L’ultimo miglio della prescrizione breve, o finta, del grillino Alfonso Bonafede

Titolo del Riformista

            L’ultimo miglio del percorso carcerario dei condannati a morte negli Stati Uniti almeno una volta era verde, dal colore del pavimento che ispirò nel 1999 un celebre film. L’ultimo miglio del percorso della prescrizione breve introdotta nel 2019 dal primo governo di Giuseppe Conte, e in vigore dal primo gennaio dell’anno scorso, in forza della quale i processi in appello e in Cassazione potrebbero durare all’infinito, meriterebbe il colore dell’umore del presidente del Consiglio Mario Draghi: tanto nero che da Palazzo Chigi sono partite telefonate d’insofferenza a tutti i leader, esperti di partiti e quant’altri, invitati a farla finita col cosiddetto gioco al rialzo. In forza del quale ad ogni concessione che ottiene un partito c’è n’è un’altra, ritorsiva o compensativa, reclamata dal vicino o dal dirimpettaio al tavolo, reale o metaforico, della maggioranza.

  Più giorni sono passati da quando il Consiglio dei Ministri varò all’unanimità le modifiche alla riforma del processo penale per stabilire a tre anni la durata massima dei passaggi in appello e a diciotto mesi quella dei passaggi in Cassazione, pena la cosiddetta “improcedibilità” escogitata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, più si è allungata la lista dei reati d’eccezione, chiamiamoli cosi: quelli che per la loro gravità andrebbero esonerati dalla improcedibilità, appunto, e lasciati appesi a vita al collo dell’imputato di turno.

Giulia Bongiorno

L’ultimo invocato in coda a questa lista è il reato di stupro, reclamato dalla senatrice leghista Giulia Bongiorno. Che solo per caso, per carità, difende la giovane che ha denunciato per violenza sessuale Ciro Grillo, il figlio del fondatore, elevato e quant’altro del MoVimento 5 Stelle. Che nelle trattative sulla riforma -o “schiforma”, come la chiamano al Fatto Quotidiano– della prescrizione brevissima targata Adolfo Bonafede, l’ex ministro grillino della Giustizia, è rappresentata da Giuseppe Conte nella veste singolarissima di potenziale presidente della “comunità”, come lui chiama la formazione che lo  mandò tre anni fa a Palazzo Chigi da non iscritto, quale peraltro è tuttora.

Anche a Conte deve essere arrivata dai suoi ex uffici di presidente del Consiglio, forse dallo stesso Draghi in persona, una telefonata di sollecito a chiudere un negoziato che doveva durare pochi giorni, se non poche ore dopo quella seduta del Consiglio dei Ministri, e riguardare “aggiustamenti tecnici”, non di più, al cosiddetto impianto della riforma del processo penale all’esame della Camera.

Editoriale di Marco Travaglio
Titolo del Fatto Quotidiano

A Conte tuttavia sono arrivate contemporaneamente pressioni di segno opposto, fra le quali si distinguono almeno per vivacità di espressioni quelle del Fatto Quotidiano. Che Stefano Folli su Repubblica indica abitualmente come “il giornale ufficioso” proprio dell’ex presidente del Consiglio. Giornale o un po’ anche Bibbia, visto che non si limita a rappresentarne pensiero, umori e quant’altro ma spesso li anticipa o li attribuisce all’interessato? Oggi, per esempio, “giorno della verità”, secondo il manifesto, per la riforma del processo penale e dintorni, Il Fatto Quotidiano in un titolo di prima pagina ha liquidato come “briciole” le concessioni strappate nella trattativa da Conte, fra le quali c’è pur l’esclusione della cosiddetta improcedibilità dei reati di terrorismo e di mafia, compreso quello evanescente di “concorso esterno”. “Delenda Cartabia”, è -testuale, in tanto di titolo dell’editoriale- l’ordine, la direttiva, l’attesa del direttore in persona del Fatto, Marco Travaglio.  

Anche i pranzi in foresteria con Mattarella nel “dossier” contro Cartabia al Colle

Dal Fatto Quotidiano del 26 luglio

In questa edizione ormai avviata della corsa al Quirinale, in prossimità del semestre ultimo e bianco del presidente della Repubblica in carica, è nato forse un nuovo genere di accertamento –l’animascopìa, chiamiamola  così- a carico dei candidati, non importa se veri o presunti, volontari o iscritti d’ufficio, uomini e donne questa volta più che in altre occasioni, perché più si è allungata la lista esclusivamente maschile degli inquilini dell’ex Palazzo dei Papi e dei Re, più è cresciuta l’attesa di un cambiamento finalmente di genere sul Colle più alto di Roma.

Tra le donne in corsa, ripeto, immaginaria o effettiva spicca sempre di più la figura della ex presidente, o presidente emerita, della Corte Costituzionale e ora guardasigilli Marta Cartabia. Che è favorita nella scalata quanto meno alle prime pagine dei giornali dal protagonismo guadagnatosi nello scontro sulla giustizia scoppiato dentro e fuori la maggioranza. 

