Quanta ipocrisia sulla giostra delle elezioni anticipate

         Saranno pure state ragioni di galateo istituzionale a suggerirglielo, magari anche condivise davvero, dopo essersi fatto rappresentare per giorni come scatenato, o quasi, nella corsa all’epilogo della legislatura, da lui d’altronde pubblicamente ritenuta esaurita il 4 dicembre scorso, quando uscì con le ossa rotte dal referendum sulla riforma costituzionale, ma è suonato tanto di ipocrisia politica il tentativo compiuto da Matteo Renzi di presentare alla direzione del Pd come circoscritte tecnicamente alla riforma elettorale le convergenze createsi con grillini, forzisti, leghisti e quant’altri. E non anche alle elezioni anticipate, che dipenderebbero solo dalle valutazioni finali del presidente della Repubblica, del cui malumore per come ne parlano pubblicamente i politici si era reso interprete con un linguaggio neppure tanto paludato qualche giorno fa quel quirinalista principe che è Marzio Breda, del Corriere della Sera.

Tracce di doveroso galateo istituzionale si trovano anche nell’assicurazione data all’estero dal presidente del Consiglio, il conte Paolo Gentiloni, di sentirsi a capo di un governo nella “pienezza” dei suoi poteri e delle sue funzioni, con tante cose ancora da poter fare e persino progettare. Un’assicurazione diretta -si è affrettato a spiegare qualcuno- a scongiurare anche le solite speculazioni finanziarie nei momenti di troppo evidente “instabilità”, quando si gioca con i titoli dell’ingente debito pubblico italiano come col pallone.

         Ci sarebbe piuttosto da chiedersi se a stimolare le speculazioni finanziarie siano più i politici intenti ad avvicinare il momento del chiarimento nelle urne, e a interrompere questa lunghissima campagna elettorale in corso ormai dalla data già citata del 4 dicembre, o le prime pagine dei soliti giornaloni che sparano come bombe i due punti in più di spread o i due in meno delle quotazioni borsistiche. Punti francamente dannosi più per l’eco, e per l’uso che si tenta di farne in chiave anti-elezioni anticipate, che per il loro contenuto o valore reale.

         Manca poco ormai che non si contesti al risegretario del Pd, e a tutti gli altri decisi o rassegnati ad un ricorso anticipato alle urne, una specie di reato ambientale, non essendosi mai viste le Camere sciolte in piena estate e i cittadini chiamati alle urne in autunno, senza neppure il tempo, duramte i bagni di mare e di sole, di seguire la formazione delle liste e la campagna elettorale. Come se, ripeto, non fossimo già in campagna elettorale almeno da dicembre.

         Non riesco neppure a commuovermi, e tanto meno a indignarmi, allo spettacolo proposto dai contrari alle elezioni di un Gentiloni trattato alla maniera di Enrico Letta, prima invitato a stare “sereno” e poi rimosso da Renzi, smanioso di prenderne il posto alla guida del governo, dopo avere scalato e conquistato la prima volta la segreteria del Pd.

         Gentiloni -credete a me- sarà il primo a tirare un sospiro di sollievo, pur con tutto il rispetto di un conte per il galateo istituzionale, oltre che personale, quando vedrà davvero esaurito il suo compito e, d’intesa con Renzi, che non lo ha trovato a Palazzo Chigi, come Enrico Letta, ma ve lo ha mandato e messo lui qualche mese fa, rinuncerà all’ingrato compito curiosamente assegnatogli da amici ed estimatori di predisporre una legge finanziaria di lacrime e sangue con la quale perdere alla grande le elezioni alla scadenza ordinaria.

La corsa al Quirinale dirottata dalla mafia a Capaci 25 anni fa

Come la strage della scorta di Aldo Moro in via Fani, a Roma, dove il presidente della Dc fu sequestrato per essere ucciso anche lui dopo 55 giorni, aveva finito per accelerare il 16 marzo 1978 la fiducia dell’ancora titubante partito comunista al quarto governo di Giulio Andreotti, considerato dalle brigate rosse proprio per il sostegno dei “traditori” comunisti un accessorio del fantomatico “Stato Imperialista Mondiale”, o delle Multinazionali, così la strage di Capaci il 23 maggio 1992, quattordici anni dopo e venticinque anni fa, sbloccò la settima edizione della corsa al Quirinale. Che stava trascinandosi da 10 giorni e 15 votazioni nell’aula di Montecitorio in un clima politico pestifero, già intossicato di suo dall’esplosione di Tangentopoli: un clima sul quale la mafia aveva deciso di puntare, con quella che sarebbe stata chiamata la “stagione delle stragi”, per uscire dalla crisi nella quale l’aveva messa lo Stato con l’esito definitivo del famoso “maxi-processo”. Il cui merito era stato soprattutto di due magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: l’uno ucciso con la moglie e quasi tutta la scorta proprio a Capaci, il secondo trucidato meno di due mesi dopo, il 19 luglio.

Eppure, la settima edizione della corsa al Quirinale era stata predisposta sul piano politico in modo tale che potesse essere non dico veloce come la sesta, che in una sola votazione si era conclusa con l’elezione di Francesco Cossiga, subentrato all’indimenticabile Sandro Pertini, ma quasi.

Erano i tempi, fausti o infausti, secondo i gusti, del cosiddetto CAF, dalle iniziali dei leader che avevano in pugno, o ritenevano di averla, la maggioranza di governo: Bettino Craxi, segretario del Psi e già presidente del Consiglio dal 1983 al 1987, Giulio Andreotti, succeduto a Palazzo Chigi a Ciriaco De Mita nella primavera del 1989, ed Arnaldo Forlani, succeduto pure lui a De Mita in quella stagione, ma alla segreteria della Dc.

Il piano per la legislatura destinata a nascere con le elezioni politiche ordinarie del 5 e 6 aprile del 1992 era di riportare Craxi alla guida del governo e di eleggere subito dopo Forlani al Quirinale, dove il mandato di Cossiga finiva a fine maggio. Per Andreotti -unico ma non piccolo inconveniente, politico e personale- non era previsto nulla di preciso. Già nominato senatore a vita da Cossiga, si pensava che egli avrebbe potuto aspirare alla presidenza del Senato, subentrando al repubblicano Giovanni Spadolini, o alla segreteria della Dc.

Uscita miracolosamente indenne sul piano numerico dalle elezioni di aprile, miracolosamente perché il 17 febbraio era esplosa a Milano Tangentopoli con l’arresto del socialista Mario Chiesa e il clima politico si era già avvelenato, la maggioranza esordì con un passo falso. Al Pci, diventato Pds dopo la caduta del muro di Berlino e in comprensibile difficoltà, fu negata la conferma di Nilde Jotti alla presidenza della Camera o la sostituzione col suo compagno di partito Giorgio Napolitano. Eppure la Jotti al vertice di Montecitorio aveva dato prove eccellenti, oltre ad essere stata la prima donna salita così in alto nelle istituzioni. Nei suoi quattro anni di governo Craxi, pur osteggiato fortemente dal Pci, aveva più volte verificato la correttezza politica della presidente della Camera, arrivata a scontrarsi col proprio partito, nella gestione parlamentare del famoso decreto legge che nel 1984 aveva rallentato la scala mobile dei salari per ridurre un’inflazione che galoppava a due cifre.

Alla presidenza di Montecitorio fu eletto il 24 aprile Oscar Luigi Scalfaro, fra i democristiani il più espostosi negli ultimi due anni con critiche e attacchi al Cossiga “picconatore”, che dal Quirinale, o dovunque si trovasse fisicamente, non lasciava passare giorno senza esternazioni polemiche in ogni direzione. Anche per noi giornalisti era diventato un mezzo incubo, costringendoci spesso a cambiare le prime pagine dei quotidiani nelle ore di cosiddetta chiusura in tipografia.

