agli scettici la buonanima di Luigi Pirandello.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Oddio, Travaglio insulta Draghi non avendo forse tutti i torti…

Titolo di Libero

            Non sono naturalmente un tifoso di Marco Travaglio, pur seguendone per mestiere le prestazioni sul Fatto Quotidiano che dirige pensando di pilotare al tempo stesso il MoVimento 5 Stelle. Il cui garante, fondatore, elevato eccetera eccetera si ostina invece ad allevare altri alla guida politica: prima Luigi Di Maio, sottrattosi al compito strappandosi la cravatta dal collo, e poi Giuseppe Conte, prima bocciato e poi riabilitato davanti ad una spigola a Marina di Bibbona. Eppure mi sorprende l’indignazione che Travaglio è riuscito a provocare con l’ultima che ha detto e fatto, abusando dell’ospitalità offertagli alla festa bolognese  del partitino di Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza ed altri usciti dal Pd all’epoca della segreteria di Matteo Renzi. Qui, ridendo a squarciagola di se stesso, come compiaciuto di quel che diceva, ha dato a Mario Draghi, orfano dall’età di 15 anni, del “figlio di papà” che “non capisce un cazzo” , testualmente, di tutto ciò che non è finanza, ma di cui deve occuparsi come presidente del Consiglio.  “Figlio di…” puttana, gli ha praticamente replicato Alessandro Sallusti dalla tribuna di Libero che dirige dopo avere lasciato il Giornale della famiglia Berlusconi.

Titolo della Verità

            Più pacatamente, una volta tanto, Maurizio Belpietro ha contestato dalla guida della Verità a Travaglio di avere “insultato Draghi” e “inguaiato Speranza”, che gli è ministro della Salute ed è già inguaiato parecchio di suo con la pandemia che ci ha dichiarato una guerra peggiore di quelle con tanto di bombe, carri armati, missili e quant’altro di cui sono piene le pagine dei libri di storia e le cronache militari e terroristiche dei nostri tempi.

Giuliano Ferrara sul Foglio
Titolo del Foglio

            Ancora più pacatamente ma perfidamente sul piano anche dello stile giornalistico Giuliano Ferrara sul Foglio, firmandosi una volta tanto con nome e cognome e lasciando riposare l’elefantino rosso, ha paragonato quello lanciato da Travaglio a Draghi a “un rutto” e declassato la scuola che tanto spesso lo stesso Travaglio si vanta di avere frequentato professionalmente alla “feccia del montanellismo, quello dell’attacco alle mestruazioni di Rossana Rossanda, mentre il brio e la verve del Montanelli migliore non sempre sono alla sua portata”. E posso ben testimoniarlo, avendo avuto anch’io la possibilità di frequentare quella scuola, uscendone volontariamente nel 1983 per un civilissimo e banalissimo dissenso politico, non perché licenziato, come poi mi capitò di leggere su un libro proprio di Travaglio.

Travaglio sul Fatto Quotidiano
Titolo del Corriere della Sera

            La sorpresa, se non l’indignazione, che avverto di fronte all’ultima, ma forse già penultima del direttore del Fatto Quotidiano sta negli argomenti che la sua vittima, chiamiamola così, gli sta offrendo se sono vere le anticipazioni di stampa che attribuiscono a Draghi, ma anche alla ministra della Giustizia Marta Cartabia -da Repubblica al Corriere della Sera- la decisione di concedere a Conte e alla parte dei grillini da lui rappresentata l’esclusione di tutti i reati di mafia, compreso quello anomalo ed evanescente del concorso esterno in associazione, dalla “improcedibilità” dopo tre anni di processo in appello e diciotto mesi di processo in Cassazione. E’ una cosa, questa, che ha permesso a Travaglio di scrivere oggi -e giustamente, almeno dal suo punto di vista- che “solo ora lui e la Cartabia scoprono cosa c’è scritto nella loro riforma”: riforma del processo penale anch’essa tra virgolette, che il direttore del Foglio dal primo momento ha chiamato “schiforma”, secondo me a torto. Ma non potevo pensare di poter essere smentito proprio da Draghi, e dalla Cartabia.

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Quel diritto di veto che i magistrati non hanno nei rapporti col Parlamento

Il magistrato in pensione Carlo Nordio
La ministra Marta Cartabia

            Siamo all’inizio di una settimana decisiva per la riforma del processo penale, dovendosi svolgere dietro le quinte della Commissione Giustizia della Camera le trattative sulle modifiche reclamate da Giuseppe Conte, per conto non si sa di quanta parte del MoVimento 5 Stelle, alla “improcedibilità” proposta dal governo al posto della prescrizione abolita dall’ex ministro pentastellato della Giustizia Alfonso Bonafede con l’esaurimento del primo grado di giudizio. “Un colpo di genio”, è stato definito da Carlo Nordio quello della guardasigilli Marta Cartabia per “rendere innocuo”, con scadenze precise dei successivi gradi di giudizio, il blocco disposto dal predecessore.

