In finale anche Draghi con la riforma della prescrizione contestata dai grillini

Titolo della Stampa
Titolo del Giornale

            Anche Mario Draghi è entrato in finale, a sentire e a leggere i suoi avversari, furenti per la sua ormai scontata vittoria nella partita della riforma del processo penale. Di cui i pentastellati avrebbero voluto l’ennesimo rinvio, negato dal presidente del Consiglio “stanco del pantano grillino”, ha titolato con compiacimento Il Giornale della famiglia Berlusconi. E ciò  senza esagerare più di tanto, visto che anche la compassata Stampa in un titolo pur graficamente più contenuto ha parlato di “rabbia del M5S” per la riforma messa a punto dalla guardasigilli Marta Cartabia e della decisione di Draghi di “tirare dritto” portandola oggi al Consiglio dei Ministri. Si tratta, in particolare, della riforma di un’altra riforma voluta dall’allora ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede, che dall’anno scorso blocca la prescrizione, cioè la elimina, con la sentenza di primo grado, anche di assoluzione. Che i pubblici ministeri possono pertanto impugnare contando su un processo infinito, essendo purtroppo generica la “durata ragionevole” imposta sulla carta dalla Costituzione.

            Subìta dai leghisti, come altre cose nella loro prima esperienza di governo con i grillini, che la imposero introducendola come una supposta in una legge enfaticamente chiamata “spazzacorrotti”, la riforma Bonafede avrebbe dovuto essere modificata già col secondo governo di Giuseppe Conte, dove però il Pd permise più di un rinvio chiesto dai grillini. Ai quali prima la ministra Cartabia e poi Draghi in persona adesso hanno invece detto praticamente basta, forti anche del fatto che la velocizzazione dei processi rientra fra le innovazioni alle quali sono condizionati i finanziamenti europei del piano della ripresa.

Fotomontaggio del Fatto Quotidiano
Titolo del Fatto Quotidiano

            Ai grillini sorpresi, spiazzati e quant’altro dalla fermezza di Draghi e Cartabia è rimasta la soddisfazione di leggere quel che ha scritto oggi il solito Fatto Quotidiano  delle modifiche predisposte dalla guardasigilli alla legge delega di riforma del processo penale. Non sarebbe naturalmente una riforma ma una “schiforma”, da schifezza certificata probabilmente anche dalla coppia Ferragni dilagata su internet in questi giorni anche per la vicenda della legge in pericolo al Senato contro l’omotransfobia.

I tre intestatari della “schifezza” -ripeto-  sulla giustizia sarebbero la stessa Cartabia, Draghi e Silvio Berlusconi, uniti in un fotomontaggio da varietà. Ed eccone il riassunto in un sommario: “Il premier approfitta del marasma nel M5S e oggi porta in Consiglio dei Ministri una controriforma anti-Bonafede: reati estinti se l’appello dura più di due anni e la Cassazione più di uno”.

Dall’editoriale di Marco Travaglio

            Nell’editoriale di Marco Travaglio tuttavia si precisa che Draghi, oltre che del “marasma” pentastellare avrebbe profittato anche della “distrazione” festosa del pubblico alle prese con il campionato europeo di calcio, così come nel lontano 1994 Berlusconi -e chi sennò?- avrebbe profittato della distrazione dei campionati mondiali di calcio per fare varare dal suo primo governo un decreto legge che limitava il ricorso alla carcerazione preventiva. Di quel decreto, alla cui conversione in legge Berlusconi rinunciò dopo le proteste della Procura di Milano condivise dai leghisti di Umberto Bossi, Travaglio  ha disinvoltamente evitato di ricordare la firma immediatamente apposta da un presidente della Repubblica ben poco berlusconiano come la buonanima di Oscar Luigi Scalfaro. Non doveva essere evidentemente un provvedimento da galleria degli orrori.

Rischia di inciampare nel gender il cattolico adulto Enrico Letta

Non vorrei esagerare nell’ironia, come hanno fatto -temo- quelli del manifesto dando nel titolo di copertina dei “degenerati” ai due Mattei della politica italiana -Renzi e Salvini- per l’improvvisa convergenza su modifiche al disegno di legge di Alessandro Zan contro l’omotransfobia.  Che nel testo trasmesso dalla Camera -dicono i leader della Lega e di Italia Viva- rischia di essere bocciata a scrutinio segreto quando arriverà, la settimana prossima, nell’aula del Senato. Dove i renziani hanno già dimostrato con il secondo governo di Giuseppe Conte di essere determinanti. Non vorrei esagerare, dicevo, nell’ironia ma chissà se alla diverticolite di Papa Francesco, che ha dovuto ricorrere alla chirurgia per difendersene, non ha contribuito con le sue aspirazioni a “cattolico adulto”, confessate una volta anche dall’amico e collega di partito Romano Prodi, il segretario del Pd Enrico Letta di fronte all’opportunità segnalata dal Vaticano di modificare quel disegno di legge.