Cossiga naturalmente non gradì la promozione del suo censore e reagì alla sua maniera, con una picconata: quella finale delle dimissioni prima della scadenza del mandato pur al termine. Dimissioni destinate a rovesciare l’agenda politica e forse anche, nelle sue intenzioni, a rimetterlo in gioco per una sua conferma, sia pure a tempo: quello sufficiente alle nuove Camere ad approvare la riforma costituzionale da lui stesso sollecitata l’anno prima, non a caso, con un messaggio al Parlamento. Era una riforma comprensiva dell’elezione finalmente diretta del capo dello Stato. Approvata la quale, lui si sarebbe dimesso per consentire che il suo successore fosse eletto subito dai cittadini, e non più dai parlamentari in seduta congiunta con la partecipazione di una delegazione dei Consigli regionali.

Annunciate con un messaggio televisivo il giorno dopo l’elezione di Scalfaro alla Presidenza della Camera, festa peraltro della Liberazione, le dimissioni di Cossiga furono formalizzate il 28 aprile e innescarono le procedure per l’elezione del successore, che sorpassarono così quelle per la formazione del nuovo governo. Così peraltro Cossiga, al quale subentrava come supplente il presidente appena rieletto del Senato Giovanni Spadolini, si risparmiò la nomina del pur amico Craxi a presidente del Consiglio su designazione della maggioranza uscente. Gli anticraxiani si sentirono sollevati: primi fra tutti, quelli del Pds-ex Pci, timorosi che la “unità socialista” perseguita o rilanciata dal segretario del Psi dopo la caduta del muro di Berlino, si traducesse in una loro annessione.

Ritenere che il sottrarsi alla nomina di Craxi a capo del governo bastasse a Cossiga per ricucire con la sinistra, dopo anni di scontri durissimi, e recuperarne l’appoggio per una rielezione al termine di una lunga, defatigante e infruttuosa corsa al Quirinale, era forse azzardato. Ma ci furono sostenitori di Cossiga che coltivarono questa speranza, e magari anche quella di guadagnare alla loro causa i missini di Gianfranco Fini e i leghisti di Umberto Bossi, appena approdati in forze al Parlamento -questi ultimi- grazie anche agli umori popolari scossi dalle picconate del presidente sardo.

Certo è che sin dai primi scrutini, mentre Cossiga si teneva a distanza dall’Italia per ostentare un certo distacco, non mancarono voti a suo favore, come segnali ai naviganti, formalmente impegnati dal 13 maggio, quando cominciarono le elezioni presidenziali, a sostenere le candidature di bandiera dei loro partiti, nessuna delle quali in grado nelle prime tre chiamate alle urne deposte nell’aula di Montecitorio a raggiungere la maggioranza dei due terzi prescritta dalla Costituzione: la Jotti per il Pds, De Giuseppe per la Dc, Vassalli per i socialisti e via sventolando le schede.

Mentre si votava a vuoto, fervevano naturalmente riunioni di partito, di corrente e contatti personali. Fu in quella fase che Forlani, un pò per tattica, un pò per amicizia e un pò perché effettivamente convinto delle difficoltà ormai storiche di un segretario della Dc di trasferirsi direttamente al Quirinale, disse personalmente ad Andreotti: “Questa volta tocca a te”. Non lo avesse mai fatto. Quando, alla vigilia della quarta votazione- fissata già per il 15 maggio, la prima nella quale sarebbe bastata la maggioranza assoluta per l’elezione- Craxi notificò la indisponibilità del Psi per una candidatura di Andreotti, scoppiò nello scudocrociato la rivolta degli andreottiani. A causa della quale i democristiani presero la salomonica e attendistica decisione di astenersi. Ma il giorno dopo, 16 maggio, con la decisione di Forlani di farsi votare come candidato della maggioranza uscente di governo, i nodi vennero al pettine. Si votò due volte. Nella prima mancarono al segretario della Dc 39 voti ai 508 necessari all’elezione, nella seconda 29, di ragionevole provenienza -al netto dei voti giunti da altri partiti- non solo andreottiana ma anche socialista, avendo la sinistra del Psi e Rino Formica apertamente contestato le indicazioni di Craxi.

Senza perdere e far perdere altro tempo, pur avendo recuperato nel secondo tentativo dieci voti rispetto al primo, pari comunque a un terzo della dissidenza, Forlani fece il gran rifiuto. Che per la sua natura traumatica impedì però agli andreottiani di porre realisticamente la candidatura del loro leader e – non dimentichiamolo- ancora presidente del Consiglio in carica Si aprì una fase che gli ottimisti definirono di decantazione, nella speranza che si trovasse una soluzione di compromesso nella Dc o altrove. Ma più che di decantazione, fu una fase di grande confusione e tensione, con la Dc inchiodata alla pratica dell’astensione nelle votazioni che proseguivano stancamente una al giorno, mentre da Milano giungevano notizie e voci sempre più allarmanti sugli sviluppi delle indagini Mani pulite e sul coinvolgimento reale o potenziale di uomini sempre più importanti del mondo politico, a cominciare da Craxi.

All’esito a vuoto anche del quindicesimo scrutinio, il 23 maggio, i sostenitori della richiamata di Cossiga sulla scena si riattivarono a proporre scenari di emergenza istituzionale, accarezzati però anche dagli andreottiani più ostinati, convinti che si dovesse ricorrere a candidature appunto “istituzionali” per fronteggiare la situazione d’impasse, includendo in questa categoria, oltre ai presidenti delle Camere, anche il presidente del Consiglio, col superamento quindi del clima di risentimento per il ruolo che gli stessi andreottiani avevano potuto avere nella bocciatura del segretario del partito.

Fu in questo scenario, e mentre i giornali cominciavano a fare il conto alla rovescia per verificare quante votazioni mancassero ai record delle precedenti edizioni delle corse al Quirinale, con le 16 occorse all’elezione di Pertini nel 1978, le 20 all’elezione di Giuseppe Saragat nel 1964 e le 23 all’elezione di Giovanni Leone nel 1971, che esplose a Capaci alle 17,18 di quel tragico 23 maggio 1992 la micidiale carica di esplosivo contro Giovanni Falcone.

Lo sgomento naturalmente fu enorme, come nel già ricordato 16 marzo 1978 col sequestro di Moro mentre si recava alla Camera alla presentazione del quarto governo Andreotti, che per reazione all’attacco sfrontato allo Stato ottenne nella stessa giornata la fiducia di entrambe le Camere, con la rinuncia dei comunisti alle riserve mosse la notte precedente per alcune conferme nella lista dei ministri non concordate: in particolare, quelle di Antonio Bisaglia e di Carlo Donat-Cattin, i più contrari all’evoluzione della linea di cosiddetta solidarietà nazionale d’intesa col Pci di Enrico Berlinguer.

Allo stesso modo, mentre Spadolini accorreva a Capaci come capo supplente dello Stato, i vertici dei maggiori partiti, questa volta senza distinzioni fra maggioranza e opposizione di un governo peraltro ancora da formare, concordarono che allo scrutinio successivo, il 16.mo, sarebbe stato eletto al Quirinale o lo stesso Spadolini o il presidente della Camera Scalfaro. Tutte le altre ipotesi, reali o fantasiose che fossero, davvero istituzionali o finte, da Andreotti a Cossiga, si vanificarono.