La sede del Consiglio Superiore della Magistratura

            Ebbene, all’inizio -ripeto- di una simile settimana vorrei riproporvi una specie di diritto di veto dei magistrati sulle competenze legislative del Parlamento, cioè della politica, reclamato tra le righe di un’ intervista a Repubblica di Giuseppe Cascini. Che prima di approdare al Consiglio Superiore della Magistratura, anzi arrivandovi proprio per questo, è stato segretario dell’associazione nazionale delle toghe. Di cui non a torto lo stesso  Consiglio Superiore, per quanto presieduto per dettato costituzionale dal Capo dello Stato, spesso appare un’appendice per la capacità purtroppo dimostrata di subire i condizionamenti derivanti dal gioco delle correnti dei magistrati. Che non sono meno perniciose di quelle dei partiti o movimenti, dove è solo un atto di generosità ritenere che davvero si lavori e si combatta, all’occorrenza, per “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Così almeno dice l’articolo 49 della Costituzione con una formula rimasta appesa alle buone intenzioni, non essendosi mai voluto procedere ad una legge attuativa per disciplinare davvero partiti e movimenti con regole di garanzia effettiva, e non solo verbale, della democrazia interna. Almeno una volta c’erano i congressi, ora non più, o quasi.

Sergio Mattarella

            Un po’ spiazzato anche lui dalla decisione di Sergio Mattarella di non fare approdare nel plenum del Consiglio Superiore della Magistratura di mercoledì la sostanziale bocciatura della riforma del processo penale espressa dalla sesta commissione perché limitata solo agli articoli riguardanti la improcedibilità, o ex prescrizione, e non sull’intero provvedimento, Cascini ha detto testualmente: “Se, come si legge, il governo dovesse porre la questione di fiducia sul testo prima di consentire al Consiglio Superiore della Magistratura di esprimere il suo parere, l’effetto paradossale sarebbe quello di sottrarre alla conoscenza della Camera e dell’opinione pubblica il contenuto del parere sulla improcedibilità che la commissione ha già elaborato”.

L’ex guardasigilli Bonafede

            A parte l’enfatico e un po’ populista richiamo ad una opinione pubblica tenuta presuntivamente all’oscuro,  fa un po’ ridere pensare che la Camera, peraltro dopo tutte le audizioni svoltesi nella Commissione Giustizia, abbia bisogno di un documento formalmente approvato dal plenum del Consiglio Superiore della Magistratura per conoscerne davvero l’orientamento. La verità è che a quel parere sotto sotto, ma neppure tanto, si vorrebbe dare il valore o il significato -ripeto- di un diritto di veto che il Consiglio non ha. Come d’altronde non lo ebbe neppure quello espresso nel 2019 contro l’abolizione della prescrizione con  l’esaurimento del giudizio di primo grado. Che era stata introdotta come una supposta nella legge cosiddetta spazzacorrotti, promulgata dal presidente della Repubblica pur in presenza, augurabilmente, di qualche riserva per il prevedibile effetto del cosiddetto “imputato a vita”.

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In migliaia in piazza contro Draghi, in centinaia di migliaia a prenotare il vaccino

In Piazza Duomo, a Milano
Titolo di Libero

            In questa Italia “divisa” dal green pass, secondo l’enfatica rappresentazione di Libero stampata in rosso, credo che più delle “migliaia in piazza” sottolineate dal Corriere della Sera contro il governo e le sue decisioni sul lasciapassare sanitario, necessario per accedere a luoghi e servizi a rischio di contagi, contino le centinaia di migliaia di persone, generalmente ignorate o sottovalutate nei titoli di prima pagina dei giornali, che hanno prenotato la vaccinazione dopo l’appello del presidente del Consiglio Mario Draghi. Il quale ha equiparato chi “invita a non vaccinarsi” a chi “invita a morire”. E pazienza se il cretino di turno, cui nonostante tutto auguro di poterla fare franca davvero nella pandemia senza il vaccino, è sceso in piazza a Milano con un cartello che fa assomigliare Draghi a Hitler. E altri a Genova, sempre in piazza, hanno innalzato uno striscione per chiedere allo stesso Draghi e al presidente francese Emmanuel Macron, pure lui convinto della necessità delle vaccinazioni, da chi “si fanno pagare”.

            La madre degli stupidi, a dir poco, si sa, è sempre incinta. E penso che, sempre a Genova, il vignettista del Secolo XIX Stefano Rolli abbia esagerato questa volta a preoccuparsi del diritto di voto dei cosiddetti no-vax  e simili, compresi quelli che spasimano, pur vaccinati, dalla voglia di vedere, anzi di festeggiare la caduta del governo Draghi: il “restauratore”, oltre che emulo di Hitler, “imposto” all’Italia dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella dopo il “Conticidio”, come al Fatto Quotidiano definiscono ancora la conclusione dell’esperienza di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi.

            Vale forse anche per le migliaia di dimostranti già corsi per strada o che si accingono a farlo nei prossimi giorni rispondendo, fra l’altro, a quel che rimane della diffidenza di un Salvini pur fresco di vaccinazione -guarda caso- dopo l’appello di Draghi, il memorabile commento di Pietro Nenni, nel 1948, alla sconfitta del cosiddetto fronte popolare delle sinistre nell’assalto elettorale all’allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi.