            Il Papa, prima immaginato come spiazzato, contrariato e quant’altro dalla famosa nota diplomatica del Vaticano preoccupata della formulazione del provvedimento, e poi coinvolto nell’iniziativa della Santa Sede dal cardinale Segretario di Stato Parolin, dev’essere rimasto quanto meno sorpreso dall’irrigidimento del segretario del Pd, pur di fede cristiana. Che peraltro non è necessariamente contrapposta alla fede comunista, diciamo così, da cui proviene l’altra parte del Pd perché solo gli ignoranti e gli smemorati possono non conoscere le diverse sensibilità esistite nell’elettorato e nella militanza del Pci su temi coincidenti o confinanti con la religione: dal divorzio all’aborto, dalla procreazione assistita alla devozione anche civile, oltre che religiosa, di Santa Maria Goretti da parte di Berlinguer: “l’altro Enrico” cui volle affiancarsi Letta assumendo nei mesi scorsi la segreteria del Pd abbandonata all’improvviso da Nicola Zingaretti.  

            In verità, è stata spesso contestata ma a torto l’elevazione di Maria Goretti a esempio anche civile da parte di Berlinguer. Nel 1951 l’allora capo della federazione giovanile comunista paragonò davvero l’eroismo della santa a quello della partigiana Irma Bandiera. Che aveva preferito farsi ammazzare dai tedeschi piuttosto che tradire la lotta di liberazione rivelando i nomi dei suoi compagni.

            Il fatto è che può paradossalmente accadere che l’aspirazione alla figura di cattolico adulto, con tutta la caducità di un’espressione del genere da  parte di chi ha fatto anche del voto ai sedicenni una sua bandiera,  sia politicamente contraddetta da quella specie di infantilismo che, secondo il mio modestissimo e contestabilissimo parere, per carità, finisce per essere l’avversione quasi fisica, cioè l’intolleranza, per ogni convergenza avvertita fra due uomini come Renzi o Salvini, o due partiti come la Lega e Italia Viva. Che peraltro -anche questa è una circostanza politica non certamente irrilevante- partecipano col Pd alla stessa maggioranza e allo stesso governo.

            Con tutto il rispetto che si deve a Enrico Letta come uomo e come segretario di partito, penso ch’egli debba avvertire a questo punto l’opportunità di allontanare da sé il sospetto di essere condizionato da pregiudizi di carattere personale, una volta che ha deciso di rituffarsi nella politica e di non vergognarsi ma di vantarsi della partecipazione del Pd al governo di Mario Draghi: prova provata, fra l’altro, della fallacia della formula “Conte o morte” adottata anche da una parte di quel partito durante l’ultima crisi ministeriale e politica.

            Il passato è appunto passato. Lo scontro consumatosi a cavallo fra il 2013 e il 2014 fra Renzi appena approdato alla segreteria del Pd ed Enrico Letta da lui detronizzato come presidente del Consiglio dopo un’assai infelice esortazione a “stare sereno”, non può perpetuarsi all’infinito: né da una parte né dall’altra, oggi su un tema e domani su un altro, ma sempre nel contesto di una comune partecipazione ad una non comune maggioranza non a torto e non a caso definita “di emergenza”.

            Con questa pratica, che sa poco -ripeto- di “adulto”, si compromette ulteriormente la politica, che già di suo ha perso parecchia credibilità con tutti i partiti più o meno personali che hanno sostituito quelli cosiddetti ideologici di una volta. Che tuttavia, pur con tutti i limiti, e non solo i pregi, delle ideologie confrontatesi e scontratesi così a lungo, seppero garantire la ricostruzione del Paese e della democrazia dopo le rovine lasciate dalla seconda guerra mondiale. E consentirono la formazione di una classe dirigente alla quale -al netto di tutte le decapitazioni avvenute, spesso con l’oggettivo sconfinamento del potere o ordine giudiziario rispetto a tutti gli altri- ancora oggi possiamo attingere per fronteggiare le crisi ricorrenti. Mario Draghi ne è un esempio, come anche Sergio Mattarella. Del quale, come già accadde con Giorgio Napolitano nel 2013, non a caso cresce l’avvertito desiderio di una conferma o di una sostanziale prolunga al Quirinale, alla scadenza del suo mandato, vista la circostanza quanto meno sfortunata di un Parlamento due volte delegittimato eppure chiamato a garantire la successione al vertice della Repubblica: due volte perché, già in scadenza di suo, mancando un solo anno alla fine ordinaria della legislatura, esso risulterà rivoluzionato nel rinnovo per i consistenti tagli apportati ai suoi seggi. E ciò per una riforma pretesa dai grillini e accettata dai loro alleati di turno a condizione che fosse completata da altre innovazioni mancate.

Pubblicato sul Dubbio

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