Il povero Spadolini, sostenuto da un larghissimo schieramento soprattutto mediatico, a cominciare dalla Repubblica di Eugenio Scalfari per finire col Giornale dell’amico di una vita Indro Montanelli, e forte anche della supplenza esercitata per quasi un mese al vertice dello Stato dopo le improvvise dimissioni di Cossiga, si considerò tanto sicuro da cominciare a predisporre un aulico discorso di insediamento. Egli godeva peraltro anche della simpatia personale del segretario della Dc Forlani, che proprio a lui nel 1981 aveva passato la staffetta di Palazzo Chigi, all’esplosione dello scandalo della P2.

Ma il Pds-ex Pci guidato da Achille Occhetto, un pò perché refrattario a farsi dettare la linea dal pur autorevole fondatore e direttore di Repubblica e un pò per convenienza politica, potendo liberare la Presidenza della Camera per insediarvi Giorgio Napolitano, a dispetto dei veti opposti infelicemente da Craxi in apertura della legislatura, preferirono Scalfaro, per il quale peraltro si era mobilitato già dalle prime tappe della corsa al Quirinale un attivissimo Marco Pannella. A quel punto Forlani non poteva che aderire alla candidatura di un vecchio collega di partito. Rapido fu anche il consenso di Craxi, che aveva avuto e sperimentato Scalfaro nei suoi governi, fra il 1983 e il 1987, come leale ministro dell’Interno: tanto leale da sottrarsi al tentativo dell’allora segretario della Dc di contribuire al disarcionamento del segretario socialista da Palazzo Chigi guidando il governo delle elezioni anticipate, cui si prestò invece Amintore Fanfani.

Così il 25 maggio, al 16.mo scrutinio, come con Pertini nel 1978, Oscar Luigi Scalfaro fu eletto al Quirinale con 672 voti, oltre 160 in più del necessario. E la mafia, per quanto avesse proseguito con le stragi e gli attentati, per quanto avesse strappato, secondo una lettura giudiziaria degli eventi al centro di un processo in corso a Palermo, trattative con lo Stato, o pezzi di esso, per l’alleggerimento del trattamento carcerario dei suoi detenuti, perse la sfida di Capaci con la cattura dei capi Totò Riina, il 15 gennaio 1993, e Bernardo Provenzano l’11 aprile 2006.

Altri invece beneficiarono dell’imprevisto o improvvisato epilogo di quella settima drammatica edizione della corsa al Quirinale: l’ordine giudiziario, come lo chiamava Cossiga ancora presidente della Repubblica. La magistratura vinse la sua partita di Mani pulite con l’aiuto oggettivo di Scalfaro al Quirinale, prevalendo decisamente sulla politica, inducendola peraltro a ridurre volontariamente, con una modifica costituzionale a tamburo battente, le immunità parlamentari volute dai padri costituenti, fra i quali leader non certo di destra come Palmiro Togliatti e Umberto Terracini.

 

 

Pubblicato da Il Dubbio

Lacrime di coccodrillo sulle elezioni anticipate

 

            Mamma mia, quante lacrime di coccodrillo, ipocrite e inutili cioè, si stanno versando per questa diciassettesima legislatura che, già declinante di suo, si sta avvicinando più rapidamente alla fine, ora che i principali interlocutori politici si stanno accordando sulla riforma elettorale pretesa dal presidente della Repubblica per omogeneizzare le due diverse leggi elettorali uscite dalla Consulta. Cioè per rimediare a quel pasticciaccio brutto della Corte Costituzionale che nessuno, per ipocrisia e falso bon ton istituzionale, vuole chiamare col suo nome. E che pure è grosso come una casa, anzi un grattacielo: due leggi per due Camere, con soglie diverse per accedervi, in una con le preferenze, pur al netto dei capilista bloccati, e nell’altra no, candidati in più collegi contemporaneamente e sorteggi per assegnare loro quello buono, lasciando posto altrove ai secondi classificati, ed altro ancora.

            Solo dei giocherelloni potevano pensare a una cosa del genere e certificarne l’agibilità. Dei giocherelloni, con quelle loro sentenze inappellabili scritte nella Costituzione, provvisti peraltro di una infallibilità che ora neppure i pontefici di Santa Romana Chiesa osano più prendere per buona.

            Qualcuno adesso si straccia le vesti per il capo dello Stato che sarebbe privato delle sue prerogative, come se Sergio Mattarella fosse il primo presidente costretto a sciogliere le Camere qualche settimana o mese di anticipo rispetto alla scadenza ordinaria per sopraggiunte e insanabili circostanze. E come se i partiti decisi a preferire le elezioni alla confusione si fossero sottratti alla condizione reclamata proprio dal Quirinale, che era ed è quella di “omogeneizzare” le regole elettorali in vigore.

            Qualche altro si strappa i capelli, anche quando non li ha, all’idea degli speculatori finanziari incoraggiati dalla “instabilità “, come se questa fosse stabilità, con partiti che escono ed entrano in maggioranza a giorni e ore alterne, e con i più diversi pretesti, e non ci fossero precedenti, a cominciare da quelli spagnoli, di elezioni anticipate preferite dai mercati finanziari a paesi letteralmente privi di governi e maggioranze.

            Si grida infine allo “scandalo” o alla stranezza del l’esercizio provvisorio del bilancio cui si sarebbe costretti a ricorrere nella impossibilità di approvare una legge finanziaria comunque da proporre, e trasmettere a Bruxelles, entro l’autunno. Ma l’esercizio provvisorio è previsto e disciplinato dalla Costituzione, che pure è stata festeggiata il 4 dicembre scorso come la creatura sottratta miracolosamente, col referendum, agli artigli e agli stupri del solito Matteo Renzi.

            Mi chiedo perché non si diano tutti una calmata e non evitino una brutta insolazione prima ancora di esporvisi.

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net martedì 30 marzo col titolo: Chi strepita inutilmente contro le elezioni anticipate

                    

           

Quella via Fani troppo affollata la mattina del 16 marzo 1978

         Tanto più si scava negli archivi, e si interrogano persone più o meno informate dei fatti, o costoro si presentano agli inquirenti di turno, specie se parlamentari che compongono la commissione d’inchiesta anch’essa di turno, con i quali si ha forse meno paura di parlare, visti i vuoti lasciati dai magistrati di carriera nella maledetta e tragica vicenda del sequestro di Aldo Moro, più cresce il numero di quanti si trovavano al posto sbagliato nel momento sbagliato la mattina del 16 marzo 1978. Deve essere accaduto così, nell’ipotesi migliore, se non si può e non si deve pensare di peggio, all’aspirante indranghetista Giustino De Vuono, arrestato dopo tre anni per l’assassinio di Carlo Saronio e liberato in tempo, con la complicità di un condono, per andarsene dall’Italia e sparire in Paraguay.

         La foto di questo fior di malvivente sorpreso i via Fani, a Roma, poco dopo il sequestro di Moro e la strage della scorta è rimasta per un po’ negli archivi di una postazione dei Carabinieri della vicina via Trionfale, trasmessa inutilmente agli uffici giudiziari, dove deve essersi persa con tante altre foto e interi rullini consegnati da abitanti della zona, come la mia cara amica e collega Cristina Rossi, accorsa col marito carrozziere in terrrazza a riprendere la scena del rapimento.

         Il volto di De Vuono è stato riproposto agli occhi e alla conoscenza della commissione parlamentare che sta indagando sotto la presidenza dell’ex ministro piddino Giuseppe Fioroni, grazie anche alla solerzia di chi la scattò, arrivando di corsa sul posto dalla vicina via Stresa, dove aveva un negozio di ottica e si era allarmato per il grande chiasso fatto dai terroristi in fuga da via Fani su un’auto, fra l’altro, che per poco non gli aveva ucciso la figlia per strada, a causa della folle andatura alla quale risaliva verso via Trionfale.