“Piazze piene, urne vuote”, disse 73 anni fa il leader socialista. Di cui non dimenticherò mai la descrizione che mi fece Sandro Pertini riferendomi di un incontro avuto con lui dopo quella sconfitta. Con le bretelle abbassate, la camicia sbottonata per difendersi da un caldo che non c’era, le lenti appannate dall’affanno Nenni chiedeva al suo compagno di partito che cosa ne sarebbe stato dei socialisti, che sino a qualche giorno fa egli considerava “troppo pochi per ricoprire i posti” che sarebbero spettati loro se il fronte popolare avesse vinto le elezioni.

            Poi, per fortuna sua e del partito socialista, pur destinato a una più lontana e dolorosa fine, Nenni si riprese e trovò addirittura la forza di recuperare l’autonomia alla quale aveva rinunciato alleandosi con un Pci che, più forte sul piano organizzativo, aveva profittato delle elezioni del 1948 anche per rovesciare all’interno della sinistra i rapporti di forza, diventando e restando a lungo una specie di pesce pilota.

Titolo del Corriere della Sera
Titolo di Repubblica

            Sulla piazza che in questi giorni “sfida Draghi”, secondo il titolo di prima pagina di Repubblica, ricordando proprio il 1948 ripeterei con l’insospettabile Karl Marx che “la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa”.

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I grillini sempre più in un vicolo cieco nelle resistenze sulla giustizia a Draghi e Cartabia

            Il troppo notoriamente stroppia. Già infastidito dal tentativo di coinvolgerlo nella campagna contro la linea del governo sulla giustizia attribuendogli riserve sugli emendamenti predisposti dalla guardasigilli alla riforma del processo penale, il capo dello Stato ha impedito la solita, ennesima invasione di campo del Consiglio Superiore della Magistratura, di cui è presidente.

            Come Francesco Cossiga negli ormai lontani anni Ottanta impedì all’organo di autogoverno della magistratura di processare a suo modo il presidente del Consiglio Bettino Craxi, difendendone il rapporto diretto ed esclusivo col Parlamento che gli aveva accordato la fiducia, così questa volta Mattarella ha impedito un processo surrettizio alla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Sui cui emendamenti alla riforma del processo penale, protetti da una prenotazione del ricorso alla cosiddetta questione di fiducia, la sesta commissione del Consiglio Superiore aveva votato una bocciatura da ratificare nel plenum. Ciò avrebbe quanto meno rafforzato nella trattativa in corso nella Commissione Giustizia della Camera quella parte dei grillini più contraria alla posizione assunta peraltro all’unanimità dal Consiglio dei Ministri.

            Per nulla distratto dalla festa dei suoi 80 anni, Mattarella ha disposto che l’argomento arrivi al plenum del Consiglio Superiore solo quando il testo della riforma del processo penale sarà ben definito per il passaggio nell’aula di Montecitorio. Contemporaneamente la ministra Cartabia, non lasciandosi scappare l’occasione offertale dal congresso forense di cui era ospite, ha respinto con fermezza gli argomenti dei suoi critici ricordando che la durata eccessiva dei processi in Italia si trascina da troppo tempo e ci ha riservato il non onorevole primato delle condanne del competente organismo europeo: 1202 contro le 608 della Turchia.

Titolo del Fatto Quotidiano
Fotomontaggio del Fatto Quotidiano

            Naturalmente la coincidenza degli interventi a gamba tesa del presidente della Repubblica e della guardasigilli ha prodotto il solito fotomontaggio polemico del giornale più impegnato, con l’ala dura del MoVimento 5 Stelle, nella campagna a favore della prescrizione ormai finta dell’ex ministro Alfonso Bonafede, che si blocca al primo grado di giudizio, e il vistoso titolo “Cartabia e Quirinale imbavagliano il Csm”. In un editoriale intitolato “Pronti a tutto” il direttore Marco Travaglio ha reclamato il solito referendum digitale fra i grillini, che già ne debbono affrontare altri sulla riforma dello statuto e sulla leadership di Giuseppe Conte, per evitare la presunta resa all’altrettanto presunta “restaurazione” perseguita dal governo Draghi. Da cui quindi i pentastellati dovrebbero quanto meno uscire, come ha abbozzato per qualche ora anche la ministra Fabiana Dadone, prima di ridimensionare una sua minacciosa dichiarazione, sembra anche su intervento dello stesso Conte, e di ricordarsi di avere votato con i suoi colleghi di movimento in Consiglio dei Ministri a favore degli emendamenti proposti dal governo alla riforma del processo penale per assegnare non più di tre anni al passaggio in appello e diciotto mesi in Cassazione, pena la “improcedibilità”.

            Naturalmente la furia iconoclastica del Fatto Quotidiano è pari a quella di segno opposto di giornali come Il Riformista –“Mattarella frena il golpe del Csm”- o di vignettisti come Stefano Rolli, sul Secolo XIX, che con un siringone fa praticare da Draghi a Conte una vaccinazione indolore sotto l’insegna della giustizia, con un siringone a misura, diciamo così, di cavallo.

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