Titolo di Domani
Titolo di Domani del 26 luglio

Il Fatto Quotidiano- col direttore Marco Travaglio che ci ha appena attribuito la colpa di avergli attribuito solo “panico” e non anche voglia di “vomito”-  non è più solo nella campagna contro la Cartabia. Lo rincorre adesso Domani, il giornale dell’ex editore di Repubblica Carlo De Benedetti, che lunedì ha esplorato culturalmente, socialmente, religiosamente e politicamente con un lungo, minuzioso articolo-referto di Giorgio Meletti , “l’enigma Cartabia”, secondo un titolo da copertina, o “la ministra che sogna il Quirinale”, nonostante le manchino qualità, condizioni e quant’altro necessario per arrivare davvero al traguardo.

Titolo di Domani

“L’ambiziosa ciellina” -dice un titolo che riassume presumibilmente concetti dell’autore dell’articolo e di chi lo ha, diciamo così, arredato nella confezione grafica- tenta di “imporsi definitivamente sulla politica italiana dopo una defilata carriera accademica” mista a “rapporti preziosi tessuti negli anni”. Ma, poveretta, “non si rende conto che la militanza nei partiti si inizia a fare da giovani e che il sistema italiano non sia pronto a spalancare le porte a creature aliene che girano senza targa riconoscibile”.

A parte la bizzarria di quel congiuntivo, temo per l’esploratore che egli si sia fermato un po’ ad una politica molto datata, quando in effetti le targhe contavano molto più di adesso per raggiungere certe posizioni. Non mi pare, per esempio, che ne avesse una ben “riconoscibile” Carlo Azeglio Ciampi quando arrivò, per giunta neppure giovane ma già anziano, al Quirinale succedendo a Oscar Luigi Scalfaro e precedendo Giorgio Napolitano, le cui targhe invece erano addirittura fosforescenti. Non parliamo poi di Palazzo Chigi, dove Mario Draghi è arrivato proprio e grazie alla mancanza di una targa partitica. E, solo se volesse, potrebbe facilmente succedere a Mattarella facendo drizzare i capelli a Romano Prodi, appena spesosi nell’auspicio che egli rimanga alla guida del governo almeno sino alle elezioni ordinarie del 2023.

La consistente parte religiosa dell’esplorazione o animascopia della Cartabia evoca Comunione e Liberazione, di cui il marito della guardasigilli è stato anche tesoriere, e la frequentazione dei cui raduni le avrebbe procurato nel 2011 il “jolly pazzesco” di un incontro con l’allora presidente della Repubblica Napolitano, e la successiva, quasi immediata nomina alla Corte Costituzionale. Vi sarebbe tuttavia in lei anche un po’ della “parte ipocrita del gesuitismo” non affrancato evidentemente dall’arrivo del gesuita Jeorge Mario Bergoglio al vertice della Chiesa.

Giorgio Meletti su Domani

Da giudice costituzionale un altro “jolly pazzesco” della Cartabia, per restare all’immagine del suo incontro a Rimini con Napolitano, sarebbe stato l’incontro alla Corte Costituzionale col collega Sergio Mattarella. Dal quale sarebbe stata “invitata spesso a pranzo nella foresteria della Consulta” guadagnandosene a tal punto, evidentemente, la stima e la simpatia da trovarsi già nell’estate del 2019 nelle cronache giornalistiche tra i possibili successori di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, dopo la rottura dell’intesa di governo fra i grillini e i leghisti. Ma quel diavolo di Conte riuscì a farsi confermare da Mattarella alla testa di una combinazione politica pur di segno opposto. E alla Cartabia, salita alla fine di quell’anno alla presidenza della Corte Costituzionale, non restò che attendere un’altra occasione per passare all’avventura politica. Essa è arrivata nello scorso mese di febbraio con la nomina a ministra della Giustizia nel governo di Mario Draghi, di tendenza gesuitica pure lui avendo studiato in una loro scuola a Roma.

Ciò che non torna nella ricostruzione della storia e persino dell’anima della Cartabia sul giornale di Carlo De Benedetti è l’accusa rivoltele di non voler “fare mai una scelta”, neppure nello “scontro sulla giustizia” in corso. Il che è francamente un ossimoro perché in questo scontro  da una parte si è trovata la guardasigilli, sostenuta da Draghi,  e dall’altra un’associazione di fatto tra Giuseppe Conte, i grillini che più si riconoscono in lui e i magistrati che accusano  la Cartabia di avere escogitato non il “colpo di genio” della “improcedibilità”, attribuitole da Carlo Nordio  per vanificare l’abolizione della prescrizione, ma una “schiforma”, come la chiamano al Fatto Quotidiano. Essa renderebbe impunibili corrotti e mafiosi con processi in appello e in Cassazione dai tempi troppo stretti -rispettivamente di 3 anni e di 18 mesi- per essere rispettati. Alla faccia della “non scelta”, verrebbe da dire dissentendo naturalmente dagli attacchi alla ministra. Che paradossalmente finirebbe tuttavia per avallarli se veramente accettasse, col capo mezzo cosparso di cenere immaginato da Travaglio,  di escludere dalla sua “improcedibilità” e  lasciare a vita gli imputati, per esempio, di reati controversi ed evanescenti come il concorso esterno in associazione mafiosa.

Pubblicato sul Dubbio

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