         L’hanno potuto vedere, quel volto, anche i lettori e naviganti internauti di www.formiche.net grazie a quella segugia che dev’essere la collega Simona Zecchi. Così come di recente è stato intravisto, in un’altra foto, anche lui presente in via Fani, l’indranghetista Antonio Nirta.

         Ignoti invece sono rimasti, almeno sinora, i due uomini visti da tanti su una moto Honda sfrecciata in via Fani dopo il sequestro di Moro, come in un giro di perlustrazione. O quel signore biondo che correva a piedi durante la sparatoria per gridare in tedesco a chi vi passava o era affacciato alle finestre di stare attenti: forse lo stesso, in abito da aviere, come si erano travestiti anche i terroristi, che si era poi attardato nel bar d’angolo tra via Fani e via Stresa, chiamato Olivetti. Un bar che doveva essere chiuso quella mattina ma curiosamente si trovò aperto dopo il rapimento, tanto che qualche giornalista riuscì a usarlo per fare qualche telefonata di servizio e sentir parlare in tedesco un avventore. Di quel bar doveva avere le chiavi come custode il portiere dello stabile, essendo il locale sequestrato per il fallimento della società che lo possedeva.

         Sempre in via Fani passò in quella mattina un ufficiale dei servizi segreti per presentarsi con molto e curioso anticipo ad un appuntamento conviviale con un amico che abitava nella zona.

         Solo io in quella maledetta mattina non riuscii a passare con la mia auto, portando mia figlia a scuola sulla via Flaminia, dirottato verso Largo Igea da una pattuglia di poliziotti, credo, travestiti, visto che sono stato invitato con mia moglie, presente anche lei in macchina, a riferirne alla commissione del presidente Fioroni.

         Sempre in quella maledetta via Fani arrivò di corsa l’auto di servizio di un dirigente della Questura partito dal centro di Roma prima ancora che fosse scoppiato l’allarme della polizia per il sequestro di Moro, peraltro preannunciato da una radio privata il cui direttore era noto alle forze dell’ordine come informatore degli extraparlamentari di sinistra. Anche di questo sta occupandosi la commissione Fioroni.

         Tanti, troppi si trovarono insomma da quelle parti verso le 9 del 16 marzo 1978. Poco mancò che non vi si trovassero anche il ministro dell’Interno Francesco Cossiga e il presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Evitarono di trovarcisi giusto perché a quell’ora si stavano preparando a raggiungere, se non erano già arrivati, il palazzo di Montecitorio per la presentazione di quel governo monocolore democristiano che Moro, presidente della Dc, era riuscito a rimettere in piedi, come sua ultima impresa politica, con l’appoggio esterno dei comunisti: ultima espressione della politica di cosiddetta solidarietà nazionale. Una solidarietà che il povero Moro, una volta rapito, avrebbe inutilmente desiderato fosse applicata anche a lui da chi invece preferì lasciarlo uccidere il 9 maggio successivo perché non fosse contraddetta la “linea della fermezza”, imbracciata e imposta dai comunisti perché non si potesse dubitare della loro sinistra idoneità al governo.

Ripreso da http://www.formiche.net lunedì mattina 29maggio 2017

Cominciava 25 anni fa il settennato di Scalfaro prodotto a Capaci

Si possono considerare concluse le celebrazioni del venticinquesimo anniversario della strage di Capaci ricordandone l’effetto politico. Che fu l’elezione al Quirinale di Oscar Luigi Scalfaro, insediatosi esattamente 25 anni fa, il 28 maggio 1992, alla Presidenza della Repubblica giurando davanti al Parlamento e pronunciando il discorso d’inizio del suo settennato.

Era un giovedì mattina. Tre giorni prima, dopo la quindicesima votazione a vuoto nell’aula di Montecitorio, e a Camere congiunte, per la successione a Francesco Cossiga al vertice dello Stato, il magistrato più famoso d’Italia, Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, magistrata pure lei, e tre dei sette agenti della scorta -Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro- erano letteralmente saltati in aria, assassinati dalla mafia, mentre cercavano di raggiungere Palermo nelle loro auto blindate dall’aeroporto di Punta Raisi.

Falcone aveva pagato così con la vita la colpa di avere messo in ginocchio i vertici di Cosa Nostra col maxiprocesso prodigo di ergastoli e altre condanne confermate dalla Cassazione proprio all’inizio del 1992, quando lo stesso Falcone per sottrarsi ai veleni dei colleghi nel tribunale di Palermo e alle minacce della mafia era stato aiutato da Cossiga a trasferirsi a Roma assumendo la direzione degli affari penali del Ministero della Giustizia: un incarico preparato dal guardasigilli socialista Giuliano Vassalli prima di essere nominato giudice costituzionale e conferito dal suo successore, nonché vice presidente del Consiglio Claudio Martelli, anche lui del Psi. Un incarico, tuttavia, che aveva avvelenato ulteriormente i rapporti di Falcone con i colleghi e non aveva per niente scoraggiato la mafia dal consumare la sua vendetta con un attentato, peraltro, voluto e organizzato in terra siciliana, dopo un’ipotesi scartata di assassinare il giudice nella Capitale.

Il contraccolpo politico della strage di Capaci fu lo sblocco della corsa al Quirinale, arenatasi, per uno scontro all’interno della Dc e per la dissidenza della sinistra socialista, con la bocciatura del candidato della maggioranza uscente di governo. Che era il segretario democristiano Arnaldo Forlani.

Di fronte all’attacco mafioso si decise da parte dei maggiori partiti di puntare su una rapida soluzione “istituzionale”, scegliendo fra i presidenti della Camera Oscar Luigi Scalfaro e del Senato Giovanni Spadolini, peraltro capo supplente dello Stato dopo le dimissioni di Cossiga, presentate verso la fine di aprile, con alcune settimane di anticipo rispetto alla scadenza ordinaria del mandato. Con quel gesto Cossiga aveva intesto facilitare, almeno a parole, un accordo generale fra i partiti della maggioranza comprensivo di governo e Quirinale. Ma c’era sotto anche dell’altro, forse la speranza di una ricandidatura del presidente uscente, una volta fallite tutte le altre.

Per quanto Spadolini sembrasse favorito dalla supplenza quirinalizia e da uno schieramento mediatico esteso da Indro Montanelli ad Eugenio Scalfari, per volontà soprattutto del Pds-ex Pci la scelta cadde su Scalfaro. Che aveva il vantaggio politico, agli occhi di quel partito, di liberare la presidenza della Camera per Giorgio Napolitano.

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Assai curiosamente nel discorso di insediamento Scalfaro dedicò all’evento che pure lo aveva imprevedibilmente portato al Quirinale solo un inciso, parlando della “criminalità aggressiva e sanguinaria”, che “ci angoscia”, nonostante “l’impegno intenso dello Stato”, da “riconoscere per giustizia”. Un impegno naturalmente da accentuare con “due cose essenziali: la stretta intesa, pur nelle diverse competenze, fra Ministero dell’Interno e magistratura e la collaborazione internazionale”, perché “i delitti più gravi è assai difficile che non abbiano radici internazionali”, appunto. Il che fece credere che Scalfaro avesse avvertito anche qualche mano straniera nella pur non menzionata strage di Capaci.

Più spazio fu dato dal nuovo presidente della Repubblica alla necessità di riformare la Costituzione: cosa che, nonostante il ricorso da lui raccomandato ad un’apposita commissione bicamerale, non fu possibile realizzare durante il suo mandato. E quando fu possibile, durante il settennato del successore Carlo Azeglio Ciampi, proprio Scalfaro da presidente ormai emerito della Repubblica guidò e vinse la campagna referendaria del no alla riforma cosiddetta federalista approvata in Parlamento della maggioranza di centrodestra, su iniziativa del secondo governo di Silvio Berlusconi.

Ma soprattutto Scalfaro si soffermò nel discorso di insediamento sulla “questione morale” esplosa con Tangentopoli e con le inchieste giudiziarie di Milano, chiamate Mani pulite e poi imitate da altre Procure. Inchieste destinate a travolgere la cosiddetta Prima Repubblica e a cambiare profondamente gli equilibri politici del Paese, in un clima di sbandamento e di vuoto in cui crebbe la Lega di Umberto Bossi e soprattutto maturò la decisione di Berlusconi di “scendere in politica”. Così egli occupò con la sua Forza Italia lo spazio dei vecchi partiti di governo travolti dalla tempesta giudiziaria, come la Dc, il Psi, il Psdi, il Pli e il Pri: l’area del cosiddetto pentapartito d’impronta craxiana.

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Mentre erano già cominciati ad arrivare alla Camera i primi fascicoli giudiziari da Milano per le autorizzazioni a procedere ancora imposte dal vecchio articolo 68 della Costituzione sulle immunità parlamentari, modificato a larga maggioranza e a tamburo battente l’anno dopo, con la legge del 29 ottobre 1993, Scalfaro da magistrato in pensione si rivolse ai suoi ex colleghi di toga perché facessero per intero il loro dovere. E respinse l’abitudine di troppi di liquidare “gli appelli morali” come “moralismo”.

“Occorre -disse il presidente della Repubblica- energia, serenità e perseveranza della magistratura”, in un passaggio non interrotto, in verità, dagli applausi riservati ad altre parti del discorso, come se i parlamentari non fossero convinti della possibilità di conciliare davvero le tre qualità reclamate dal capo dello Stato per il clima un po’ da caccia alle streghe che stava diffondendosi, e che ancora di più era destinato a svilupparsi con un uso, per esempio, smodato degli avvisi di garanzia e delle manette, spesso scattate ai polsi di chi poi non sarebbe stato neppure rinviato a giudizio. Fu il caso, fra gli altri, dell’ex ministro della Giustizia Clelio Darida, collega di partito di Scalfaro. Ne ho qui ricordato di recente l’incredibile vicenda giudiziaria in occasione della morte.

Di “energia e perseveranza” si dimostrò sicuramente capace la magistratura nella gestione o lotta a Tangentopoli. Di “serenità”, francamente, molto meno, o per niente: temo, nella sostanziale indifferenza di Scalfaro, a dispetto del monito rivolto ai suoi ex colleghi di toga.

 

 

Diffuso da http://www.formiche.net

Il conte Gentiloni a Taormina pensando a Renzi

Il conte Paolo Gentiloni non sa fingere, pur consapevole che la capacità di farlo sia invece un buon requisito di un leader, o di uno destinato alla leadership. E poi, anche la regola della capacità di fingere per diventare un leader non occasionale ha avuto le sue eccezioni.

Alcide De Gasperi, per esempio, era uno incapace di fingere, più triste che allegro, consapevole della quantità e della gravità dei problemi di un Paese da ricostruire materialmente e moralmente dopo i danni immani di una guerra. E Aldo Moro, a dispetto delle apparenze, o della maschera dell’ambiguità cucitagli addosso dagli avversari, specie dopo la formula famosa delle “convergenze parallele”, non fingeva per niente perché, gratta gratta, le cose le diceva chiaramente. Non lo capivano solo quelli che per opportunismo o per partito preso non volevano capirlo.

Una volta rapito dalle brigate rosse, mentre tutti reclamavano la finzione dello “statista” impavido, e indicavano a distanza come esempio le lettere di coraggio scritte ai familiari dai combattenti consapevoli di rischiare la morte o già condannativi, Moro dimostrò con le sue missive dalla cosiddetta prigione del popolo quanto forte fosse la sua voglia e necessità di vivere. E la convinzione che non convenisse neppure allo Stato la cosiddetta linea della fermezza adottata contro di lui dal governo che pure egli aveva contribuito a far rimanere al suo posto, sotto la guida di Giulio Andreotti e dopo una crisi provocata dal Pci di Enrico Berlinguer. Che voleva scambiare la conferma dell’appoggio esterno, passando dall’astensione ad un regolare e contrattato voto di sfiducia, con la nomina a ministri di due “indipendenti” eletti nelle liste comuniste, o almeno con la rimozione di due ministri democristiani particolarmente invisi alle Botteghe Oscure: Carlo Donat-Cattin e Antonio Bisaglia.

Il Pci non ottenne né l’una né l’altra cosa. E la fermezza contro Moro né fermò le brigate rosse, vinte negli anni successivi solo grazie alla cattura e al pentimento di Patrizio Peci, né salvò la permanenza del Pci nella maggioranza, dissoltasi sette mesi dopo l’assassinio del presidente della Dc.

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Ma torniamo a Gentiloni e alla sua incapacità di fingere, o di fingere più di tanto. Lo avete visto tutti in televisione a fare il padrone di casa a Taormina per il famoso e tanto atteso G7, politicamente eccezionale anche per l’esordio dei nuovi presidenti degli Stati Uniti e della Francia, per non parlare della nuova dimensione dell’Inghilterra dopo la Brexit.

Pur sorridente nel ricevere gli ospiti, il presidente del Consiglio dev’essere apparso anche a loro, come agli spettatori televisivi, più stanco che in forma, più curvo che dritto, più triste o preoccupato che felice.

Ho sentito, fra gli amici, più spiegazioni di questo senso di stanchezza e di preoccupazione. La spiegazione, per esempio, dell’imbarazzo procurato a Gentiloni solo a pensare al risegretario del Pd Matteo Renzi, che lo volle al suo posto, a Palazzo Chigi, dopo la sconfitta referendaria del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, per lasciarvelo solo per qualche settimana o due o tre mesi: il tempo necessario per strappare al capo dello Stato le elezioni anticipate, tornare alla guida del governo e fare lui il padrone di casa al vertice mondiale in Sicilia, in una località e in uno scenario ch’egli stesso d’altronde aveva scelto. O la spiegazione di una preoccupazione per la forte, anzi fortissima ripresa dei titoli delle elezioni anticipate nella Borsa della politica. Ormai tutto sta correndo, in effetti, verso l’approvazione di una ulteriore riforma o riformetta elettorale che consenta al presidente della Repubblica Sergio Mattarella di sciogliere le Camere per rimandare alle urne gli italiani già il 24 settembre, il giorno delle elezioni tedesche, o poco più in là.

Un’altra spiegazione ancora della stanchezza, della tristezza, comunque del tono dimesso di Gentiloni a Taormina ve la riferisco solo per dovere d’informazione, considerandola del tutto sbagliata, anzi ridicola. Sarebbe la delusione del conte per non avere più il tempo di preparare e gestire quell’atto di eroismo, di responsabilità e quant’altro assegnatogli a tavolino dai suoi estimatori, che è la legge finanziaria del 2018.

Ho sempre considerato quest’ambizione attribuita o assegnata al presidente del Consiglio una grandissima bufala, se non vogliamo chiamarla addirittura idiozia. Non un eroe, uno statista responsabile in quanto tale, ma solo un pazzo, o uno sprovveduto, potrebbe ambire a Palazzo Chigi a fare una legge finanziaria di grossi sacrifici, se non di lacrime e

sangue, per poterne incassare gli effetti impopolari qualche settimana o mese dopo l’approvazione, nelle elezioni alla scadenza ordinaria della legislatura.

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Se proprio volete sapere l’impressione che ho ricavato da quei sorrisi stentati e formali del presidente del Consiglio a Taormina è quella di una certa preoccupazione, o ansia, per l’imminente incontro fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, già accomunati nel personaggio unico e immaginario di Renzusconi da un Massimo D’Alema che non saprei se più disinvolto o provocatore, dimentico di avere tanto vistosamente preceduto Renzi sulla strada dell’intesa con l’odiato, adesso, leader di Forza Italia da procurarsi il soprannome di Dalemoni da Giampaolo Pansa. Un Dalemoni portato dall’uomo di Arcore alla presidenza della commissione bicamerale per le riforme costituzionali e gratificato dalle marmellate della moglie di Gianni Letta, consigliere principe, ambasciatore e altro ancora dell’allora Cavaliere.

E’ naturale -o innaturale se non avvenisse- includere fra i temi su cui accordarsi nell’incontro in preparazione fra Renzi e Berlusconi, oltre al contenuto della riforma elettorale, e alle soglie di sbarramento da cui si sentono minacciati, su versanti opposti, sia il centrista Angelino Alfano sia il baffuto D’Alema, valutato nei sondaggi attorno ad un modesto tre per cento dei voti, lo scenario governativo post-elettorale. Uno scenario in cui

non può certamente definirsi secondario il destino di Gentiloni. Il quale potrebbe rimanere a Palazzo Chigi o tornare alla Farnesina con una staffetta rovesciata rispetto a quella di dicembre scorso.

Poiché la carne è notoriamente debole, non ci sarebbe nulla di male se il conte presidente del Consiglio, per quanto stanco, volesse essere confermato, non importa se più per la generosità di Renzi o per la forza negoziale di un Berlusconi al quale il risegretario del Pd tutto potrebbe francamente concedere fuorché la promozione del ministro Calenda, appena sponsorizzato dall’imprudente presidente di Mediaset Fedele Confalonieri.

Le vite parallele di Dalemoni e di Renzusconi

A che cosa può portare il livore, umano o politico che sia! In una intervista al Corriere della Sera Massimo D’Alema è arrivato a sostenere di preferire il pur improbabile, secondo lui, 3 per cento del movimento che ha creato con Pier Luigi Bersani e altri uscendo dal Pd e rovesciandone la sigla in Dp, piuttosto che dividere una sola ora in più con l’odiato Matteo Renzi. Il quale altro non sarebbe che un’imitazione di Silvio Berlusconi, tanto da potere farsi cambiare il nome all’anagrafe e chiamarsi Renzusconi.

Questo Renzusconi deve essere il cugino di un altro personaggio politico di fantasia, creato da Giampaolo Pansa negli anni in cui con Berlusconi cercava di andare d’accordo proprio D’Alema. E tanto riuscì ad andarvi da essere aiutato da lui a diventare presidente di un’ambiziosissima commissione bicamerale per le benedette riforme costituzionali. Sembrava una specie di esordiente padre della Patria.

         Il personaggio inventato da Pansa si chiamava Dalemoni. E poco mancò che questi fosse eletto dalle Camere presidente della Repubblica insediandosi al Quirinale, dove vi lascio immaginare che cosa sarebbe riuscito a fare con la supponenza o l’arroganza che lui stesso nell’intervista ha ammesso di possedere, pur assicurando di praticarla solo nei riguardi dei “prepotenti”, o di quelli che egli scambia per tali, con quale facilità di esagerare è facile intuire.

         L’esperienza di Dalemoni al Quirinale ci è stata risparmiata in ben due occasioni -quando sul Colle vi arrivarono invece, in ordine di tempo, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano- solo per la capacità trovata fortunatamente all’ultimo momento da Berlusconi di sottrarsi ai consigli dell’amico e suo già ministro dei rapporti col Parlamento Giuliano Ferrara. Che provenendo da una famiglia comunista di prim’ordine -la madre fu segretaria fedelissima e preziosa di Palmiro Togliatti, chiamato “il Migliore”, con la maiuscola, e il padre, spiritosissimo e coltissimo poeta, oltre corrispondente da Mosca e direttore dell’Unità poi, e infine senatore del Pci- riteneva di conoscere bene e di poter selezionare i compagni di una vita.

Già questo potrebbe bastare ed avanzare per liquidare come merita la rancorosa intervista contro Renzusconi, e il minaccioso invito alla prima metà del suo personaggio, Renzi, di ricordare che deve “farsi una ragione” che lui, Massimo D’Alema, “c’è”: un rottame, per rimanere nel linguaggio del risegretario del Pd, capace di fargli ancora del male. E in effetti lo ha rivelato mettendosi alla testa politica del fronte referendario del no alla riforma costituzionale fortissimamente voluta dall’allora governo Renzi, rovesciato dalla sconfitta, per quanto risorto in qualche modo sotto la guida di Paolo Gentiloni, proposto, anzi voluto dallo stesso presidente del Consiglio dimissionario ma ancora segretario del Pd.

         Ma c’è una cosa che D’Alema si è scordato di dire ai lettori della sua intervista, anche per omissione di domanda da parte del pur ottimo interlocutore Aldo Cazzullo. Si è scordato di dire, in particolare, come mai siano passati ormai quasi sei mesi dalla sua strepitosa vittoria referendaria e nessuno, proprio nessuno, abbia trovato traccia della più semplice ed efficace riforma costituzionale che lui aveva promesso di poter fare proporre dai suoi compagni e di realizzare entro la legislatura.

         L’unica cosa che D’Alema è riuscito a fare è un altro partito valutato nei sondaggi attorno al 3 per cento dei voti. Che, per quanto gratificante per la insolitamente scarsa sete di D’Alema, rimane sempre un 3 per cento: le dimensioni massime del vecchio partito repubblicano raggiunte con Giovanni Spadolini dopo la cura cortisonica di Palazzo Chigi.

L’autorete di Confalonieri col ministro Calenda

Se Carlo Calenda in mancanza dello sviluppo economico dell’Italia, del cui omonimo Ministero è titolare, è davvero tentato – come si dice e si scrive un po’ dappertutto- dallo sviluppo almeno della sua carriera politica, il suo amico ed estimatore Fedele Gonfalonieri, presidente di Mediaset pur aduso alla prudenza per mettere sempre al riparo l’azienda, non gli fatto un grande servizio incoraggiandolo ad emulare il novo presidente della Repubblica Emmanuel Macron. Che è appena arrivato all’Eliseo dopo essersi messo in proprio, diciamo così, per scomporre i vecchi partiti e offrirsi come il vero e più affidabile garante dell’antilepenismo, paragonabile in Italia non tanto all’antileghismo pur lepenista quanto all’antigrillismo.

Da noi, in effetti, la Lega di Matteo Salvini, così diversa da quella fondata e a lungo guidata da Umberto Bossi, non potrà mai concorrere in voti col movimento pentastellare di Beppe Grillo. Potrebbe al massimo fargli da supporto parlamentare se al partito, o come diavolo preferisce chiamarsi, del comico genovese dovesse riuscire di salire in testa alla graduatoria elettorale e di rivendicare il diritto all’incarico di presidente del Consiglio. Cui ben difficilmente Grillo designerebbe davvero i vari Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, ma forse uno come Piercamillo Davigo. Così finirei paradossalmente per rimpiangere la Repubblica giudiziaria che pur vado lamentando da 25 anni, quanti ne sono passati dal terremoto politico di Tangentopoli, di fronte a quella ancora più autenticamente e sfacciatamente giudiziaria che diventerebbe l’Italia con l’ex presidente dell’associazione nazionale dei magistrati a Palazzo Chigi.

Non ditemi, per favore, di stare tranquillo, anzi sereno, come preferirebbe Matteo Renzi, avendo Davigo appena assicurato di non avere ambizioni politiche. Già altri magistrati dissero così e poi ce li siamo trovati parlamentari, ministri e capipartito. Basta un nome per tutti: Antonio Di Pietro.

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Confalonieri non ha fatto un buon servizio a Calenda incoraggiandone la carriera politica, gli ha anzi tirato contro la porta sfondandogli la rete, perché ha allarmato più di quanto già non lo fosse per suo conto il risegretario del Pd Matteo Renzi. Che per le dimensioni del partito che guida e per temperamento ritiene di essere quello che dà le carte. E non ha certamente gradito il discorso di Calenda all’assemblea della Confindustria, dove Confalonieri si è spellato le mani ad applaudirlo prima di correre a salutarlo come il Macron italiano, fingendo furbescamente di scherzare ma non scherzando per niente.

E’ stato un discorso, quello del ministro del (mancato o scarso) sviluppo economico, tutto proteso a contestare la prospettiva delle elezioni anticipate sulla quale invece Renzi è tornato a lavorare, se mai avesse smesso di farlo, ora che ha trovato una sponda nella Forza Italia di Silvio Berlusconi, pur al netto di qualche malpancista azzurro.

Non a caso proprio dopo l’uscita di Confalonieri, che spesso mostra di dissentire dal suo amico di una vita e socio d’affari Silvio Berlusconi non per mettersi davvero di traverso ma solo per un vantaggioso scambio delle parti, Renzi ha frenato il gruppo del suo partito alla Camera nella corsa verso la riforma elettorale in cantiere nella competente commissione per incontrare prima, e di persona, l’ex Cavaliere di Arcore. Al quale- statene certi, al di là o contro tutte le smentite che potranno o dovranno arrivare- chiederà quali intenzioni o progetti abbia davvero per Calenda, magari ricordandogli che l’aiuto offerto dal ministro alla difesa di Mediaset dalla scalata della francese Vivendì non è stata una iniziativa personale, ma di governo. E di un governo presieduto, per scelta e sotto il controllo del suo partito, da Paolo Gentiloni.

Il “Renzusconi” che è appena tornato a denunciare il solito Massimo D’Alema in una intervista al Corriere della Sera, rappresentandolo come il pericolo maggiore per la democrazia italiana, non ha tanta carne politica attorno all’osso, per cui il segretario del Pd non può essere molto generoso, e tanto meno sprovveduto, nella immaginazione dello scenario post-elettorale, quando si potranno o dovranno fare gli accordi di governo, non essendo materialmente prevedibile l’autosufficienza di nessuno dei leader e dei partiti in campo.

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E’ nota, anzi arcinota, l’ambizione di Renzi a tornare anche a Palazzo Chigi, per una seconda edizione del cosiddetto doppio incarico, per quanto esso non abbia portato molta fortuna a chi l’ha praticato nella prima Repubblica, in particolare ad Amintore Fanfani e a Ciriaco De Mita, e neppure a lui. Che è rimasto a Palazzo Chigi per più di mille giorni, come si è sempre vantato l’ex presidente del Consiglio, ma senza riuscire a trasformare il suo maggiore potere in maggiore consenso, visto l’esito disastroso, peraltro non solo per lui, del referendum del 4 dicembre scorso sulla riforma costituzionale.

Sono in parecchi fra gli stessi amici vecchi e nuovi, come il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari, ad avere sconsigliato e a sconsigliare ancora a Renzi di puntare daccapo su Palazzo Chigi. Ma lui, si sa, è un testone. Non demorde facilmente. Anzi, sembra avere fatto ultimamente un po’ di breccia nel muro di Scalfari, arrivato recentemente a riconoscere che, nonostante tutto, il ritorno alla guida del governo potrebbe rivelarsi utile, se non necessario, a Renzi per portare davvero avanti i suoi apprezzabili propositi di riforma istituzionale dell’Europa: ricorso al ministro unico delle Finanze ed elezione diretta del presidente della Commissione di Bruxelles e insieme anche presidente del Consiglio Europeo.

Sono in parecchi anche a sapere che Berlusconi, per quanto interessato ad un nuovo patto del Nazareno, nonostante le delusioni procurategli dal primo, infrantosi contro lo scoglio dell’elezione del successore di Giorgio Napolitano al Quirinale, teme un’eccessiva visibilità, e potere, di Renzi perché questi è pur sempre, e sempre di più diventerà, un suo concorrente elettorale, specie ora che del Pd non fanno più parte i vari D’Alema e Pier Luigi Bersani.

Messo alle strette, se proprio dovesse rinunciare al progetto di Palazzo Chigi per l’interesse di Berlusconi a tenervelo lontano, Renzi potrebbe consentire nella nuova legislatura la conferma di Paolo Gentiloni, non a caso più volte apprezzato pubblicamente da Berlusconi, non certo la promozione di Calenda, Che userebbe la guida del governo per preparare meglio la sua evoluzione verso il modello Macron indicatogli da Confalonieri, visto che i tempi ormai sempre più stretti delle elezioni non gli consentono di imitare subito il nuovo presidente francese.

 

 

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Assalto fallito alla famiglia Mattarella

Si è verificato un grosso incidente, a dir poco, fra Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio e il Quirinale. Dove il presidente della Repubblica non ha per niente gradito, com’era prevedibile, una campagna riaperta all’improvviso contro la memoria del padre, Bernardo Mattarella. E ciò per una somma di errori e di responsabilità nel nome addirittura di Giovanni Falcone, con carte trovate fra quelle pubblicate dal Consiglio Superiore della Magistratura per onorare la memoria del giudice siciliano nel venticinquesimo anniversario della sua tragica morte, nella strage di Capaci.

Fra quelle carte, tutte desecretate con orgoglio al Palazzo dei Marescialli, al Fatto Quotidiano ne hanno scorto subito una che deve essere apparsa loro esplosiva, e su cui hanno sparato due titoli, a pagina 1 e a pagina 10 del numero dell’altro ieri, che parlano da soli.

“Falconi rivelò: Piersanti Mattarella disse: mai più voti mafiosi a casa di papà”, è stato il vistoso richiamo in prima pagina di un articolo di Giuseppe Lobianco, titolato all’interno così: “Quando Piersanti Mattarella rifiutava i voti di suo padre”.

Il presidente della Repubblica, per quanto preso da impegni internazionali come l’incontro al Quirinale col capo della Casa Bianca Donald Trump, si è improvvisamente rivista come un incubo la rappresentazione sostanzialmente mafiosa del padre, e quasi autocertificata dal fratello Piersanti, il governatore siciliano ucciso dalla mafia nel giorno della Befana del 1980. Una rappresentazione già fatta negli anni Sessanta, con voci e cartacce della commissione parlamentare antimafia, in un libro del sociologo Danilo Dolci. Che nel 1967 fu condannato, fortunatamente in tempo perché Bernardo Mattarella potesse vedersi riconoscere ancora in vita la sua onorabilità in tribunale, ma non in tempo per risparmiarsi l’anno prima l’interruzione di una pur lunga carriera ministeriale cominciata negli anni di Alcide De Gasperi. A dovergliela interrompere, sia pure formalmente per giochi di equilibri politici all’interno del suo partito, dovette essere addirittura il pur amico Aldo Moro, alla cui corrente nel 1968 l’ormai ex ministro fu tra i primi a aderire rompendo con i “dorotei” di Mariano Rumor e Flaminio Piccoli.

Fedele all’amicizia e alla stima che aveva di lui, Moro pur da posizioni ormai di minoranza nel suo partito, essendo stato defenestrato da Palazzo Chigi, reclamò e ottenne la nomina di Bernardo Mattarella a presidente della commissione Difesa della Camera, dove l’ex ministro fu colto da un malore che lo portò alla morte nel 1971.

I due titoli del Fatto Quotidiano e l’articolo di Giuseppe Lobianco hanno potuto giovarsi del richiamo a Falcone per l’imprudenza da quest’ultimo avuta, nonostante la sua nota cautela, di riferire in un’audizione al Consiglio Superiore della Magistratura del 15 ottobre 1991 una confidenza fattagli dall’avvocato palermitano Sorgi dopo la morte di Piersanti Mattarella.

In particolare, fidandosi a torto dell’amico avvocato, Falcone ne riferì la “felicità” espressagli dall’allora governatore siciliano, prima della tragica fine che lo aspettava nel 1980 per ordine della mafia, di avere ereditato dal padre un collegio elettorale difficile come quello di Trapani riuscendo però a farsi votare un po’ dappertutto, e non solo a Castellammare del Golfo. Che fra i vari centri del collegio, con più di 15 mila abitanti, era quello a maggiore densità mafiosa, ed era stato il più generoso di voti per il compianto Bernardo Mattarella. Da qui i titoli del Fatto Quotidiano, forse già forzati un po’ rispetto al racconto di Sorgi preso per buono da Falcone.

Letteralmente indignato, e non volendo intervenire in prima persona, il presidente della Repubblica si è affidato all’avvocato Antonio Coppola per smentire con una lettera “a nome e per conto degli eredi Mattarella” che il fratello si fosse mai presentato candidato nel collegio di Trapani. Egli si era proposto agli elettori sempre e solo a Palermo. Quella di Trapani pertanto era stata una bufala, una grandissima e gravissima bufala.

E’ una circostanza questa che certamente Falcone avrebbe potuto e dovuto verificare. Non sarebbe stato difficile. Ma così avrebbero potuto e dovuto fare anche gli illustrissimi consiglieri superiori della magistratura cui Falcone aveva riferito quella bufala. Così come avrebbero dovuto e potuto verificare gli illustrissimi signori del Consiglio Superiore della Magistratura in carica, e presieduto per dettato costituzionale dallo stesso Sergio Mattarella, prima di desecretare anche quell’infelice audizione, vista la persona di cui si parlava, e di inserirla nella pubblicazione disposta in onore di Falcone, come atto quasi riparatorio di tutti i torti fatti a quel magistrato in vita: le famose “sofferenze” denunciate pochi giorni fa dalla sorella Maria, convinta giustamente che il fratello avesse cominciato a morire ben prima di essere ucciso nella strage di Capaci, quando gli fu negata la nomina a consigliere istruttore a Palermo. O quando fu sottoposto ad una specie di processo davanti al Csm per l’accusa rivoltagli dall’allora e ancora sindaco di Palermo Leoluca Orlando di proteggere praticamente i politici collusi secondo lui con la mafia, a cominciare da Giulio Andreotti.

Ma verifiche e controlli su quell’audizione, prima di prenderla per buona pure loro e di sparare contro Mattarella quei due titoli da santabarbara, avrebbero potuto e dovuto farli anche nella redazione del Fatto Quotidiano. Dove continuamente, e da tempo, si danno lezioni agli altri giornali che valorizzano o enfatizzano notizie giudiziarie e voci su politici di parte, per esempio, grillina.

Con quella lettera dell’avvocato di famiglia, peraltro scritta in termini civilissimi ma confinata all’interno del giornale di Travaglio in uno spazio minimale, come una qualsiasi precisazione, il presidente della Repubblica riteneva non solo di avere chiarito tutto ma di potersi anche aspettare qualche parola non dico di scuse, ma quanto meno di rammarico per tutti gli equivoci, a dir poco, intervenuti.

Invece Il Fatto Quotidiano nel prendere atto della smentita, bontà sua, ha ricordato la fonte dell’informazione, cioè dell’errore, invitando di fatto l’avvocato e gli eredi Mattarella da lui rappresentati, compreso quindi il capo dello Stato, a prendersela con la buonanima di Falcone e -aggiungo io- con la dabbenaggine del Consiglio Superiore da lui stesso presieduto.

Mettetela a questo punto come volete, ma dalla vicenda emerge con desolante preoccupazione quanto facile sia in questo Paese giocare con l’onorabilità dei vivi e persino dei morti.

Il povero Bernardo Mattarella a 46 anni dalla sua scomparsa ha ancora bisogno di un avvocato, come se non bastasse la condanna subita da chi lo diffamò in vita, per cercare di riposare in pace. E il figlio Sergio, arrivato al vertice dello Stato, temo che debba ancora imparare a scoprire di quale pasta siamo capaci di essere anche noi giornalisti, e non solo i magistrati di cui lui presiede l’organo di cosiddetto autogoverno.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio del 26 maggio 2017

Il ritorno dell’Unità e di Sergio Staino alla direzione

         Due buone notizie insieme, una volta tanto, da e sull’Unità, il giornale storico della sinistra comunista prima e post-comunista poi, fondato nel lontano 1924 da Antonio Gramsci, due anni prima che lui, per quanto deputato, fosse fatto arrestare da Mussolini. Che gli restituì la libertà nel 1937, ma solo quando non gli serviva più, mentre l’intellettuale moriva in una clinica romana per una malattia aggravata dalla lunga detenzione e dalle sofferenze procurategli anche dai compagni, ma soprattutto dai dirigenti del partito ormai in clandestinità. I quali ne scoprirono tutti i pregi, anche loro, troppo tardi, dopo il decesso, la fine della dittatura fascista e la diffusione, peraltro mutilata originariamente, dei famosi quaderni scritti in carcere. Di cui è in corso proprio in questi giorni a Montecitorio una mostra toccante, apprezzabile pure da chi non ha condiviso il comunismo o lo ha combattuto, anche a costo di essere scambiato per un reazionario.

         Il giornale, oggi di riferimento del Pd guidato da Matteo Renzi, non certo di cultura e formazione gramsciana, è tornato in edicola dopo sette giorni di sciopero della redazione contro la pretesa della società editrice di trattarla peggio dei padroni delle ferriere di una volta. E vi è tornata sotto la guida di Sergio Staino, che se n’era allontanato dissentendo a sua volta dai metodi di lotta scelti dalla redazione, prima ancora che la vertenza si aggravasse, e forse contribuendo ad aggravarla, come l’allora direttore aveva previsto o temuto, e inutilmente tentato di scongiurare.

         Sergio Staino, toscanaccio di 77 anni da compiere il mese prossimo, non è tanto un giornalista quanto un artista. Ogni sua vignetta vale più di un articolo di fondo, e a volte più dell’intero numero del giornale dove compare in prima pagina. La sua forte passione politica, ovviamente di sinistra, si coniuga straordinariamente col realismo, per cui alla sua età Staino è stato ed è capace di aggiornarla ai tempi e alle condizioni che cambiano.

         Ben tornato, Sergio. E in bocca al lupo. Crepi, naturalmente, il lupo.

        

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